San Colombano

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San Colombano Abate
Nascita 542 ca.
Morte 23 novembre 615
Venerato da Chiesa cattolica, Chiese ortodosse, Chiesa anglicana
Beatificazione 627
Canonizzazione 23 novembre 642
Santuario principale abbazia di San Colombano
Ricorrenza 23 novembre in Italia; 21 e 24 novembre in Irlanda
Patrono di motociclisti, Luxeuil-les-Bains (in Francia), Bobbio e altre località (vedi Patronati)
Colombano di Bobbio (in gaelico: Colum Bán, «colomba bianca»; latino: Columbanus Bobiensis; Navan, 542 circa – Bobbio, 23 novembre 615) fu un monaco missionario irlandese, noto per aver fondato da abate numerosi monasteri e chiese in Europa. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalle Chiese ortodosse e dalla Chiesa anglicana.
È conosciuto anche con altri nomi, impropri e più rari, quali san Colombano di Luxeuil (in Francia) o san Columba il Vecchio.
Tramite le sue numerose fondazioni contribuì alla diffusione in Europa del monachesimo irlandese. Stabilì una regola monastica che in seguito fu assimilata a quella benedettina e poi definitivamente abrogata anche formalmente nel 1448 da papa Niccolò V. Introdusse con il Paenitentiale l’uso della confessione privata in sostituzione di quella pubblica per il sacramento della penitenza.
Papa Benedetto XVI lo ha definito « santo europeo »[1]. Infatti, San Colombano stesso scrisse in una lettera[2] che gli europei dovevano essere un unico popolo, un « corpo solo » che viene unito da radici cristiane in cui le barriere etniche e culturali vanno superate; inoltre usò per la prima volta l’espressione latina totius Europae[3][4].
Colombano nacque tra il 540 e il 543 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale). Secondo la leggenda agiografica della sua vita, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce.
Formazione e vita monastica in Irlanda [modifica]
Colombano andò a scuola presso un maestro laico (fer-lèighin), apprendendo a leggere e a scrivere. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia (allevamento del bestiame, conciatura delle pelli, caccia e pesca) e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada.
A quindici anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre. Abbandonò la famiglia e si recò al monastero di Clinish Island (Cluane Inis, in gaelico), sull’isola di Cleen dei laghi Lough Erne, dove venne accolto dall’abate Sinneill, che aveva studiato nel monastero di Clonard con Columba di Iona (Columcille). Qui Colombano studiò le Sacre Scritture e apprese il latino.
Terminati gli studi si trasferì presso il monastero di Bangor (Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall si praticava una stretta disciplina ascetica e la mortificazione corporale. Secondo la tradizione monastica irlandese, Colombano decise di seguire la peregrinatio pro Domino, partendo per fondare altri monasteri e diffondere la fede cristiana.
Arrivo in Francia e monasteri in Borgogna
Peregrinatio storica di San Colombano 590-615
Partì da Bangor verso il 590, all’età di 50 anni, imbarcandosi con 12 monaci suoi compagni del monastero di Bangor: Gall (san Gallo), Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum (Colomba il giovane), Deslo, Luan, Aide, Léobard, e Caldwald.
Visitò l’isola di Man e la piccola isola di San Patrizio, che secondo la leggenda custodiva la tomba di Giuseppe di Arimatea sepolto assieme al Santo Graal[6]. Sbarcato quindi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion. Percorrendo l’antica strada romana che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel, visitò anche Tintagel e arrivò a Plymouth, da dove si imbarcò nuovamente per la Bretagna.
Approdò nella Francia merovingia nei pressi di Saint-Malo e di Mont-Saint-Michel, nel luogo dove in seguito venne posta una grande croce. Si recò quindi a Rouen, Noyon e Reims in Austrasia e passò in Burgundia dove regnava il re Gontrano. Grazie alle concessioni del re fondò tre monasteri (Annegray, Luxeuil e Fontaines). Ad Annegray san Colombano e i suoi compagni riadattarono un antico castello diroccato, ed edificarono un monastero tra il 591 ed il 592, con una chiesa dedicata a san Martino di Tours. All’inizio i monaci vissero di elemosina e questue, ma in seguito si dedicarono anche alla coltivazione dei campi. San Colombano si ritirava nelle grotte dei dintorni per vivervi da eremita.
La comunità monastica si ingrandì e fu presto necessario creare un nuovo centro monastico a 8 miglia verso sud-est, presso le rovine della città termale di Luxeuil-les-Bains, dove venne costruito un monastero con una chiesa dedicata a San Pietro. Un altro monastero, con una chiesa dedicata a san Pancrazio, venne fondato anche a Fontaines.
San Colombano si trasferì nel 593 a Luxeuil, da dove diresse i tre monasteri con i suoi priori. Vi scrisse due regole, la Regula monachorum e la Regula cenobialis, e il Paenitentiale. La vita monastica era basata su pratiche ascetiche e sulla penitenza e comprendeva inoltre la pratica della lettura e scrittura quotidiane dei monaci, per alimentarne lo spirito: nei monasteri vennero anche fondati scriptoria.
I monasteri entrarono in conflitto agli inizi del VII secolo con l’episcopato francese: Colombano desiderava seguire le tradizioni della propria terra di origine ed ebbe particolare rilievo il differente calcolo della data della Pasqua. Colombano entrò in conflitto per questo motivo con il re merovingio della Burgundia Teodorico II, mentre Brunechilde, nonna del re, fu fortemente irritata dalle sue critiche sul proprio comportamento. Nel 609 Colombano fu espulso da Luxeuil e fu messo in carcere a Besançon, da dove però, allentatasi la sorveglianza riuscì a fuggire per tornare a Luxeuil. Nuovamente arrestato, nel 610 fu condotto in barca lungo la Loira verso Nantes, da dove avrebbe dovuto ritornare per mare verso l’Irlanda con i suoi dodici compagni.
Secondo la leggenda agiografica durante il viaggio, giunti presso Tours, essendogli stato negato dai soldati il permesso di visitare la tomba di san Martino, il battello si diresse miracolosamente verso l’approdo, dove si incagliò e i soldati riuscirono a muoverlo di nuovo solo dopo che gli fu concesso quanto desiderava. A Nantes l’assoluta mancanza di vento impedì la partenza verso l’Irlanda e quando la scorta si fu miracolosamente addormentata, Colombano, sfuggì di nuovo alla sorveglianza.
Neustria e Austrasia
Sfuggito al re burgundo, Colombano passò quindi in Neustria, verso Rouen, Soissons e Parigi. Qui regnava Clotario II, che gli concesse la sua protezione. In Neustria santa Fara (Borgundofara), figlia di amici di Colombano, fondò l’abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il santo e i suoi compagni e seguaci fondarono altri monasteri, tra i quali Remiremont, Rebais, Jumièges, Noirmoutier, Saint-Omer.
Colombano si spostò quindi nel 611 alla corte di Teodeberto II, re d’Austrasia, passando per le città di Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e Costanza. Il re lo invitò ad evangelizzare le terre ancora pagane dei Sassoni e degli Alemanni lungo il fiume Reno e Colombano fondò un nuovo monastero a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, l’eremo di Sant’Aurelia.
Nel 612 Colombano decise di recarsi a Roma per ottenere l’approvazione della propria regola da parte del papa Bonifacio IV. Lungo il cammino il suo discepolo Gallo fu costretto a fermarsi perché ammalato e fondò in quel luogo l’Abbazia di San Gallo. Secondo la leggenda agiografica, per essersi voluto fermare in seguito alla malattia, Colombano avrebbe imposto al discepolo di non celebrare più messa fino alla sua morte. Nel momento della morte di Colombano, Gallo avrebbe avuto in sogno la visione di Colombano che in forma di colomba bianca saliva al cielo e avrebbe celebrato dunque la sua prima messa in suo onore.
Colombano nel valicare le Alpi per giungere in Italia, attraversò il Passo del Settimo (o Septimer Pass). Giunto a Milano, Colombano si pose sotto la protezione del re longobardo Agilulfo, che era tuttavia ariano, e della regina Teodolinda, che gli chiesero un suo intervento nella spinosa questione tricapitolina. In cambio il santo ottenne la possibilità di creare sul suolo demaniale un nuovo centro di vita monastica. Il luogo, segnalato da un certo Giocondo, venne esaminato dalla stessa regina Teodolinda, salita sulla vetta del monte Penice, la quale chiese al santo di dedicare alla Madonna la piccola chiesetta in cima alla vetta, futuro santuario di Santa Maria. L’area si trovava nel cuore dell’Appennino in una zona fertile e molto produttiva, dove abbondavano acque correnti e c’era pesce in quantità. Nella zona si trovavano anche antiche terme e sorgenti, sia termali che saline da cui si traeva il sale. La scelta del luogo ne faceva un avamposto religioso e politico controllato dal regno longobardo verso le terre liguri, ancora bizantine. Con il documento del 24 luglio del 613 che donava a Colombano il territorio per fondarvi il nuovo monastero, vennero attribuiti a questo anche la metà dei proventi delle saline del luogo, che appartenevano in precedenza al duca Sundrarit.
Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro (situata dove ora vi è il castello malaspiniano) e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano. Secondo la leggenda agiografica, nonostante la presenza di una fitta boscaglia, che ostacolava il trasporto dei materiali da costruzione, san Colombano avrebbe sollevato i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell’episodio dell’orso e del bue, che fu in seguito numerose volte raffigurato nell’arte: un orso uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all’aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l’orso a lasciarsi aggiogare all’aratro per terminare il lavoro al posto del bue ucciso.
Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala e tornando al monastero solo alla domenica. Qui gli giunse la visita di Eustasio, suo successore a Luxeuil, inviato dal re Clotario II, il quale aveva nel frattempo riunito sotto il suo dominio i tre regni merovingi precedentemente esistenti e desiderava il suo ritorno in Francia.
Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età di 75 anni, la domenica 23 novembre del 615. Come secondo abate del monastero gli succedette Attala (615-627). La sua tomba si trova tuttora nella cripta dell’abbazia insieme a quelle degli abati suoi successori (Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano), e di altri diciotto monaci e di tre monache.
Giona, monaco nell’abbazia di San Colombano a Bobbio, fu incaricato dall’abate Attala di scrivere una biografia in latino del santo che è la fonte principale per le vicende della sua vita.
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Un potere che si fa dono
mons. Antonio Riboldi
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) – Cristo Re (25/11/2012)
Vangelo: Gv 18,33-37
La Chiesa chiude l’anno liturgico con la Solennità di Cristo Re. La storia della salvezza inizia con la venuta e presenza tra di noi del Figlio di Dio. sappiamo tutti che, dopo il peccato originale, l’uomo aveva escluso se stesso dalla partecipazione alla vita stessa di Dio. Con la scelta libera di voler ‘essere come Dio’ – tragico atto di superbia, istigato da satana, l’angelo ribelle; l’uomo si era privato del bene supremo, per se stesso e la propria eterna realizzazione: essere figlio del Padre, vivere a stretto contatto con Lui e poter un giorno ritornare alla Casa della sua origine.
Un assurdo atto di superbia, di pura arroganza, quello dell’uomo creatura, che si ribella al suo Creatore: una superbia che ancora oggi serpeggia – è proprio il termine giusto – in tanti, che antepongono se stessi, misere e limitate creature, al nostro Dio e Padre, negando anche la profonda nostalgia di infinito ed eterno che ci abita, come ‘traccia’ indelebile del nostro essere stati creati, non per la materia, ma per vivere nello Spirito, poiché: « fatti a Sua immagine e somiglianza ».
Questo mondo terreno e questa vita limitata dal tempo e dallo spazio non possono essere la nostra Casa definitiva. Lo vogliamo o no, tutti sentiamo la nostalgia di una felicità piena, che solo l’Infinito e l’Eterno, Dio, possono donarci: è questo il nostro vero DNA!
Dall’errore iniziale passò un lungo tempo di attesa e di preparazione alla riconciliazione, voluta dal Padre, con l’umanità, con ciascuno di noi. È la storia narrata nel Vecchio Testamento.
Fino alla venuta del Figlio prediletto, tanto amato, l’Unico, che, facendosi uno di noi, assumendo tutto della nostra umanità, anche il peccato – causa della separazione – poteva annullarne le conseguenze – il dolore e la stessa morte – donando totalmente Se stesso, soffrendo e morendo sulla croce, per poi risorgere, perché anche noi potessimo ‘rinascere a vita nuova’.
Durante l’anno liturgico la Chiesa, non solo ricorda, ma rinnova la storia di quegli anni di Gesù tra noi, fino al momento in cui, con la Risurrezione, ha spalancato per noi il Cielo, divenendo davvero il nostro Signore e Re. Ora sappiamo che Dio è Padre, Gesù il nostro Salvatore e Re e noi figli e fratelli, chiamati, dopo il Battesimo, a costruirci quella storia di santità, che ci dà diritto al Cielo.
Da qui la solennità della Regalità di Gesù, che la Chiesa oggi celebra.
È dunque giusto chiederci se la nostra vita è davvero un cammino verso il Cielo o non è spesso quasi un vagabondare senza meta. Davvero Gesù è il Re e Signore della nostra vita o, più per ignoranza, forse, che per cattiveria, percorriamo altre vie, che non portano al Regno di Dio?
Abbastanza facilmente ci definiamo cristiani, ma la nostra vita è davvero un camminare seriamente e consapevolmente sulle orme di Cristo, seguendo il Suo esempio di vita, vivendo in comunione di sentimenti con Lui, operando sotto l’azione del Suo Spirito, o non rischia di essere spesso solo una formalità esteriore?
La Solennità di Cristo Re, il ripensare alla storia di Gesù tra noi, ci aiuta a riflettere e correggere, se necessario, l’orientamento della nostra esistenza. Gesù, Figlio di Dio, fatto uomo, pare quasi abbia scelto i momenti più drammatici della sua vita, per affermare le grandi verità del Cielo, così da escludere ogni possibilità di ombre o ambiguità nella loro comprensione da parte nostra.
Davanti a Pilato, che aveva il potere di giudicare e condannare Gesù, si deve difendere da una precisa accusa, che sicuramente agli occhi del governatore della Palestina doveva apparire grottesca: ‘Tu dici di essere il re dei giude ‘. Era mai possibile essere re senza un territorio, senza potere né uomini né armi? Ben altro era Pilato, che rappresentava l’Impero Romano, pronto a mostrare la sua forza, che non guardava troppo per il sottile i diritti degli uomini, altro era Gesù, davanti a Pilato, solo, vilipeso da tutti, abbandonato anche dai suoi discepoli, impauriti e nascosti, dei ‘poveracci’ diremmo noi oggi: Gesù, con la sola forza di Figlio di un Dio, alieno da ogni esercizio di potenza umana, di violenza e sopruso, un Dio ‘che ama il diritto e la giustizia… che consola gli orfani e le vedove… pieno di misericordia verso tutti gli uomin ‘.
La potenza di Dio, in Gesù, era ed è, anche oggi, l’Amore, unica ragione della sua presenza tra di noi.
E Gesù, sapendo di essere – come uomo e come Dio-Amore – totalmente nelle mani del mostruoso potere umano, avendolo liberamente accettato con la logica provvidenziale dell’Amore, che si fa dono, fino a donare la vita, essendo venuto tra di noi per farsi vittima agli occhi del Padre, per riscattare noi dalla colpa, all’accusa risponde con la disarmante chiarezza che è la caratteristica del suo essere la Verità: ‘Tu lo dici: io sono re’. Davvero un Amore infinito e fedele che dovrebbe commuoverci e attrarci, ma che troppe volte dimentichiamo.
Contempliamo l’incontro di Gesù e Pilato nel Vangelo di Giovanni: « In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». (Gv 18,33b-37)
Davvero due modi contrapposti di esercitare la regalità e il potere: il primo, di Pilato, del mondo, non è un servizio, ma solo l’affermazione di una supremazia, come se gli uomini fossero ‘cosé e non meravigliosi figli del Padre; quello di Gesù, che, a differenza di noi, in quanto Figlio di Dio, il potere su di noi ‘potrebbe’ davvero esercitarlo, poiché ‘da Lui, in Lui e per Lui noi siamo creat » sceglie invece ‘il potere’ dell’Amore che si fa dono per salvarci.
La regalità di Gesù non si impone, la si può anche rifiutare, anche se il nostro rifiuto è come oscurare il Sole, mettendoci le mani davanti agli occhi, come a voler dimostrare che non esiste la luce!
La regalità di Gesù altro non è che il Suo Amore per ciascuno di noi, un desiderio intenso di farci partecipare ai Suoi beni.
Da parte nostra non dovrebbe esserci che un fiducioso ‘sì’, un gioioso ‘grazie’, abbandonandoci tra le sue braccia, a volte distesi con Lui sulla croce, ma che è sempre riposare in un Dio che ci ama in totalità. Per questo è davvero bello fare festa oggi, celebrando la Regalità di Gesù: è sapere che siamo nelle sue mani e nel suo Cuore. E’ un grandissimo dono sapere di appartenere a Gesù, nostro Dio e Signore ed è gioia profonda poter dire, nella fede certa: Gesù è il Re della mia vita.
Preghiamo che davvero Egli regni su di noi, a dispetto dei tanti Pilato, che continuano a pensare che il potere è quello che esercitano loro, senza rispetto della dignità altrui e perdendo anche la propria. Fermiamoci ancora un attimo a riflettere e pregare con le parole di Paolo VI.
« Ricordiamo… Cristo non è lontano nei secoli e nei luoghi propri della sua apparizione storica; Cristo è venuto nel mondo per vivere la sorte dell’intera umanità, per assorbire in sé quanto di umano possiede la stirpe di Adamo, all’infuori, s’intende, della macchia originata dal primo fallo; è venuto per riflettere ed emanare da sé sul mondo, quanto di umano e di divino egli ha destinato a nostro conforto, a nostro esempio, a nostra luce, a nostra salvezza. Cristo è vicino, Cristo è presente, Cristo è nostro, se lo sappiamo capire ed accogliere… Ma anche sappiamo che egli, il Viandante che si fa compagno al fianco dell’uomo, sia che questi corra nuove strade veloci, o sia che stenti nella stanchezza il suo arduo cammino, è stato dichiarato da tanti e tante estraneo, sconosciuto, inutile, quando addirittura non stato accusato di essere l’ostacolo, l’avversario, il nemico da crocifiggere ancora, oggi, come nel venerdì esecrando e santo di allora. «Chi è Cristo? A che cosa mi serve? Conosce lui i miei problemi? Come può lui aiutarmi a risolverli? E che relazione esiste tra lui e questo avvento del mondo nuovo?»: questioni queste, che sono in fondo all’anima di tanti, e che spesso vengono alle labbra senza trovare risposta. No, una risposta comincia ad essere formulata e pronunciata… E’ Cristo, il Dio fatto uomo, che proclama la dignità della vita, e perciò il suo carattere sacro e supremo; è lui il liberatore dai confini, dai vincoli che costringono l’uomo nella statura inferiore delle sue espressioni materiali e animali, e l’innalza alla statura di Figlio di Dio; è lui che porta, con il dono di sé, l’amore al mondo e riannodando i rapporti dell’uomo con Dio, rapporti ineffabili di figli al Padre dei cieli, rende uguali e fratelli fra loro gli uomini; è lui che, facendosi nostra carne, santifica e benedice le cose della terra e della vita, e ci insegna a scoprirvi sapienza e bellezza, a goderne con temperanza, ad ordinarle alla conquista finale d’un bene trascendente ed eterno ».
Davvero Cristo deve diventare il Re della nostra vita! Questa è la Grazia suprema, per noi.
OMELIA dell’Em.mo Signor Cardinale Darío Castrillón Hoyos
Prefetto della Congregazione per il Clero
CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA MEMORIA DI SANTA CECILIA
Cappella di Santa Cecilia
Chiesa dei Santi Carlo e Biagio ai Catinari
Roma, 21 novembre 1998
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Sia lodato Gesù Cristo!
Carissimi sacerdoti concelebranti, carissimi diaconi, fratelli e sorelle tutti,
1) E per me motivo di grande gioia presiedere questa Concelebrazione Eucaristica nella memoria della grande Santa, vergine e martire romana, Cecilia, Patrona della musica e del canto sacro, sotto la cui protezione è posta questa insigne Accademia che, nota in tutto il mondo, costituisce un giusto vanto nazionale.
Dal luogo della splendida Cappella a lei dedicata rivolgo, innanzitutto, un particolare ringraziamento al Pontificio Consiglio della Cultura che ha felicemente promosso la nobile maestà di questa Sacra Liturgia.
Saluto poi, con affetto, tutti voi qui presenti, il maestro concertatore e direttore, il maestro del coro, i membri e collaboratori dell’Accademia – artisti del coro, professori dell’orchestra, docenti, personale tutto – rivolgendo un particolare pensiero al suo Presidente, l’illustrissimo Professore Bruno Cagli e al Direttore artistico. Intendo esprimervi la mia più viva riconoscenza per l’attenzione che riservate al grande repertorio sacro e, con ciò stesso, per il servizio che prestate alla Chiesa intera, coadiuvandola a conservare ed incrementare l’inestimabile valore del suo sacro patrimonio musicale, ben consapevoli che la musica ed il canto sacro sono eccellenti espressioni dell’arte nel culto divino e, per usare le parole della Costituzione del Concilio Vaticano II Sacrosantum Concilium, Aparte necessaria ed integrante della Liturgia solenne (n. 112).
Questo patrimonio musicale, fra l’altro, perfettamente consono allo spirito della riforma liturgica, è a servizio della partecipazione interiore del popolo alla celebrazione dei divini misteri, costituisce altissima catechesi, racchiude in sé una straordinaria forza ecumenica e missionaria, è fattore promozionale di un umanesimo che si realizza pienamente in Cristo.
2) Celebriamo la memoria di Santa Cecilia con un giorno di anticipo, data la coincidenza con l’ultima domenica dell’anno liturgico, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo. Tale circostanza provvidenziale ci aiuta a preparare con maggior fede e letizia l’incontro con il nostro Redentore, accogliendo il Suo Aregno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace (Prefazio della Solennità di Cristo Re): veneriamo infatti Cecilia, quale virgo clarissima, Coeli lilia, Giglio del Cielo, come un’antica tradizione ama invocarla; la contempliamo mentre viene accolta nella gloria divina con musiche e canti, accedendo al banchetto nunziale, con parole del noto brano della sua Passio (doc. del IV sec.): ACantantibus organis, Caecilia, in corde suo, soli Domino decantabat, dicens: – Fiat cor et corpus meum immaculatum ut non confundar -, AMentre gli strumenti suonavano, Cecilia cantava in cuor suo all’unico Signore: – Il cuore e corpo mio restino immacolati affinchè io non sia confusa -.
Possiamo rivolgerci a lei, gioiosa in Cielo, Alà canterà come nei giorni della sua giovinezza, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura tratta dal Profeta Osea; ci dirigiamo a lei con l’invocazione della Oratio collecta Aaffinché interceda per noi rendendoci degni di cantare le lodi del Signore.
Uniti all’anima innamorata di Cecilia, anche noi, seguendo con piena fedeltà la viva e perenne Tradizione della Chiesa, cantiamo oggi, lodando Dio per le meraviglie da Lui operate continuamente nella nostra vita: a Lui che ci libera, mediante la grazia, dai lacci che il demonio ci tende; a Lui che ci aiuta a vincere il peggior nemico, che siamo noi a noi stessi quando ci lasciamo invadere dalla tristezza e sfiducia per la mancanza di fede e di speranza.
3) AInquantum homo per divinam laudem affectu ascendit in Deum, intantum per hoc retrahitur ab his quae sunt contra Deum (2a-2ae q. 91 a 1 resp.), afferma San Tommaso nella sua nota Quaestio sul canto liturgico: ATanto l’uomo con devozione ascende a Dio per mezzo della lode divina, quanto egli si ritrae da ciò che è contro Dio; la lode tributata a Dio eleva l’uomo, lo fa ascendere, allontanandolo da ciò che si oppone a Dio – il suo egoismo e la sua superbia -, ridestando l’uomo interiore. AValet tamen exterior laus oris ad excitandum interiorem affectum laudantis (Ibid a1 ad 2) aggiunge l’Aquinate: AContribuisce tuttavia la lode esteriore delle labbra a suscitare l’interiore affetto di colui che loda.
Lo aveva bene sperimentato Sant’Agostino a Milano vivendo l’esperienza della Chiesa che canta; la melodia divenne in lui forza divina trasformatrice, conducendolo sulla via della conversione: AQuanto piansi tra gli inni e i cantici, vivamente commosso alle voci della tua Chiesa, soavemente eccheggiante. Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillavano la verità nel mio cuore; mi accendevano sentimenti di pietà; le lacrime, intanto, scorrevano e mi facevano bene (Conf. IX 6-14).
Nell’unica Chiesa di Cristo, che è focolare di gioiosa speranza, sappiamo che il canto e la musica sacri sono speranza in atto, perché sono preghiera. Pertanto imparare a cantare a Dio, così come imparare ad ascoltare la musica sacra è imparare a pregare con maggior speranza; ed è perciò anche, ed in ultima analisi, imparare a vivere la vita di Dio in noi, la vita di grazia che, dal santuario del nostro intimo, deborda nella società come lievito del Regnum Christi.
4) Non possiamo dimenticare che la stessa iconografia ceciliana, specialmente a partire dal XXIV secolo, ce la raffigura colma di allegria per la presenza del Signore e recante accanto a sé strumenti musicali – la lira, la cetra, l’organo, il clavicembalo, l’arpa, il liuto, la viola, il violoncello – circondata spesso di angeli musicanti: così la ritraggono il Domenichino e Guido Reni, così il Rubens e Pierre Mignard; dalla Chiesa di San Luigi dei Francesi al Louvre, dalla Cattedrale di Palermo alla Pinacoteca di Dresda, la figura della martire romana, impersonando lo spirito del canto e della musica sacri, esce dai limiti dell’arte italiana per divenire ispiratrice dell’arte europea ed internazionale, anzi, dell’arte che non ha più frontiere, come non ha più frontiere il buono, il vero e il bello.
La bontà, la verità e la bellezza sono in Dio, l’Assoluto, e sono partecipati agli uomini che, camminando per quei sentieri, dopo averne gustato i frammenti, se riflettono con cuore puro alla luce della grazia, ne colgono la pienezza e l’unità in Cristo Pantocrator. Bello, vero e buono convergono e fanno ritrovare l’umanità riunita in Dio.
Che splendida e compiuta realizzazione quella di Raffaello (1516) nel celebre dipinto della Pinacoteca di Bologna! La Santa, accompagnata dalla strumentazione musicale terrena, è tutta protesa verso l’ascolto di celesti armonie; qui la Vita divina trinitaria, il Paradiso, la stessa Comunione dei Santi sono melodia, proporzioni di luce e di colore. Così è, e deve essere, perché la santità è davvero armonia, magnificenza e splendore.
5) Le armonie del Paradiso per il quale siamo fatti, meglio si comprendono – ecco gli aspetti catechistici – se nelle nostre chiese, nelle nostre liturgie il multiforme magistero dell’arte continuerà ad accompagnarci. Per questo, qui ora non c’è uno spaccato di un raffinato museo, ma qui ora, Ain novitate sensu (Rm 12,2) – rinnovato tutto il nostro sentire ed il nostro operare – stiamo davvero pregando gioiosi, confortati dalla nuova e definitiva manna dell’Eucaristia, dopo aver abbandonato il lievito di una volta! Musica e canto veramente sacri, espressioni artistiche architettoniche, pittoriche, scultoree e nobilmente artigianali, sono quasi un Asacramentale, ovvero un canale perché l’uomo, costituito anche di sensi, si apra alla sua autentica vocazione di santità.
Nel culto si è sempre e in ogni civiltà, dato il meglio e la preziosità non sta nella valutazione venale, ma nel saper dare il meglio di se stessi. Ecco perché certe forme di Apauperismo nella Liturgia sono sovente manifestazione di sterile appiattimento della nostra fede, dove la cattolicità e la semplicità liturgiche vengono confuse con la uniformità e la sciatteria. Fa riflettere l’atteggiamento di Giuda, che rimproverò lo Aspreco della donna che versò tre libbre di nardo puro sui piedi del Salvatore, irrorati pure dalle sue lacrime di conversione. Il Vangelo sottolinea che quel rimprovero Giuda non lo fece per amore dei poveri, ma perché era avido di ricchezze terrene! Cerchiamo di non defraudare i cristiani della bellezza consona alla loro dignità di figli di Dio, e continuiamo a versare il nardo profumato della bellezza pura sui piedi del Salvatore, affinché le lacrime dell’anima, le lacrime feconde della conversione possano farci entrare rinnovati, più veri e più buoni, nel Terzo Millennio ormai imminente.
6) Concludiamo con parole del Santo Padre, rivolte alla gioventù riunita a Bologna, al termine del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale; esse riecheggino in noi e ci aiutino a celebrare con rinnovata gioia questa Sacra Eucaristia: AVoi tutti artisti e giovani presenti, che saluto con affetto, mediante la musica ed il canto esprimete sulle cetre del nostro tempo, parole di pace, di speranza, di solidarietà. (…) Sulla strada della musica vi viene incontro Gesù. Egli resta qui con noi: è il Dio con noi. Cercatelo senza stancarvi, accoglietelo senza riserve, amatelo senza soste: oggi, domani e sempre! (Discorso del 27 settembre 1997).
Maria Santissima, Causa nostrae laetitiae, Regina Apostolorum, oggi ti veneriamo nella memoria della tua Presentazione al Tempio: ottienici la forza di vivere veramente il gaudium cum pace per essere in grado di portare agli altri la nostra gioiosa fede nel tuo Figlio!
Sulla strada della musica gridiamo per noi e per ogni fratello: AVieni Signore Gesù, vieni!.
http://www.zenit.org/article-33232?l=italian
(alcuni riferimenti a Paolo)
« SO IN CHI HO POSTO LA MIA FEDE » (2Tim 1,12)
Omelia del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede
VENEZIA, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo l’omelia tenuta ieri durante la Solenne Celebrazione Eucaristica in piazza San Marco dal patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede.
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Introduzione
Carissimi,
l’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per essere viva Chiesa del Signore.
Inizio con le parole di Benedetto XVI che nella lettera apostolica Porta fidei – indicendo l’anno – riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al discepolo Timoteo e lo esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF,15). E, poi, continua: “Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie in noi” (PF, 15).
Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani, ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso.
L’Anno della Fede: una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol dire appartenere a Dio e testimoniare con la vita battesimale, il Signore Gesù; per questo necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente, liberi nel coglierlo secondo verità e giustizia.
Ora, la domanda “venga il tuo Regno…” (Mt. 6,10) – che Gesù pone all’inizio del Padre Nostro – non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di verità e di giustizia che sono intorno a noi.
In questo tempo di grazia – che è l’Anno della Fede – pastori e fedeli sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato” (2Tm 1,12). L’Anno della Fede – indetto da Benedetto XVI per celebrare i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre…” (PF, n.1).
Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno. Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi “storicamente” amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più coraggio e fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di riconciliazione.
La questione decisiva, o “caso serio” nel nostro personale cammino verso una fede più matura, richiede di far nostre sine glossa – ossia senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando proprio da quelle sul perdono. Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire vere relazioni personali e comunitarie. Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca estraneità.
“Io credo”, “noi crediamo”: salvati con gli altri
Bisogna – secondo l’esortazione dell’apostolo Paolo – non esser pigri nella fede ma, piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di Dio. La fede non si esaurisce nell’atto personale del credere. L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione comunitaria del credere, vale a dire “noi crediamo”.
La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi, infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno, qualcuno ci ha rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo l’incontro diretto col Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo introdurrà nella vita di fede, la vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).
Ciascuno di noi, in modo simile, condivide la fede con chi gliel’ha annunciata e con quanti, insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del popolo di Dio che – come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II – va intesa sempre come unione di fedeli e pastori.
Le parole della costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito, sono chiare: “La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG, 12).
Henri de Lubac, grande storico della teologia, circa la connotazione ecclesiale della fede così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non può essere altro che la Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è dunque partecipazione alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede “nella” Chiesa, è fede “della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” (H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano, 1979, 109). Si dice letteralmente: “l’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” e con ciò si riconoscono ed evidenziano gli elementi che, anche storicamente, segnano la vita di fede della Sposa del Signore.
Un pensiero ricorrente nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che l’uomo si pone in relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi, d’altra parte, comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti della fede. Si dice comunemente: crediamo le stesse “cose”. Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa cultura e non parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo, attraverso la loro fede, comunicano fra loro nelle cose più importanti. Condividono, infatti, le risposte alle domande fondamentali dell’uomo: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia fragilità? C’è qualcosa dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il male?
Si manifesta, così, la dimensione comunitaria del credere e Benedetto XVI lo evidenzia. L’uomo non è chiamato da solo alla salvezza ma all’interno della comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo” (PF n.7). Nella Chiesa ogni realtà è personale e, allo stesso tempo, comunitaria. Nulla è individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.
Quando Gesù comincia ad annunziare il Regno, raduna attorno a sé il nuovo popolo di Dio, costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli. Gesù, poi, congiunge il gesto sacramentale del pane spezzato e del vino effuso con la piena comunione ecclesiale. La salvezza non si esprime, così, come la presenza individuale di Gesù nelle coscienze dei singoli ma nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il suo corpo. Sant’Agostino parla, a ragione, della Chiesa come del Christus totus, il Cristo integrale (cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in PL, 36,1081).
La dimensione comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io personale ma fa in maniera che il singolo credente non cada in una fede fai da te, oggi molto di moda. La fede – nella sua dimensione comunitaria e relazionale – è, alla fine, essenziale e permette al soggetto di raggiungere la pienezza umana. La fede fai da te è comunque rischio ricorrente per la nostra epoca, segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o, più realisticamente, nella cultura dominante del determinato momento storico.
In altri termini – stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù – gli uomini non sono chiamati a una salvezza individuale ma donata a un popolo costituito su un fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici.
Il libro degli Atti degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la diuturna testimonianza: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).
Insieme a un tale quadro idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di Anania e Saffira (cfr. At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di Corinto che vive con la moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni della stessa comunità che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci sorprendono: “…verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che sanno veramente fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. Che cosa volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo? ” (1Cor, 4, 19-21).
I Dodici rimarranno, comunque, il fondamento: coloro che hanno visto e ascoltato il Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno seguito a Gerusalemme, l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto, l’hanno incontrato nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e, concordi, testimoniano che è apparso a Simone (cfr. Lc. 24,34). La Chiesa è fondata sui Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro successori che continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli estremi confini della terra.
L’Anno della Fede è, nello stesso tempo, itinerario personale del discepolo ed ecclesiale dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che conduce il credente verso un più vero e intenso incontro con la persona di Gesù, la quale dà alla vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione decisiva (cfr. PF n.1).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II – come insegna Benedetto XVI – s’inserisce in un cammino ecclesiale di riforma nella continuità. All’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, troviamo queste parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio… ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura…” (LG n.1).
Cristo – col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” – ci raggiunge tramite la Chiesa e il suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale dei Dodici a partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il giorno successivo al sabato. La Chiesa, negli uomini e donne che la compongono, è la prima destinataria dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr. Lc 24,34). Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio.
Benedetto XVI lo sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei, afferma: “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF n.10).
E’ necessario, all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il richiamo dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del compito e della missione della Chiesa nei confronti dell’annuncio del vangelo cristiano: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10,14-15).
E’, quindi, attraverso la Chiesa che noi incontriamo Dio e possiamo credere in Lui. Ma nonostante ciò – come detto – l’atto di fede rimane gesto della persona, seppur scandito nella comunità ecclesiale e attraverso di essa, mai al di fuori o senza essa. Secondo tale logica, immaginare un incontro con Dio escludendo il prossimo equivarrebbe ad una radicale incomprensione della rivelazione cristiana per la quale gli altri – per la stessa volontà di Gesù – sono segni dell’incontro con l’Altro. Ed è Gesù che ce lo ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).
Dato che la fede di cui parla Gesù è sempre intimamente legata all’amore, allora, nella vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura del cuore. Fede e carità si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede deve essere occasione per crescere nella testimonianza reciproca della carità. Una vita di fede priva delle opere – e per il cristiano la prima opera è la carità – costituisce, di per sé, un’obiezione fondamentale. Si tratterebbe di una contraddizione in termini: non è vera, non è genuina, non è salvifica una fede che sia incapace d’amare. Si può dire piuttosto che è una fede che ha smarrito se stessa (cfr. PF n.14).
In tale prospettiva comprendiamo quanto sia decisivo ciò che Giovanni scrive nella prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).
Così la fede – soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera – conduce a vivere la comunione più intensa con Dio, una comunione che si esprime in una fraternità più grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono coinvolti. Il culto, infatti, non risulta gradito a Dio se non esprime un cuore riconciliato. Il Vangelo di Matteo ci avverte in proposito: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).
La fede, poi, si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente rilevabili: la domenica e le festività proprie della religiosità popolare, gli usi e i costumi di determinate popolazioni e territori ma soprattutto – lo si ribadisce – la domenica, giorno del Signore. Il rischio, soprattutto in epoche che si caratterizzano per la veloce transizione – la cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che esprime la grande Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità.
Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze. Un altro pericolo, sul quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel rischio di confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una determinata popolazione.
Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto, appartengono alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede.
I contenuti della fede
L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.
La lettura meditata delle quattro Costituzioni conciliari e del Catechismo della Chiesa Cattolica ci accompagni lungo l’Anno della Fede sia a livello personale sia comunitario; i due livelli – personale e comunitario – sono, infatti, necessari per una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova condensata la saggezza dell’ultimo Concilio.
E’ vivo desiderio del Santo Padre Benedetto XVI – come lo fu già del suo predecessore, il beato Giovanni Paolo II – fare in modo che il Catechismo, in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, trovi una più grande accoglienza presso le nostre comunità.
E proprio Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, ricordava come tale idea si manifestò in occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di un’esplicita richiesta proveniente dai padri sinodali. Giovanni Paolo II affermava così d’aver fatto suo il desiderio espresso dal Sinodo dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal modo conferiva a questo desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo Pietro (cfr. Fidei Depositum, Introduzione).
E’ importante che nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa particolare – vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici – trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno sia assunto da tutti e, in modo particolare, dai parroci. Ricordo, pure, che la piena recezione del Vaticano II chiede di promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Ancora il beato Giovanni Paolo II – sempre nella Costituzione Fidei Depositum – si è servito di espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle sue parole: “Il Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la pubblicazione in virtù dell’autorità apostolica, è un’esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa…” (Fidei Depositum, parte IV).
Fin da questi primi mesi il Catechismo della Chiesa Cattolica entri abitualmente nella pastorale ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle associazioni e aggregazioni laicali. Ritengo che un proficuo approccio al testo del Catechismo sia offerto dal Compendio dello stesso Catechismo che, in modo agile e organico, introduce e presenta quanto il testo dice circa la professione di fede, i sacramenti, la vita cristiana e la preghiera della Chiesa.
Cito, infine, il passo con cui si chiude la prefazione del Catechismo della Chiesa Cattolica che assume – e fa suo – il principio pastorale del Catechismo Romano, espressione del Concilio di Trento, promulgato da papa San Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti costituirà – penso – una felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore” (Catechismo Romano, 10).
A tutti auguro un Anno della Fede in compagnia con Maria, la prima discepola del Signore Gesù, il Salvatore del mondo.