Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: Collaboratori nella diffusione del Vangelo (Fil 2,19-30)
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Ganni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della Lettera ai Filippesi
Collaboratori nella diffusione del Vangelo (Fil 2,19-30)
« Manderò Timoteo »
V. 19: « Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timoteo per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie ».
A questo punto, dopo aver invitato i cristiani a rallegrarsi con lui per la consapevolezza comune che ciò che conta davvero è l’autenticità dell’esistenza di fede davanti al Signore, Paolo passa a parlare dei progetti, più o meno immediati, che sta facendo durante il suo tempo di prigionia.
Paolo dice che formula i suoi progetti e le prospettive anche missionarie all’interno della « speranza nel Signore Gesù ». Questo è molto importante. Anche nella Lettera di Giacomo c’è un accenno in questo senso, diversamente formulato e in un altro contesto: « E ora a voi, che dite: – Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni-, mentre non sapete cosa sarà domani! Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello » (Gc 4,13-15). Il riferimento è diverso, però la sostanza è sempre quella: il cristiano che progetta – e qui Paolo progetta la sua esistenza missionaria, nella consapevolezza che il Signore lo vuole ancora in vita per assolvere il suo compito di evangelizzatore -, progetta nel Signore.
Tornando al versetto 19 « Ho speranza nel Signore Gesù », occorre dire che solo nel Signore un cristiano può avere speranza e solo nel Signore un cristiano può progettare.
Cosa pensa Paolo? Pensa di poter presto inviare Timoteo, che è il suo più immediato collaboratore. Perché lo vuole mandare a Filippi?
Abbiamo visto al cap. 1 ,26 che Paolo pensava di poter essere presto di nuovo tra i Filippesi. Qui al v. 24 ripete di avere la convinzione, nel Signore, che presto andrà anche lui di persona a Filippi. Quindi Paolo pensa di rincontrare presto i cristiani di Filippi. Ci si potrebbe chiedere: perché Paolo li vuole rincontrare? Sappiamo già che il motivo per cui Paolo vuole incontrarsi con quei fratelli di fede a cui ha portato il Vangelo è sempre un motivo di consolazione e di conforto: per ricavarne entrambi consolazione e conforto nel Signore. L’incontro fra fratelli, infatti, è sempre occasione di gioia, di consolazione e di conforto per il cristiano.
Ora che Paolo non può muoversi di persona, intravede tre fasi in questo itinerario di avvicinamento: come momento ultimo e definitivo ci sarà la sua andata presso i Filippesi. Però questo non dipende da lui. Finché è in galera non può andare « di persona » e allora aspetta che si risolva la sua situazione. Sa che si risolverà positivamente e allora andrà lui stesso a Filippi.
Prima di andarvi di persona, tuttavia, Paolo tenterà di mandare Timoteo. Non lo manda però subito, perché pensa: prima voglio vedere come si risolve la mia situazione; vuole cioè avere una maggiore lucidità sulla sua situazione. Allora per il momento manda Epafrodito. Ci sono quindi tre momenti, in ordine inverso: l’andata di Paolo, l’invio di Timoteo e, prima ancora, l’invio di Epafrodito. Epafrodito lo manda subito, Timoteo lo manderà quando le cose saranno più chiare e poi alla fine, quando sarà liberato, andrà anche Paolo.
Perché Paolo non manda subito Timoteo? E perché lo vuole mandare? Dice: « per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie ». Paolo sa che dall’incontro personale con i fratelli di Filippi trarrà una grande gioia e una grande consolazione. Questo è un insegnamento fondamentale per i cristiani: quando i cristiani si incontrano è questa per loro una fonte di gioia e di consolazione. Però anche avere notizie gli uni degli altri, il sapere le condizioni dei fratelli è fonte di gioia. Quando arriva un fratello e reca notizie, belle o brutte che siano, la comunità se ne rallegra. Ci si sente più famiglia di Dio.
È per questo che Paolo manda Timoteo, per essere confortato nel ricevere notizie da Filippi.
La prova da lui data
Vv. 20-24: « Infatti non ho nessuno di animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona ».
Ora Paolo spiega perché manda proprio Timoteo e perché non lo manda subito.
Quando dice: « tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo », Paolo non intende tutti gli uomini o tutti i cristiani o tutti quelli che ha incontrato; non c’è un riferimento assoluto in questo contesto, perché allora vorrebbe dire che di autentici cristiani esistono soltanto lui e Timoteo. Paolo questo non può pensarlo e non lo pensa. Fa invece riferimento a quelli che gli sono attorno in quel momento. Paolo ha attorno a sé dei cristiani, ma non ha una grande stima di loro. Fra i collaboratori del momento c’è solo Timoteo di cui si fida fino in fondo.
Si potrebbe dire che Paolo avesse un caratteraccio; sappiamo che aveva bisticciato con Barnaba a proposito di Giovanni, detto Marco, proprio perché delle persone lui si fidava fino a un certo punto ed era esigente a loro riguardo (At 15,36-40). Però questo era dovuto al suo carattere o a una lucidità interiore che lo portava a vedere davvero chi si occupava del Signore o chi invece non se ne occupava fino in fondo? Questo non lo sappiamo e non entreremo in problematiche che ci sfuggono, però qui Paolo dice una cosa sorprendente: intorno a lui in quel momento tutti cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo; c’è solo Timoteo che ha questa capacità di occuparsi davvero fino in fondo degli interessi del Signore e degli interessi degli altri.
A questo punto dobbiamo porci un interrogativo: che cosa significa occuparsi delle cose altrui o in alternativa occuparsi dei propri interessi? Che vuoi dire cercare il proprio interesse e non quello di Gesù Cristo? Qui, tra l’altro, Paolo parla di persone che sono i cristiani attorno a lui!
Sicuramente Paolo fa riferimento a quello che diceva già nel capitolo 1,15: attorno a lui ci sono dei collabòratori che predicano per invidia, per gelosia, per zelo amaro e non con rettitudine; cercano la gloria per se stessi, vogliono primeggiare, apparire, fare i primi attori, i leader. Fra le persone che cercano i propri interessi e non quelli del Signore, Paolo mette quelli che predicano il Vangelo per trarne vanto e/o vantaggio; quindi parla di cristiani, non di gente qualsiasi. Parla di gente che predica ed è al servizio del Vangelo.
Da questo deriva un’indicazione importante: all’interno della comunità cristiana possono esistere e sono sempre esistiti coloro che lavorano per il Vangelo ma non primariamente per il Signore, bensì per trarne un vantaggio personale o per quella che Paolo chiama vanagloria.
Questo importante discorso introduce un’istanza critica di vigilanza per ciascun cristiano impegnato all’interno della comunità, quindi anche per noi. Noi che ci diciamo servi del Vangelo, per cosa lo facciamo? Siamo come Timoteo o siamo come quelli che Paolo dice che ricercano i propri interessi? Per che cosa i cristiani annunciano il Vangelo? Con quale scopo, intenzione e tensione?
Ci si potrebbe porre anche un altro interrogativo: sono solo questi coloro che cercano i propri interessi o non c’è anche un riferimento più brutale a una condizione apparentemente cristiana, ma in realtà pagana? Dietro queste parole non potrebbero esserci anche coloro che vengono figurati in Lc 14,16-20, cioè coloro nei quali le preoccupazioni mondane superano la preoccupazione per il Regno? Potremmo intravedere, dietro queste parole, i « mezzadri spirituali », quelli cioè che cercano di stare con un piede di qua e l’altro di là. Certo, vogliono essere cristiani, ma vogliono anche essere ben piantati in questo mondo: hanno degli interessi da salvaguardare!
Ci sono anche questi dietro coloro che « cercano i propri interessi », secondo l’espressione di Paolo? Molto probabilmente sì, perché nella Chiesa ci sono sempre stati, fin dai primi tempi, quelli che hanno voluto tenere il piede in due staffe. Vogliono curare i loro interessi mondani e non vogliono perdere il Paradiso! Anche oggi quanti sono i cristiani a mezzadria! Vanno a messa, dicono le preghiere, partecipano ai riti; poi in realtà sono attaccati ai propri interessi, privilegiano le proprie occupazioni, vedono soprattutto le necessità materiali e non quelle dello spirito.
Quindi, partendo da una situazione concreta e specifica – i suoi collaboratori, coloro che gli stavano attorno e che annunciavano il Vangelo per vanagloria o che magari avevano interessi specifici da salvaguardare -, il discorso di Paolo si allarga all’universalità della Chiesa; c’è in esso un insegnamento che non dobbiamo riferire soltanto ai cristiani che stavano con lui. Se andiamo a fondo, il « tutti » contenuto nel v. 21
(« perché tutti cercano i propri interessi ») vale per molti cristiani, forse per la maggior parte dei cristiani. Questo « tutti » deve farei paura, perché davvero ci siamo dentro un po’ anche noi.
Occorre tenere presente che Paolo parlando di quelli che non accettano la predicazione evangelica li definisce « generazione iniqua e perversa »; mentre qui chiama i cristiani che non sono fedeli al Vangelo, che pure hanno accolto, « quelli che cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo ». Se si riflette bene, ci si accorge che la differenza fra le due categorie è minima. Davvero il grosso interrogativo, che bisogna sempre porsi, è questo: da che parte sto io? Sto con Cristo o sto con i miei interessi e sono quindi sostanzialmente un pagano?
Qui Paolo ci parla di uno solo, Timoteo, che è fedele; sembra che tutti gli altri stiano dall’altra parte. Il problema che Paolo pone, quindi, è grosso ed è un invito a una critica e a un’analisi severa della nostra esistenza, che diciamo « cristiana ».
« Mando Epafrodito »
V. 25: “Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodito, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità ».
I versetti conclusivi del capitolo 2 trattano dell’invio o meglio del ritorno di Epafrodito a Filippi. Epafrodito era stato mandato dagli stessi Filippesi per sovvenire alle necessità di Paolo, necessità sia di ordine materiale (sappiamo che i Filippesi hanno contribuito alla vita concreta di Paolo inviandogli del denaro; è l’unica chiesa da cui Paolo ha accettato denaro) sia di ordine religioso (probabilmente infatti i Filippesi hanno mandato Epafrodito anche per aiutare Paolo nel suo ministero di evangelizzazione). Paolo ora lo rimanda a Filippi. Dall’insieme delle parole che Paolo scrive rinviando Epafrodito a Filippi, la quasi totalità dei commentatori ipotizza che Paolo presagisca una critica da parte dei Filippesi verso Epafrodito. È stato mandato per aiutare Paolo ed ecco che torna indietro, lasciando Paolo in prigione. Si può supporre una certa irritazione da parte dei Filippesi nei confronti di Epafrodito che torna. Paolo allora ne prende le difese e spiega i motivi per cui lo rimanda, che non sono frutto della paura o di ragionamenti umani, ma di serio discernimento. Epafrodito, sembra dire Paolo, non è un uomo da disprezzarsi, perché è stato « compagno di lavoro e di lotta ». Quindi « accoglietelo nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui ».
Questo Epafrodito, di cui conosciamo la vicenda solo attraverso le parole di Paolo, si è ammalato, ha patito e « ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me ». Si è comportato bene, dunque; ha svolto il suo servizio con fedeltà, con coraggio fino al punto di rischiare la vita. Si è ammalato e per servirmi, come voi avete voluto che facesse, dice Paolo ai Filippesi, ha messo in gioco tutto se stesso per la causa del Signore Gesù. Quindi è tutt’altro che un vigliacco e un pauroso, ma è un uomo di grande generosità e di grande coerenza.
I motivi del rinvio di Epafrodito sono, dunque, altri. Dicevamo prima che questi versetti finali del cap. 2 affrontano il problema del desiderio di Paolo di rivedere i cristiani di Filippi, desiderio che -lui lo sente nel Signore – si avvererà. Nel frattempo coglie l’occasione dalla vicenda di Epafrodito -la malattia che lo ha portato a un passo dalla morte – per mandare lui a stabilire un primo « nuovo contatto » con i Filippesi. Questa opportunità, del tutto estranea ai precedenti piani di Paolo, gli consente in qualche modo di tornare immediatamente fra loro.
I sentimenti umani
V. 26: “lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. E stato grave, infatti, e vicino alla morte ».
I motivi concreti e immediati che hanno spinto Paolo a rinviare Epafrodito sono due: uno è il desiderio di Epafrodito di rivedere i fratelli di Filippi. Alcuni commentatori sono un po’ sorpresi di questo fatto: in fondo, la nostalgia di rivedere i fratelli non è poi un grande motivo cristiano. Il cristiano sa che il suo impegno è l’obbedienza al Signore, qualunque sia la condizione in cui viene a trovarsi, quindi questa nostalgia di casa sarebbe un motivo un po’ troppo terreno.
L’altro motivo è che Epafrodito, che si era ammalato gravemente ed era stato prossimo a morire, voleva rassicurare i fratelli di Filippi facendosi vedere di persona, perché non si preoccupassero oltre e non soffrissero inutilmente. A quei tempi le comunicazioni non erano facili né rapide: niente di meglio che tornare di persona per far vedere le sue reali condizioni.
A prima vista sembrano due argomenti molto umani, ma ci fanno capire una cosa molto concreta e anche molto bella su quello che era il modo di sentire e di vivere dei primi cristiani.
I primi cristiani non erano eroi, persone che affrontano le difficoltà per il gusto di affrontarle, che muoiono sprezzantemente, oppure che, una volta partiti, ignorano i parenti, i fratelli, gli amici. I cristiani erano uomini veri che amano, soffrono, si vogliono bene, hanno nostalgia… E se tutto questo rimane all’interno della radicale obbedienza al Signore, allora il Signore tiene conto anche’di quelle che sono le autentiche e profonde relazioni umane.
I cristiani hanno sentimenti, affetti, desideri che, se posti all’interno dell’obbedienza radicale al Vangelo, non impoveriscono, anzi arricchiscono la vita cristiana. Quindi, questo testo è molto significativo e ci dice che all’interno dell’obbedienza cristiana autentica c’è tutto lo spazio per quelle che sono le relazioni umane, gli affetti, le simpatie, le nostalgie, le sofferenze, le gioie… I cristiani non sono dei robot, ma esseri umani che trasfigurano tutta la loro tensione umana e personale all’interno dell’obbedienza profonda e radicale nel Signore. Quando c’è questa obbedienza c’è spazio per tutto il resto.
Paolo vuole quindi rassicurare i fratelli di Filippi che Epafrodito è tornato a casa per semplici motivi umani, sì, ma ha vissuto fino in fondo la sua obbedienza al Signore: è stato Paolo stesso a rimandarlo per una serie di validi motivi e ne approfitta per primo per far avere sue notizie. Tutto ciò rientra nel disegno di Paolo, che è all’interno del disegno del Signore.
Due livelli di misericordia
Vv. 27-28: « È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato ».
Parlando della malattia di Epafrodito, Paolo fa un’affermazione molto importante e a prima vista sorprendente: egli è stato talmente grave che stava per morire, ma Dio gli ha usato misericordia. Qui chiaramente Paolo vuoi dire che Dio non ha permesso che morisse, lo ha conservato in vita. Ha usato misericordia non solo a lui, dice Paolo, ma anche a me, perché l’aver assistito alla morte di Epafrodito mi avrebbe procurato un dolore che si sarebbe andato ad aggiungere a sofferenze già tanto grandi.
Indubbiamente si pongono due problemi all’interno di questo versetto: da una parte il problema della misericordia di Dio che si attua con la guarigione di Epafrodito; dall’altra il dolore di Paolo per l’eventuale morte del suo amico. Sono due punti su cui vale la pena di riflettere un po’.
A questo punto dobbiamo allargare il ragionamento per collocarlo non solo nel contesto della Lettera ai Filippesi, ma in quello più ampio della rivelazione del Nuovo Testamento.
La misericordia di Dio si attua a due livelli, rimanendo sempre la stessa. Si attua al livello della preservazione dalla morte, quando qualcuno rischia di morire. Dio può usargli misericordia e non fari o giungere alla morte, come dice Paolo in questo contesto; o può addirittura richiamare in vita un morto (Lazzaro, per esempio, o il giovi netto figlio della vedova di Nain). Questo primo livello della misericordia è soprattutto simbolico, non è il più profondo, perché vuole sottolineare ed evidenziare che la misericordia di Dio è salvifica. Però la morte da cui Dio salva l’uomo non è semplicemente quella fisica, bensì quella totale; quindi la vera vita e la vera salvezza sono quelle escatologiche. Perciò il secondo livello della misericordia di Dio è l’introduzione nella vita nuova, nella vita eterna. Dio usa la sua misericordia nella forma suprema quando introduce l’uomo nella vita eterna.
Dio pone dunque segni di risurrezione dalla morte fisica o di preservazione della vita terrena per orientare a questa riflessione sul livello più profondo della sua misericordia.
Potremmo chiederci: quand’è che Dio usa il primo livello e quando il secondo? Perché in alcuni casi preserva dalla morte e in altri no? Perché alcuni li richiama in vita ed altri li lascia nel disfacimento della morte?
Ricordiamo la frase che si trova nella Lettera di Giacomo al cap. 5,13-15: « Chi tra voi è nel dolore preghi, chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati ». Riflettendo su questi versetti si possono sottolineare i due livelli della misericordia di Dio: Egli potrà usare misericordia conservandolo in vita, ma soprattutto gli userà misericordia introducendolo nella vita eterna dei figli di Dio. L’espressione « il Signore lo rialzerà » indica certamente la guarigione fisica, ma è soprattutto il rialzarsi nella potenza della resurrezione per la vita che più non muore.
Potremmo chiederci: quando c’è il primo livello e quando il secondo? Tutto questo appartiene al mistero di Dio che conosce il cuore dell’uomo sapendo di cosa esso ha bisogno. È un ragionamento molto duro ma anche molto bello e profondo, questo di Paolo, perché a volte l’uomo ha bisogno di vedere con i suoi occhi la preservazione dalla morte, a volte invece ha bisogno di vedere più in profondità, di vedere nella morte la potenza della Resurrezione di Cristo.
Per noi che leggiamo queste parole e assistiamo alla misericordia del Signore che si esercita nel preservare dalla morte e nel prendere con sé i morti al di là della morte, e ci chiediamo che significato ha tutto questo, per noi, dunque, quello che viene dalle mani di Dio, vita o morte, è bene ed è gioia. Il nostro bene, la nostra gioia è ciò che viene dalle mani di Dio, sia che ci venga la vita, sia che ci venga la morte, perché sia la vita che la morte sono finalizzate alla vita eterna dei figli di Dio, al momento definitivo e finale del nostro incontro con Lui nella potenza della resurrezione del Cristo.
È un mistero importante su cui vale la pena portare la nostra attenzione, come è anche importante, sempre in questa linea, capire il senso della parola di Paolo: « perché non avessi dolore su dolore ». La morte di un amico, di un fratello, di una persona cara, di un figlio, di un padre è sempre, inevitabilmente, fonte di dolore.
L’assenza di dolore di fronte alla morte non è cristiana. Il cristiano sa che la morte è un atto di violenza, un sopruso, una menzogna. Sa che è l’annientamento dell’opera di Dio. Ma al di là del dolore il cristiano, avendo la speranza nella potenza del Cristo risorto, vive la gioia di questi eventi perché li riceve dalle mani di Dio per la salvezza sua e di tutti.
Il dolore di Paolo quindi non è un segno di debolezza, di paura o di poca fede, ma è il segno della sua profonda sensibilità di fronte alla morte, pur nella certezza della fede e nella speranza della vita eterna dei figli di Dio.
La morte sorella
Vv. 29-30: « Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me ».
Abbiamo già commentato queste parole. Ci rimane una notazione da fare, molto interessante. Il fatto concreto di Epafrodito che ha « rasentato la morte per la causa di Cristo » acquista valore di simbolo: chi si pone al servizio di Cristo rischia continuamente la vita, è sempre esposto alla possibilità della morte. La morte è la compagna del cristiano che cammina sulla via del ritorno alla casa del Padre, una compagna severa e dolce insieme: « nostra sorella morte corporale ».

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