Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: L’inno cristologico (vv. 6-11)

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Gianni Zaccherini  

RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI

L’inno cristologico (vv. 6-11) 

L’inno contenuto in questi versetti, come dicevamo sopra, ha una sua struttura logica che lo fa sussistere in sé, anche scorporato dal contesto della lettera, ma nella lettera serve sia a rivelare che ad esortare perché la vita nuova in Cristo con la sua logica di imitazione è resa possibile dall’evento Cristo illustrato nell’inno.
Il mistero del Cristo che l’inno ci presenta ha due facce: una prima, nei w. 2-8, è il mistero della sua umiliazione; successi­vamente, nei w. 9-11 è il mistero della sua esaltazione. Il Cristo visto nella sua spoliazione e nella sua glorificazione.
Va detto che l’inno è di non facile comprensione. Affermazioni che a prima vista sembrano facili in realtà non lo sono. Hanno dato adito a molte discussioni da parte degli interpreti e degli studiosi. Se si raccogliessero tutti i commenti fatti all’inno, che portano ad affermazioni a volte perfino contraddittorie, partendo dai tempi dei Padri della Chiesa fino ai nostri giorni, si raccoglierebbe una piccola biblioteca. Cerchiamo, quindi, di cogliere il filo conduttore del ragionamento di Paolo in quest’inno. 

La preesistenza di Cristo 
v. 6: « [Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cri­sto Gesù] il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio… « .
Il v. 6 ci presenta il Cristo nella sua condizione preesistente all’incarnazione. Il Cristo che era di natura divina, dice il testo, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, cioè non pretese di tenere solo per sé questa uguaglianza con Dio o, meglio, non pensò di esaurirsi in essa.
Prima della sua nascita umana il Cristo era di natura divina, ma non è rimasto chiuso in questa dimensione esistenziale che era appunto la sua Divinità. Non custodì con gelosia la gloria del suo essere Dio.
Questo versetto è molto importante, perché ci troviamo di fronte a uno dei primi tentativi che la comunità cristiana ha fatto per capire il mistero del Cristo nella sua preesistenza; sforzo di comprensione che troverà la sua pienezza nel prolo­go del vangelo di san Giovanni [che è almeno di quarant'anni posteriore alla Lettera ai Filippesi, n.d.r.], dove troviamo la massima illustrazione del mistero della preesistenza del Verbo nella gloria del Padre prima dell’incarnazione.
La Chiesa delle origini ha riflettuto sul mistero del Cristo ed è arrivata ad una certa pienezza di comprensione partendo dall’incarnazione, meglio ancora partendo dalla « manifestazione » (epifaneia). Il Cristo ha cominciato a manifestarsi come Messia all’età di circa trent’anni, ma la Chiesa , guidata dallo Spirito Santo, ha capito subito che non è divenuto Messia a quell’età, ma lo era sin dalla nascita. Nascita, inoltre, che si collega misteriosamente al suo esistere già prima della nascita, quando era « presso Dio » e Dio egli stesso fin dall’eternità, come dice il prologo del vangelo secondo Giovanni. C’è quindi un crescendo di comprensione del mistero del Cristo nella Chiesa, di cui questo v. 6 è una traccia. 

Incarnazione, passione e morte 
Vv. 7-8:  » … ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce ».
Il testo sottolinea che il Cristo, già esistente come Dio, a un certo punto spogliò se stesso, si svuotò della gloria che aveva nella comunione con il Padre divenendo simile agli uomini, cioè facendosi uomo. È il mistero dell’incarnazione che rimarrà sempre impenetrabile alla nostra conoscenza. Infatti, che Dio abbia potuto farsi uomo lo possiamo dire in mille modi, ma comprendere le profondità di questo mistero sarà sempre impossibile alla mente umana.
Ricordiamo tutti, dal catechismo, che i misteri principali della nostra fede sono: Unità e Trinità di Dio; Incarnazione, Passione e Morte di nostro Signore Gesù Cristo. Misteri sommi, che rimarranno sempre insondabili all’intelligenza dell’uomo. Li potremo credere, affermare, illustrare, indagare, ma com­prenderli nella loro profondità sarà sempre impossibile, tanto che ogni tentativo di più acuta penetrazione di essi ha portato spesso nella Chiesa a dispute ed eresie. Quasi tutte le ere­sie dei primi secoli ruotano attorno allo sforzo di illustrare que­sti misteri.
Ad ogni modo, con il v. 7 Paolo vuole illustrarci la reale umanità del Cristo. Egli si è fatto veramente uomo. Occorre stare attenti al significato della parola « simile » (« divenendo simile agli uomini’), su cui i primi teologi cristiani hanno discusso all’infinito. Qui simile va inteso nel senso di uguale. Non si tratta di una somiglianza esteriore, né di un travestimento illusorio. Gesù fu vero uomo.
E si è fatto uomo prendendo la condizione di schiavo: non semplicemente uomo, ma schiavo, nel senso di « ultimo fra gli uomini ». La spoliazione, l’annientamento del Cristo non si è attuato soltanto nel farsi uomo, ma nel prendere poi tra gli uo­mini l’ultimo posto. Non è stato un uomo potente, ma è stato uomo nella forma dello schiavo ed è morto come morivano gli schiavi condannati a morte: crocifissi.
Dice ancora il testo: « apparso in forma umana », cioè apparso come uomo. L’espressione « in forma umana » si contrappone a quella del v. 6: « di natura divina ». I due poli del mistero del Cristo: la forma umana, la natura divina.
Apparso come uomo, presente nel mondo come uomo, « umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce ». Questa umiliazione, questo annientamento, questo ridursi a nulla, questo prendere l’ultimo posto ha raggiunto forma suprema nella morte, ma non una morte qualsiasi: la morte di croce. La sottolineatura della morte come morte di croce ha due risvolti nel pensiero dell’inno: da una parte si ricollega al concetto di schiavo (come si è detto sopra, proprio nella morte si è manifestata la scelta di Cristo di prendere l’ultimo posto fra gli esse­ri umani, quello di uno schiavo qualsiasi); dall’altra indica la violenza della morte. Cristo non è morto per cause apparentemente naturali; assumendo su di sé una morte violenta ha rivelato che in realtà ogni morte è una morte violenta.
« Facendosi obbediente »: è interessante questa parola che riassume in qualche modo tutto il mistero del Cristo; tutta questa umiliazione è un’umiliazione legata all’obbedienza di Cristo al Padre.
C’è un mistero di obbedienza nel mistero del Cristo. L’obbedienza radicale del Cristo, che si sottomette alla volontà del Padre, assumendo la natura umana e giungendo fino a morire e a morire di croce, contraddice e annulla la disobbedienza originaria di Adamo. Adamo non si assoggettò al coman­do di Dio, Cristo viene e si assoggetta in tutta la sua vicenda al comando del Padre.
Mentre la disobbedienza di Adamo, che nella sua intenzione era finalizzata alla propria divinizzazione, procurò la morte, l’obbedienza del Cristo fino alla morte invece procura la vita.
Rovesciando radicalmente la scelta originaria dell’uomo, l’obbedienza nella morte procura la vita. La morte del Cristo diventa così una morte salvifica nella quale si compie il mistero di salvezza per ogni uomo. A questo punto ogni cristiano deve rendersi conto che soltanto attraverso la partecipazione al mistero di obbedienza della morte del Cristo può avere la glorificazione. Come per la morte del Cristo si è avuta la salvezza di tutto il genere umano, così ogni uomo passa attraverso la morte per ottenere la salvezza. 

La glorificazione del Figlio
v. 9: « per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome ».
L’umiliazione fino alla morte è la causa che genera l’esalta­zione. L’esaltazione o innalzamento poggia sull’abbassamento che Cristo ha accettato incarnandosi e che ha portato all’estremo con l’obbedienza della croce. Giovanni nel suo van­gelo accosterà ancora di più i due termini: la crocifissione del Cristo è già la sua glorificazione. « Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me » (Gv 12,32): innalzato qui significa sia innalzato sulla Croce sia glorificato.
Dio l’ha glorificato e gli ha dato il nome « che è al di sopra di ogni nome ». Qual è il nome che Cristo ha ricevuto in questo mistero e per questo mistero? Il nome di Kyrios, Signore. Cristo che si è ridotto a nulla, alla morte dello schiavo, è diventato per questo il Signore, il sovrano di tutte le cose, colui che ricapitola in sé tutto l’universo e ne è la testa, il capo. Gesù ha ricevuto questo nome proprio in virtù del suo annientamento.
Nel linguaggio biblico il nome è tutt’uno con la persona e quindi dare il nome significa mettere in evidenza la persona stes­sa. Aver ricevuto il nome di Signore vuoi dire essere stato posto in una condizione di gloria e di esaltazione suprema. Dire, dunque, « Gesù Cristo è il Signore » diventa l’affermazione più alta e più sintetica della fede cristiana (cfr. At 2,36 e Rm 10,9). 

La glorificazione del Padre 
Vv. 10-11: « Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre ».
Senza entrare nei particolari, cari a molti commentatori, è importante dire che Paolo elencando « nei cieli, sulla terra e sotto terra » vuole indicare tutte le Potenze dell’universo. Esse sono state sottomesse a Gesù. Alle Potenze che tengono schiavo il mondo è subentrato un Signore che ha la funzione di liberare il mondo e l’uomo dalla schiavitù delle Potenze.
Dietro il termine « Potenze » si nasconde tutto un universo, con Satana in testa, che si oppone alla signoria di Gesù, alla quale tuttavia è già stato sottomesso.
È attuale e operante anche oggi il mistero delle Potenze! Non a caso viviamo in un tempo in cui c’è un grande risveglio di at­tenzione a fenomeni magici, nascosti, tenebrosi. È Satana il signore delle tenebre, mentre Gesù Cristo è il Signore della luce. Come ci avverte tutto il Nuovo Testamento, ciò che è fatto di nascosto è sotto il segno di Satana (cf. Mt 6,23; 1 Ts 5,5; 1 Gv 1,5-7,2,9-11).
A questo Signore che ha sottomesso tutte le Potenze si innalza la proclamazione di ogni uomo: « e ogni lingua proclami… « . È la confessione ecclesiale e universale: Gesù è il Signore delle Potenze, è Colui che riceve gloria da ogni bocca.
La signoria universale del Cristo si risolve poi nella glorificazione del Padre: « a gloria di Dio Padre ». E qui trova conclusione la storia della salvezza: Dio Padre che nell’umiliazione.;. esaltazione del Figlio, nella sua morte e resurrezione, tutto ha posto sotto i suoi piedi facendolo Signore, riceve poi da questo Figlio tutta la gloria. La gloria ritorna al Padre, da cui è partita tutta la storia della salvezza. In questo mistero di rapporto trinitario fra Cristo e il Padre nello Spirito – il Padre che consegna tutto nelle mani del Figlio e il Figlio che gli riconduce, ricapitolandole, tutte le cose, in un rapporto di reciproco infinito Amore – si consuma tutta la storia della salvezza.
Con questa immagine di ritorno di tutto l’universo, unificato in Cristo, alla gloria del Padre si chiude l’inno di Paolo.

Publié dans : Lettera ai Filippesi |le 20 novembre, 2012 |Pas de Commentaires »

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