Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: Lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù, Fil 2,1-30
http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/zaccherini_filippesi5.htm
Gianni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI
Capitolo secondo
Lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù, Fil 2,1-30
Dividiamo fondamentalmente questo capitolo in due parti: i vv. 1-18 e i vv. 19-30.
I versetti 1-18 sono a loro volta divisi in peri copi più brevi: una prima pericope è costituita dai primi quattro versetti ed è una seconda esortazione che Paolo dà ai cristiani di Filippi, dopo quella che abbiamo visto nei versetti finali del capitolo primo in ordine al combattimento per la fede.
Questi quattro versetti iniziali sono poi seguiti da un inno, al quale vengono collegati dal v. 5. L ‘inno, che occupa i vv. 6-11, è un inno che ha al centro il mistero del Cristo. Un inno cristologico che può anche leggersi in forma autonoma, cioè anche fuori dal contesto del capitolo secondo di questa lettera, al punto che si pensa addirittura sia un inno che Paolo ha già trovato proclamato nella comunità cristiana dei primi decenni e che ha assunto incorporandolo in questa lettera a sostegno di quanto sta dicendo ai fratelli di Filippi. Si può però anche pensare che Paolo lo abbia composto in prima persona, ma in forma tale da poter avere una sua fisionomia propria e indipendente dal contesto.
Tutto questo però a noi interessa relativamente, perché quel che interessa veramente è il significato che l’inno assume nel contesto della Lettera ai Filippesi. Quanto, infatti, è detto in questo inno è il fondamento di tutto quanto Paolo ha già detto e di quello che dirà nei versetti seguenti.
Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (vv. 1-11)
La comunione nello Spirito
V. 1: “Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione…” .
I primi quattro versetti sono un’esortazione alla concordia e alla stima reciproca dei cristiani: devono vivere in comunione profonda di pensiero e di vita; devono stimarsi gli uni gli altri, ponendo sempre il fratello al di sopra di sé.
Questo primo versetto è tipico del pensiero di Paolo perché sottolinea ed evidenzia il dato di partenza di ogni esortazione morale. Paolo sa di poter dare dei precetti, degli ordini, delle indicazioni, degli orientamenti ai fratelli, se alla radice della loro esistenza c’è la novità introdotta dal Signore: quindi, questo « se » che ci troviamo davanti non è dubitativo, perché quello che Paolo elenca è un dato evidente, frutto del dono di Dio in Gesù Cristo.
Tutto quanto è elencato in questo versetto c’è, esiste: è la grazia del Signore verso la sua Chiesa, verso i suoi discepoli, verso i figli del Padre suo.
Lo schema che sta sempre dietro al ragionamento di Paolo è questo: Dio ha fatto il dono ai cristiani; essi però devono viverlo perché, se non lo vivono, è come se Dio non lo avesse fatto. Rimane sullo sfondo la possibilità di venir meno al dono escatologico di Dio in Gesù Cristo, cioè alla salvezza. Per questo Paolo in tutte le sue lettere alterna sempre, nell’uso dei verbi, l’indicativo (« le cose stanno così ») con l’imperativo (« fate così »). Dirà, per esempio, nella Lettera ai Colossesi (3,1): « Se siete risorti con Cristo (questo è il dato oggettivo, di partenza), cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra del Padre (questa è la conseguenza, la messa in atto del dato iniziale, ma questa messa in atto dipende anche dall’accettazione concreta del dono di Dio). Quindi, il « se » non è dubitativo, ma esprime una condizione reale nella quale si trova il cristiano e dalla quale deve far dipendere il suo comportamento. I versetti seguenti della Lettera ai Colossesi (3,3-4) si possono leggere così: siete stati immersi mediante il Battesimo nella morte del Cristo, siete morti con il Cristo; quindi date la morte alle vostre membra, cioè portate alle estreme conseguenze il dono del Signore, altrimenti esso perde la sua rilevanza, la sua efficacia.
Questo è molto importante perché ci aiuta a capire che in tutta la rivelazione neotestamentaria il dono di Dio, che è origine e fonte di tutto, è un dono di responsabilità e comporta la necessità di un’obbedienza, di un’attuazione di ciò che Dio ha donato in Gesù Cristo.
La stessa cosa si verifica anche qui. Quello che Paolo elenca nel primo versetto non lo pone come un’ipotesi: c’è o non c’è. C’è, ma potrebbe venir meno se venisse meno il comportamento conseguente.
E in che cosa consiste il dono del Signore alla comunità dei credenti? Paolo elenca quattro elementi: la consolazione in Cristo, il conforto della carità, la comunione di spirito, sentimenti di amore e di compassione.
Anzitutto, i cristiani hanno ricevuto la consolazione di Cristo. Che cos’è la consolazione di Cristo? È il frutto, la conseguenza dell’annuncio evangelico. La proclamazione evangelica porta con sé la consolazione. Fra l’altro la parola usata qui nel testo in lingua greca è la stessa che viene usata per indicare lo Spirito Santo, il Paraclito, il Consolatore. Quindi è una parola che ci porta dentro al mistero stesso della salvezza. La consolazione cristiana è questa profonda consapevolezza di essere stati investiti dalla salvezza di Dio. Questa salvezza, che altro non è che la pienezza dello Spirito Santo che viene donato ai credenti, è la consolazione cristiana.
Il conforto della carità è l’amore di Dio che in Gesù Cristo è stato riversato sui credenti. Essi a loro volta sono legati gli uni agli altri da questa carità e quindi c’è in loro il conforto che deriva da essa. Paolo usa questa parola, o perlomeno il suo senso fondamentale, in un altro contesto, quando scrive ai cristiani di Roma: « Desidero venire da voi per confortarvi, anzi per confortarci reciprocamente nella fede che abbiamo in comune » (cf. Rm 1,11-12). Il conforto della carità è appunto questo senso di sollievo, di garanzia e di forza che deriva ai cristiani dall’essere uniti nella fede e nell’amore di Dio che si è manifestato e attuato in Gesù Cristo.
Consolazione e conforto sono frutto della proclamazione evangelica che suscita nei credenti la vita comune e ciò che caratterizza questa esistenza nuova di figli di Dio: la carità che li lega gli uni agli altri.
Poi Paolo aggiunge: « se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione ». È una continuazione e una specificazione di quanto ha detto prima. L’ascolto del Vangelo, la comunione con il Cristo portano con sé, proprio perché strettamente legati, la comunione nello spirito; questo da una parte sottolinea che la comunione cristiana è frutto della presenza dello Spirito di Dio nel cuore dei credenti, e dall’altra che i credenti sono diventati una comunione di cuori, di anime, di pensiero e di esistenza. La comunione nello Spirito crea comunione tra gli spiriti di coloro che hanno accolto quello del Signore. Di conseguenza, in coloro che sono stati investiti dallo Spirito del Signore c’è una pienezza di carità e di misericordia vicendevole.
Paolo altrove dice: « Portate i pesi gli uni degli altri » (Gai 6,2). Questo avere compassione vicendevole, questo sopportare assieme, gli uni accanto agli altri, le vicende della vita, nel bene e nel male, questo gioire con chi gioisce e piangere con chi piange è l’essenza della vita cristiana, come « effetto efficace » del dono di Dio in Gesù Cristo.
La gioia piena
v. 2: « … rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti ».
L’imperativo che consegue alla situazione esistenziale della vita nuova nella quale sono collocati i cristiani dall’ascolto del Vangelo e dalla presenza in loro dello Spirito di Dio è rendere piena la gioia, cioè portarla a perfezione, a compimento.
Paolo, che è stato ricolmato di gioia per aver ricevuto il Vangelo, raggiunge la pienezza di questa gioia nella consapevolezza che coloro ai quali lui ha annunciato lo stesso Vangelo raggiungono la pienezza della vita amandosi fra loro e raggiungendo l’unità più profonda nel « sentire allo stesso modo ». Che cosa rende felice Paolo? Che i cristiani di Filippi siano davvero cristiani. Paolo gioisce fino in fondo per il bene che vede crescere e dilatarsi nel cuore dei fratelli.
Riceviamo ancora un’indicazione fondamentale e concreta che deve valere per ciascuno di noi: ogni credente deve rallegrarsi, sentirsi colmo di gioia, quando un fratello opera il bene e vive nella fedeltà. Se questo fosse capito meglio, quante gelosie, invidie e maldicenze verrebbero meno all’interno della comunità cristiana! Gioire per il bene dei fratelli, per la fedeltà dei fratelli, sentirsi ricolmi di gioia proprio perché c’è questa esperienza, questa consapevolezza che il dono di Dio raggiunge la sua piena efficacia.. .
« Con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti ». Alla lettera: pensandola allo stesso modo, amando le stesse cose, avendo unità di pensieri e di sentimenti. A Paolo sta molto a cuore ribadire un concetto: i cristiani di Filippi devono pensarla in maniera unitaria, convergente, avere le stesse convinzioni, gli stessi giudizi, lo stesso volere, essere « un cuore solo e un’anima sola », per dirla con le parole degli Atti 4,32.
Paolo torna con forza su questo concetto e non è una cosa da poco. Egli vuole affermare un principio fondamentale della vita comunitaria: e cioè che i cristiani devono avere lo stesso modo di sentire. Cosa significa, allora, a fianco di queste affermazioni, quello che noi oggi chiamiamo con grande facilità il pluralismo? Come si combinano le due cose? Quello del pluralismo è un problema serio, sul quale occorre adeguatamente riflettere (vedi in proposito la “finestra “ 2).
Per essere uniti
v. 3: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso ».
In questo versetto Paolo indica le condizioni per raggiungere l’unità del sentire e del pensare. Perché davvero ci possa essere questa unità, cosa devono fare i cristiani?
Alla lettera « spirito di rivalità » significa spirito di parte o di gruppo. Questo è interessante e attualissimo. Paolo ha già incontrato situazioni ecclesiali in cui c’erano gruppi, parti, per esempio a Corinto (cf. 1 Cor 1,12: c’è chi dice di essere di Paolo, chi di Apollo, chi di Cefa… Ecco i gruppi). Oggi nella Chiesa i gruppi si chiamano anche movimenti: cosa direbbe Paolo dei movimenti?
Qui dice con chiarezza che non si deve fare nulla per spirito di parte; quante volte, invece, noi operiamo perché è il gruppo che lo dice e non perché quella cosa va fatta in quanto comunità di credenti. È una realtà che appartiene al gruppo, che serve al gruppo.
Subito dopo viene l’altra parola: « per vanagloria ». Cos’è la vanagloria? È la ricerca della propria gloria, personale o di gruppo, che non è la gloria di Dio. Il cristiano deve ricercare la gloria del Signore, la gloria di Dio. La vanagloria invece è la gloria per sé, è il vantaggio per sé. Anche nella Chiesa tante cose si fanno per il gruppo, per la setta! Molte volte si dice che i movimenti, i gruppi, le associazioni sono una manifestazione della molteplicità dello Spirito e forse è vero, ma andrebbe verificato meglio; bisognerebbe fare discernimento caso per caso.
Dov’è il confine fra la ricerca dell’unico modo di sentire e lo spirito di gruppo? Cosa distingue la ricerca della gloria di Dio dalla vanagloria? Questo è un problema sul quale ci si deve interrogare con forza. Noi viviamo una realtà di Chiesa in cui normalmente signoreggiano lo spirito di gruppo e la vanagloria.
Subito dopo Paolo arricchisce ulteriormente questi concetti: « Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso ». È importantissima questa sottolineatura: spirito di parte e vanagloria caratterizzano coloro che si credono migliori degli altri, che attribuiscono a se e non a Dio la gloria e la realtà della vita fedele. Considerare se stessi migliori degli altri, più fedeli, più osservanti, più bravi è proprio l’opposto di quello che Paolo sta dicendo. Se non ci si considera inferiori agli altri, si opera secondo lo spirito di parte e si opera per vanagloria! Qual è invece il comportamento autentico del cristiano? È che con tutta umiltà consideri gli altri superiori a sé.
Va sottolineato questo « con tutta umiltà », concetto che troviamo altre volte nel Nuovo Testamento e sul quale spesso equivochiamo. Cos’è l’umiltà? Spesso facciamo dell’umiltà un fatto puramente esteriore, che riguarda il comportamento e non la sostanza della persona. Invece la parola greca (tapeinofrosyne) indica il sentirsi, il pensare, l’essere un povero, un ultimo, un insignificante. È la condizione dello schiavo, di colui che è all’ultimo posto, che non conta nulla, non può fare nulla da sé, ma si aspetta tutto dagli altri e soprattutto da Dio.
Solo così gli altri saranno pensati superiori a se stessi: se uno sa di essere all’ultimo posto, dovrà davvero pensare agli altri come a qualcosa di… meglio. Troviamo spesso nella Bibbia la parola tapein6s (esiste anche l’italiano « tapino ») a indicare le persone insignificanti, che proprio non sono niente, sono gli ultimi della terra. Il cristiano deve essere questo, cercare questo, gioire per questo.
Troviamo questa parola, per esempio, nel Magnificat, quando la Madonna glorifica il Signore perché, dice, « ha guardato l’umiltà della sua serva » (Lc 1,48): non si pensi all’umiltà come virtù, ma alla piccolezza, all’insignificanza, all’irrilevanza, al nulla di questa fanciulla che non contava niente nella storia degli uomini ed è stata scelta come Madre di Dio.
Nel Vecchio Testamento c’è spesso una contrapposizione tra il ricco e il povero. Allora come adesso il ricco ha i soldi, ha il potere, è lui che conta; invece il povero non ha nulla e neppure conta nulla: è lui il tapino!
A questo proposito troviamo una frase molto importante nella Lettera di Giacomo (Gc 1,9). Anche se la logica del ragionamento è un po’ diversa da quella del Magnificat, la sostanza rimane la stessa: « Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione. .. ». Il povero si rallegri perché come Cristo, che si è fatto povero, ultimo, è stato glorificato nella risurrezione, così anch’egli è glorificato da Dio, già a partire da questo mondo, nella comunione con il Cristo e nella potenza della sua risurrezione. Poi Giacomo continua: « … e il ricco della sua umiliazione ». Il ricco si rallegri del suo diventar povero, piccolo, tapino. Cosa deve fare il ricco? Deve farsi anche lui ultimo e allora anche lui sarà glorificato assieme al povero. Secondo Giacomo nessuno ha colpa a nascere ricco, però ha colpa se lo rimane.
Luca, Paolo, Giacomo: nella diversità delle situazioni, il concetto rimane lo stesso, perché lo stesso è il mistero e il dono. Che il cristiano, cioè, pensi sempre di essere l’ultimo, il più insignificante, quello che ha meno parole da dire, che ha meno gesti da fare; che vede sempre gli altri migliori, più grandi, più importanti, più validi di sé. Tutto questo nel senso più profondo, autentico, trasfigurato; non secondo la logica mondana, ma secondo la logica dell’esistenza nuova dei figli di Dio.
L’interesse degli altri
v. 4: “Non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma anche quello degli altri ».
Bisogna stare attenti alla parola « anche » che qui va intesa piuttosto come « invece », « al contrario ». È, cioè, una contrapposizione; ci sono due posizioni contraddittorie: c’è la ricerca del proprio interesse e c’è, invece, la ricerca dell’interesse degli altri. Meglio ancora potremmo intendere questa frase così: non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma di più quello degli altri.
A conferma di questa interpretazione c’è quanto dice Paolo al cap. 2,21: « perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo ». Questa purtroppo è una situazione che Paolo ha davanti: fra i cristiani si cerca il proprio interesse, il proprio vantaggio, e non quello di Cristo. Anche in 1 Cor 10,24: « Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui » e nella stessa lettera (10,33): « Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza ». C’è dappertutto il senso di una contrapposizione.
Cosa vuoi dire Paolo con questo? Vuoi dire molte cose, l’una stratificata sull’altra.
Prima di tutto è un invito, un’esortazione a uscire dal proprio personale orizzonte per aprirsi, da una parte, all’orizzonte di Cristo e, dall’altra, all’orizzonte degli altri: ai loro bisogni, alle loro necessità; è un invito all’obbedienza a Dio attraverso l’assoggettamento al fratello, al cui servizio ogni cristiano deve porsi. Il cristiano non deve vivere per sé, ma per Dio e per i fratelli. Questo vuoi dire nella sostanza il ragionamento di Paolo che poi si può arricchire anche di altri significati.
Il cristiano deve sapere che non ha più davanti a sé, come punto di riferimento, se stesso e l’ambito dei propri interessi, delle proprie necessità, delle proprie utilità. Fra l’altro qui Paolo, con una forte radicalità, non distingue tra interessi legittimi e illegittimi, ma distingue tra due ambiti: l’ambito del proprio io e l’ambito degli altri. Il cristiano deve uscire dal proprio ambito ed entrare nell’ambito dei fratelli, mettendosi al loro servizio.
Questo pone indubbiamente tutta una serie di problemi, per i quali queste affermazioni di Paolo sono decisive. Infatti, se siamo anche solo minimamente critici nei nostri confronti e nei confronti della nostra comunità, ci accorgiamo di vivere proprio al contrario di quello che qui Paolo dice. Siamo nella posizione polarmente opposta al pensiero di Paolo. Ma se quello che dice Paolo è vero (e quello che dice Paolo noi sappiamo che non è parola di uomo, ma Parola di Dio), vuoi dire che nella nostra esistenza concreta rischia di venir meno il dono originario di Dio. A questo punto, di fronte ad un’esistenza cristiana così radicalmente infedele alle esigenze del Vangelo, cosa significa continuare a dirsi cristiani? È un interrogativo che non ci si può non porre di fronte a una pagina come questa.
Il sentire di Cristo
V. 5: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù ».
Il versetto 5 è un versetto di raccordo tra i primi 4 vv. e l’inno cristologico successivo, anche se c’è già un raccordo interno dato dall’espressione che abbiamo trovato al v. 3: « con tutta umiltà », che rimanda alla parola « umiliò » che leggeremo al v. 8: « umiliò se stesso ».
La condizione umile, povera, insignificante alla quale è chiamato il cristiano si è, cioè, già attuata in Cristo Gesù; anzi ha avuto in Lui il suo compimento supremo ed è attraverso questa umiliazione che si è attuata e consumata la salvezza; quindi questa umiliazione diventa esemplare per tutti i cristiani.
Paolo ha già invitato tutti i cristiani ad avere uno stesso sentire (vedi sopra, a p. 59,2,2); qui aggiunge una cosa importantissima, infatti ci si potrebbe chiedere: questo comune modo di sentire e di pensare a chi appartiene? Supponiamo di essere tutti attorno a un tavolo e di pensarla ognuno in un modo diverso. Quando alla fine ci diciamo che dobbiamo pensarla tutti allo stesso modo, di chi assumiamo il modo di pensare? Paolo dice che il modo univoco di pensare dei cristiani non è il modo di pensare di questo o di quello, di un uomo cioè, ma è il modo di pensare del Cristo.
Il comune pensiero dei cristiani non può essere altro che il pensiero del Cristo, che poi non è semplicemente un pensiero, ma un essere, un modo di vivere: e Paolo lo illustra con l’inno che segue. La convergenza del modo di pensare e di sentire dei cristiani si fonda quindi sull’unico pensiero e sull’unica « sensibilità » del Cristo.
Ricordiamo a questo proposito la parola dell’Antico Testamento scritta in Is 55,8 ss., dove si dice: « I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie », cioè fra il pensiero degli uomini e il pensiero di Dio c’è un abisso. Ora, nel Nuovo Testamento, si è reso possibile agli uomini, in Gesù Cristo, avere lo stesso pensiero di Dio. È ormai possibile per il credente pensarla come la pensa Dio. La separazione che nella vecchia economia c’era fra il pensiero di Dio e il pensiero degli uomini è stata superata in Gesù Cristo, per cui oggi i credenti possono avere lo stesso pensiero di Dio manifestatosi e attuatosi in Gesù Cristo. E lo hanno in questo senso: possono non semplicemente imitare Gesù, ma grazie alla vicenda personale di Lui è resa loro possibile la trasformazione da uomo mondano in uomo di Dio o, come direbbe l’evangelista Giovanni, da figlio di Satana in figlio di Dio.
E questa possibilità non è legata a uno sviluppo temporale (sono passati gli anni, quindi l’uomo ha raggiunto una tal perfezione che può pensarla come la pensa Dio). No, è perché Cristo è morto e risorto, è perché c’è stato questo evento che è reso possibile agli uomini vivere come ha vissuto Gesù Cristo e pensarla come la pensa Dio (tutto l’inno di Paolo ruota attorno a questo concetto).
L’evento che ha reso possibile all’uomo pensarla come il suo Signore si attua poi nel credente attraverso l’accoglienza del Vangelo. Come fa l’uomo, potremmo chiederci, a pensarla come Dio? Prendendo dentro di sé il Vangelo e mettendolo al posto dei propri pensieri. Lasciandosi quindi invadere dal pensiero di Dio manifestatosi nella sua Rivelazione, nella sua Parola che è la Scrittura e primariamente il Nuovo Testamento. In questo modo l’uomo può arrivare a pensarla come Dio e quindi è possibile che tutti gli uomini la pensino allo stesso modo. Questo esige davvero un ascolto continuo, perseverante, mai interrotto delle Scritture.
Quando negli Atti degli Apostoli si dice che i primi cristiani avevano un cuore solo e un’anima sola (At 4,32), si usa lo stesso concetto che troviamo qui in Paolo: avevano uno stesso modo di sentire, la pensavano tutti allo stesso modo. Ma perché questo? Nel cap. 2, sempre degli Atti, si spiega il perché concreto, operativo: « Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere » (At 2,42). Ciò che generava in loro l’unico modo di sentire era il fatto che ascoltavano sempre, senza smettere mai, la predicazione apostolica contenuta nelle Sacre Scritture. I cristiani di oggi leggono perseverantemente le Sacre Scritture? Ascoltano veramente questa parola che non è parola di uomo, come dice Paolo, ma Parola di Dio? Poi seguono l’Eucarestia, la vita comune e le preghiere, ma è soprattutto questo il punto di partenza, questo ascolto dell’insegnamento apostolico, questo ascolto del Vangelo.
I cristiani per poterla pensare tutti nello stesso modo debbono avere in sé quello stesso pensiero che fu in Cristo Gesù; l’espressione greca è talmente stringata e forte che vuoi dire anche qualcosa di più: pensarla tutti come la pensava Gesù è possibile solo perché i cristiani sono in Cristo Gesù. I cristiani sono collocati in Cristo mediante la fede e mediante i sacramenti; quindi non solo l’ascolto della Parola, ma anche l’atto sacramentale del Battesimo e dell’Eucarestia fonda la comunione con Cristo e quindi la possibilità di pensarla come il Cristo stesso. È questa un’affermazione di Paolo che dice in pochissime parole un’infinità di concetti, perché il cristiano può pensarla come Cristo perché è in Cristo, vive in Cristo, ha la vita nuova che gli è data dall’essere incorporato a Gesù. In altre lettere Paolo dice: voi siete il corpo di Cristo!
Il v. 5 ci presenta, quindi, un’imitazione di Cristo che ha il suo fondamento nell’incorporazione a Cristo. Poiché siamo in Cristo dobbiamo pensare secondo la logica della vita nuova che Cristo ci ha trasmesso, logica che si è manifestata sia nelle opere sia nelle parole del Cristo stesso. L’evento Cristo è l’evento salvifico e trasfigurante che fonda il nostro nuovo essere e il nostro nuovo sentire.

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