Lettura e commento della Lettera ai Filippesi: La prigionia di Paolo e il suo impegno per il Vangelo (vv. 12-30)
http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/zaccherini_filippesi4.htm
Gianni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della Lettera ai Filippesi
La prigionia di Paolo e il suo impegno per il Vangelo (vv. 12-30)
A questo punto Paolo introduce la presentazione della sua situazione concreta. I w. 12-26 ci prospettano quella che è la condizione di Paolo nella prigionia e le conseguenze di questo fatto, che è un’ulteriore proclamazione evangelica perché dalla prigionia di Paolo è il Vangelo che trae vantaggio. Il v. 12 dice appunto: « Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo ».
Possiamo raggruppare i w. 12- 26 in questo modo: dal 12 al 17 vengono descritti gli effetti della prigionia di Paolo nella comunità nella quale si trova a scontare questa condanna; il v. 18 è un auspicio che la proclamazione del Cristo venga fatta comunque e dovunque; i vv. 19-26 sono una presentazione del compito di Paolo nella situazione in cui si trova.
Il vantaggio del Vangelo
Vv. 12-14: « Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunciare la parola di Dio con maggiore zelo e senza timore alcuno ».
I vv. 12-14 ci presentano il progresso che il Vangelo compie anche in conseguenza della prigionia di Paolo, perché evangelo e ufficio apostolico di Paolo sono strettamente congiunti: dov’è Paolo, si potrebbe dire, lì è anche il Vangelo.
La prima affermazione che Paolo fa è questa: la sua prigionia, le accuse, il processo, le sofferenze che a questo si accompagnano si sono trasformati non in un danno, non in un momento negativo, ma in un vantaggio, in un dato positivo per l’annuncio evangelico. Potremmo dire: lo svantaggio umano di Paolo è un vantaggio per il Vangelo.
Dovunque si sa che la prigionia di Paolo è a causa di Cristo. Questo si è reso evidente per tutti. Non ci sono motivi umani all’origine della prigionia, ma solo il Vangelo di Cristo. È per il Vangelo che Paolo è prigioniero.
Se noi ipotizziamo, come è probabile che sia, che la prigionia di Paolo si svolge a Efeso (ma sarebbe lo stesso se fosse a Roma), sappiamo che all’origine della sua carcerazione ci sono stati molti pretesti: c’è stata la sommossa degli orefici contro di lui; ci sono altre accuse di carattere umano e sociale fatte nei suoi confronti… Però, dal processo che si sta istruendo, sembra dirci Paolo, emerge sempre più il fatto che nessuna accusa può reggere nei suoi confronti. Tutte le accuse umane cadono e in fondo l’unico motivo per cui Paolo è in prigione è davvero il Vangelo del Cristo e attraverso questo evento può davvero dilatarsi la proclamazione evangelica. Il Vangelo, quanto più è conculcato, tanto più è potente e forte.
Nella cerchia dei cristiani si è creato un clima di fiducia che ha dato impulso e coraggio nell’annuncio della Parola. Le catene di Paolo, che confermano l’autenticità del « suo » Vangelo perché rivelano in Paolo un discepolo del Cristo che patisce come Lui, danno nuovo impulso all’evangelizzazione all’interno della comunità cristiana.
Le catene portate per il Cristo sono fonte di consolazione e di coraggio e anche in questo si attua il rovesciamento: Paolo in sostanza non è più l’accusato, ma l’accusatore, l’annunciatore del Vangelo. Nei processi che noi troviamo nei primi capitoli degli Atti, le accuse del Sinedrio contro i discepoli si rovesciano sempre in un’occasione di proclamazione evangelica da parte degli apostoli. Qui si verifica la stessa cosa: Paolo è incatenato, viene processato, ma in realtà è lui che prende occasione da questo fatto per proclamare il Vangelo e quindi per accusare – in senso escatologico, cioè salvifico – coloro che lo accusano. C’è dunque un rovesciamento del processo: l’accusato diventa un testimone, uno che proclama il Vangelo a coloro che lo accusano, per la loro stessa salvezza.
Lo spirito di contesa
Vv. 15-17: « Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del Vangelo; quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene ».
Paolo approfitta di questa messa a punto della sua situazione per far sapere ai cristiani di Filippi quello che sta avvenendo in occasione della sua prigionia: è cresciuto l’annuncio evangelico, ma non sempre con nobili motivi. I vv. 15-17 ei presentano un elemento di ambiguità in questa predicazione evangelica. Attorno a Paolo ci sono due tipi di predicazione: da una parte c’è chi predica il Vangelo con lui e per dilatare la sua predicazione; dall’altra, invece, c’è la prédicazione fatta per invidia e per rivalità nei suoi confronti. Egli ha sempre avuto nemici e avversari, persone che lo hanno fortemente contrastato, cristiani ciechi e incapaci di capire il senso profondo delle cose. Anche nel contesto della sua prigionia ci sono cristiani che in maniera cieca e stolta pensano di trarre vantaggio dalla condizione di Paolo, dal fatto che Paolo è prigioniero. Sembrano pensare: « Menomale che ora Paolo è in galera! Noi prendiamo il suo posto. Lui è ridotto al silenzio e noi possiamo farei avanti »!
Tutto questo aggiunge dolore alle sue catene. Il dolore di Paolo non nasce dal timore che costoro lo sopravanzino nella predicazione, ma dal fatto che ci sia all’interno della comunità cristiana una predicazione non pura, fatta per gelosia e per invidia.
Perché Paolo sottolinea tutto questo? Semplicemente per amore di cronaca? Per rivelare quello che sta accadendo attorno a lui? No, ma per mettere in guardia i Filippesi, per far loro capire che questo non dovrà mai avvenire presso di loro. Lo spirito di rivalità, l’interesse personale, l’ambiguità avvelenano la predicazione evangelica e minacciano la vita comunitaria. Devono essere banditi. Paolo lo ripeterà al cap. 2,3: « Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso ».
Paolo lamenta che tanti cerchino i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo: un rischio che è continuamente presente nella comunità cristiana e da cui bisogna guardarsi. Annunciare il Vangelo non per spirito di servizio o di carità, ma per acquistare vantaggi personali o per porsi al di sopra degli altri è una possibilità reale, dalla quale bisogna stare lontani, con ogni intelligenza e ogni impegno.
Purché Cristo venga annunciato
V. 18: « Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene ».
Eppure sembra che Paolo accetti questo fatto: egli ha ben chiaro davanti agli occhi il fatto che Cristo viene proclamato e di questo si rallegra, anche se la predicazione viene attuata contro di lui, pensando di metterlo in difficoltà. Tutto ciò a Paolo non importa, anzi per lui è fonte di gioia, perché quello che conta è che il Vangelo sia proclamato e Cristo sia fatto conoscere. Paolo non cerca il proprio interesse, ma solo il Cristo. Che Paolo ne tragga o no un vantaggio non interessa, interessa che il Cristo sia annunziato.
Questo versetto ha fatto discutere molto i commentatori perché se da una parte rivela la grandezza spirituale di Paolo, dall’altra pone un problema: come è possibile annunciare il Cristo con motivazioni negative, egoistiche? Se c’è una predicazione « cattiva », come può essere efficace, come può portare frutti buoni? È un grosso problema, che rimane senza una risposta esauriente. Molto probabilmente con questo difficile versetto Paolo vuole sottolineare un dato fondamentale della rivelazione cristiana e cioè che la parola di Dio è efficace al di là della miseria degli uomini che la annunciano. La cattiveria degli uomini non è capace di imprigionare la Parola di Dio.
È un discorso che riguarda anche noi: come è possibile che in una Chiesa a volte così inautentica e infedele possa esercitarsi efficacemente la predicazione? Questo è un fatto che non si può negare: anche quando i cristiani sono cattivi e infedeli, la Parola di Dio, che passa attraverso loro, è salvifica ed efficace per coloro che li ascoltano. La Parola di Dio è più potente della meschinità e della cattiveria degli uomini.
Questo passo di Paolo è forse un’illustrazione puntuale ed efficace del fatto che nella Chiesa, misteriosamente, al di là di tutto, vive sempre la Parola di Dio; e la Chiesa, nelle sue membra, santi o non santi che siano, è sempre portatrice di quella Parola che è più grande e più santa di lei.
Di questo mistero straordinario ci si deve rallegrare assieme a Paolo, per cui davvero dobbiamo gridare con lui: « Ma che importa? Purché in ogni maniera, ipocritamente o con sincerità, Cristo venga annunziato, ce ne rallegriamo e continueremo a rallegrarcene »!
La glorificazione di Cristo in Paolo
Vv. 19-20: « So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, secondo la mia ardente attesa e speranza che in nulla rimarrò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia ».
Dopo la parentesi in cui ha riflettuto sul mistero sconvolgente della predicazione ambigua che può esserci nella Chiesa, Paolo torna al fatto della sua prigionia. E la gioia di Paolo per la proclamazione del Cristo si dilata ora nella certezza di avere in Cristo, e nelle sue catene per Cristo, la salvezza.
Il Vangelo è forza di Dio per la salvezza di chi crede, dice Paolo nella Lettera ai Romani. Quello che sta avvenendo – la proclamazione evangelica, ma anche le sue catene che ne permettono il dilatarsi – sarà per lui fonte di salvezza. Paolo, nel suo predicare il Vangelo e nel suo essere incatenato per il Vangelo, incontra la salvezza di Dio. Qualunque sia la condizione di Paolo (« sia che io viva sia che io muoia »), qualunque sia la conclusione del processo a cui sarà sottoposto, sia che riottenga la libertà, sia che venga messo a morte, Cristo sarà in lui glorificato. La speranza di Paolo è la certezza del futuro di Dio.
Ritorna alla mente quel passo di Paolo nella Lettera ai Romani, al cap. 5, in cui dice che la speranza cristiana non delude perché il suo sbocco è nella resurrezione del Cristo. Anche qui Paolo sa bene che qualunque cosa avvenga non potrà essere deluso né confuso, ma troverà davvero la pienezza di salvezza e Cristo sarà glorificato in lui. Proprio perché il credente sa di essere nelle mani di Dio, nella vita come nella morte, la sua speranza è invincibile.
Paolo aggiunge una cosa importante, che è una ripresa rispetto a quanto aveva detto a proposito del suo rapporto con i Filippesi: « grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo ». La certezza di Paolo nel futuro di Dio è legata a due fatti fondamentali: da una parte la preghiera dei fratelli per lui (quindi l’amore dei fratelli nei suoi confronti), dall’altra l’aiuto dello Spirito.
Qui Paolo sembra richiamarci quella parola che leggiamo nei vangeli, per esempio in Mt 10,19 ss.: « E quando vi consegneranno nelle loro mani non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi ». In coloro che soffrono per il Vangelo c’è la potenza dello Spirito di Dio, che parla e agisce per loro: se c’è questo, e Paolo ne è certo, egli non potrà essere deluso e questo servirà, dice, alla sua salvezza e quindi alla glorificazione del Cristo in lui.
Il vivere e il morire
v. 21: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno ».
Avendo Paolo richiamato il duplice sbocco della sua vicenda, vita o morte, parla di questa dialettica vita-morte in cui è posta la sua esistenza.
Egli è posto in tutta evidenza di fronte alla morte: può essere, anche fra breve, condannato e messo a morte. Questo fa pensare alla vicenda del vescovo Ignazio di Antiochia (primi anni del Il secolo d.C.), che quando viene portato prigioniero a Roma per il processo e viene a sapere che dei cristiani di Roma stanno cercando di ottenere qualche intervento a suo favore perché sia liberato, scrive: « Lasciatemi morire, anzi lasciatemi vivere, morendo, e non uccidetemi facendomi rimanere in vita… »! In fondo, il cristiano posto di fronte alla morte sa che, per lui che ormai è definitivamente in Cristo, questo è un evento di vita. La cosa più profonda, autentica e grande è morire in Cristo.
Paolo è posto di fronte a questo fatto: da una parte c’è la prospettiva della morte, che è poi la prospettiva fondamentale della vera vita; dall’altra c’è la prospettiva di rimanere in vita per poter continuare a predicare il Vangelo. Posto davanti all’ipotesi concreta della morte, dal momento che la sua vita è ormai definitivamente in Cristo, questa (la morte) è il suggello definitivo di questa appartenenza e quindi è un guadagno: « Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno ».
Cosa scegliere
Vv. 22-24: “Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti fra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne ».
Non c’è niente di più bello, per chi vive in Cristo, che morire per Lui. Ma c’è un dilemma! Paolo se lo pone in questa lettera non semplicemente per estrinsecare una sua problematica interiore, ma per far capire qualcosa ai cristiani di Filippi. Il dibattito che si svolge nel suo intimo è rilevante per tutti coloro che lo ascoltano.
Paolo, infatti, dice: da una parte la mia morte in Cristo sarebbe per me un guadagno, perché è il suggello definitivo della mia appartenenza al Signore; dall’altra c’è il mio ministero apostolico. Egli sa di avere un compito: il Signore lo ha chiamato per l’annuncio evangelico; il motivo fondante della sua conversione è l’invio in missione e sente che questo compito non è ancora terminato.
Paolo sa che potrebbe anche morire, ma ha la percezione profonda che dovrà portare avanti ancora il suo ministero evangelico. E se il suo rimanere nel corpo significa lavorare con frutto per l’evangelizzazione, non si sottrae a questa che per lui personalmente è una perdita perché allontana l’ora in cui Cristo sarà definitivamente glorificato in lui.
Questo dilemma di Paolo è il dilemma di ogni cristiano e tutti e due i corni del dilemma sono veri: è verissimo, da una parte, che ogni cristiano deve desiderare di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo: questo è meglio per lui, è il suo vero vantaggio; quanto prima avviene tanto meglio è. Quindi il desiderio della morte per il cristiano è un desiderio vero, fondamentale, primario.
Non però un desiderio di morte per cessare di vivere in questo mondo: ai tempi di Paolo un punto fondamentale della cultura e della filosofia greca era che la vita terrena è una vita infelice, quindi quanto prima l’anima immortale si scioglie dal corpo tanto meglio è. Non è questo il ragionamento di Paolo. Paolo non vuole cessare di vivere in questo mondo, lui vuole stare con Cristo; non abbandonare un’esistenza infelice, ma entrare in una pienezza di esistenza; non una volontà negativa, ma la volontà positiva di stare definitivamente con Cristo. Paolo desidera la morte non per paura della vita, ma per raggiungere la pienezza della vita.
« D’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne »: c’è però una necessità, un’obbedienza. Ecco il punto decisivo: l’obbedienza al Signore, l’obbedienza al Vangelo, la necessità di proclamare il Vangelo.
Il cristiano non è arbitro della sua vita, ma è collocato nell’obbedienza al Signore. Lui può desiderare quello che vuole, ma è al Signore che deve obbedire e se il Signore lo ha mandato ad annunciare il Vangelo, deve annunciare il Vangelo fino alla fine del mondo. È l’obbedienza al Signore che conta.
Paolo vuoi far capire questo ai cristiani: come affermazione di principio la morte, in quanto ingresso nella vita eterna di Dio, è il massimo bene; c’è però l’obbedienza ed è ciò che concretamente determina l’esistenza di ciascuno.
La gioia della fede
V. 25: « Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede ».
Paolo qui anticipa, in maniera profetica, lo sbocco del suo processo. Percepisce che non è ancora chiusa la sua vicenda, che il suo compito non è esaurito: rimarrà in vita per portare a compimento la sua obbedienza. L’incertezza di Paolo sulla prospettiva migliore si risolve così nell’obbedienza al disegno salvifico. Paolo sa di dover rimanere ancora con loro, per loro.
« Per il progresso e la gioia della vostra fede ». La vita di Paolo è finalizzata alla crescita della fede dei cristiani di Filippi, come di tutte le altre comunità verso le quali è debitore non solo dell’annuncio evangelico, ma della crescita della vita cristiana e della sua piena fioritura. C’è una sottolineatura importantissima: « per la gioia della vostra fede ». Non dice soltanto per la fede, ma per la gioia della fede.
Paolo in questa lettera sottolinea ripetutamente il concetto di gioia e vuoi farci capire che la fede cristiana è una gioia, è la vera grande gioia del credente. Dov’è che il cristiano trova la gioia? Nella sua fede. Qual è la fonte della gioia per il cristiano? La sua fede. Il cristiano non gioisce per le cose del mondo ma, quando la fede ha fatto in lui il suo « progresso », gioisce per la fede, nella fede.
La gioia e il vanto
V. 26: « Perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi ».
La traduzione è un po’ incerta, ma Paolo sembra dire che il vanto dei Filippesi è di aver accolto il Vangelo da Paolo. Proprio attraverso il ritorno di Paolo tra loro, volto a consolidare l’annuncio evangelico, questo vanto crescerà. Paolo sa che incontrerà i cristiani di Filippi per consolidare in loro il Vangelo e questo sarà un vanto per tutti.
La gioia e il vanto di tutti i cristiani sono l’ascolto del Vangelo e il fatto che il Vangelo sia proclamato. Nella liberazione di Paolo, nel suo sfuggire al rischio della morte per rimanere nell’esistenza, cosa si attua? Si attua la proclamazione evangelica, l’evangelizzazione. È questo il vanto e la gloria di tutti.
Cittadini del Vangelo
V. 27/a: “Soltanto però comportatevi da cittadini degni del Vangelo… « .
Dal v. 27 del cap. 1 fino al v. 18 del cap. 2 abbiamo una serie di insegnamenti di Paolo per i cristiani di Filippi: è quella che viene chiamata, in molte lettere di Paolo, la parte parenetica o esortativa.
Paolo struttura le grandi lettere in ‘questo modo: una prima parte di insegnamento teologico e una seconda parte di esortazioni concrete in ordine alla vita di ogni giorno. Nella Lettera ai Filippesi la struttura è meno rigida. Si alternano parti più teologiche con parti più esortative, sapendo però che questa distinzione è un po’ di comodo perché anche gli insegnamenti teologici contengono imperativi esistenziali, mentre anche le esortazioni sono illuminanti in ordine alla comprensione profonda del mistero cristiano.
Comunque, da qui al v. 18 del cap. 2 abbiamo una serie di esortazioni specifiche che Paolo dà ai cristiani di Filippi, indicando quelli che sono i compiti della comunità: come deve vivere la comunità per essere autenticamente cristiana.
I vv. dal 27 al 30 di questo primo capitolo sono un’istruzione in ordine al combattimento per la fede. Il conservare la fede e il dilatarla è una lotta, un combattimento nel quale bisogna rimanere saldi.
Cosa vuoi dire comportarsi da cittadini degni del Vangelo? Evidentemente non si fa qui riferimento al comportamento sociale dei cristiani. Paolo, sempre nella Lettera ai Filippesi 3,20, dirà: « La nostra patria è nei cieli ». Viene usata la stessa parola che abbiamo qui al v. 27: « cittadinanza ». La cittadinanza cristiana è nei cieli; quindi i cristiani non appartengono più a una città di questo mondo, appartengono al regno di Dio che è nei cieli; sono stati strappati a una certa esistenza per essere collocati in un’altra: devono, quindi, comportarsi in modo degno della nuova esistenza nella quale sono stati collocati. Il comportamento comunitario dei cristiani deve essere degno del Vangelo di Cristo. Vivere in modo degno vuoi dire in modo ubbidiente al Vangelo, in modo tale che il Vangelo emerga dalla condotta di vita, per cui essa sia una testimonianza e una proclamazione del Vangelo. Nella vita di ogni giorno deve vedersi, deve brillare, deve manifestarsi il Vangelo di Gesù Cristo.
Paolo usa l’immagine politica (da polis = città) per far capire che ormai la vita cristiana ha una sua logica e una sua struttura, come ha una sua logica e una sua struttura la vita delle città di questo mondo. L’immagine non è usata a caso, perché Paolo sa di rivolgersi a cittadini greci, che hanno una lunga tradizione ed esperienza sul vivere all’interno delle comunità cittadine.
Il servizio apostolico di Paolo, la sua opera di evangelizzazione esigono l’esortazione che lui sta facendo: solo se la comunità vive in conformità al Vangelo il compito di Paolo è assolto. Il frutto del suo lavoro, per il quale è necessario che lui resti con i fratelli e non se ne vada definitivamente con il Cristo, è proprio questo. Solo se i cristiani di Filippi vivono in conformità al Vangelo ricevuto il suo compito è assolto.
La messa in pratica del Vangelo è una necessità intrinseca dell’annuncio evangelico. I Filippesi devono comportarsi come si conviene a uomini riuniti in una nuova comunità dall’annuncio evangelico. Se hanno accolto il Vangelo, devono vivere secondo il Vangelo.
Questa dialettica è comune a tutta la rivelazione neotestamentaria: da una parte c’è il dono di Dio, la grazia che opera in coloro che credono; dall’altra c’è la necessità dell’ubbidienza. Il cristiano deve comportarsi secondo il dono ricevuto..
Paolo userà ripetutamente questo modo di esprimersi: « Voi siete risorti con Cristo, quindi cercate le cose dell’alto; siete morti con Cristo, quindi mortificate il vostro corpo » (cf. Col 3,1-4).
C’è un atto, un intervento fondamentale di Dio nell’esistenza del credente e a questo intervento il credente deve una risposta nella vita di ogni giorno. Lo abbiamo già sottolineato parlando dell’indirizzo di saluto (Ef 1,1), quando Paolo si rivolge ai cristiani di Filippi chiamandoli santi. I cristiani sono santi perché sono stati inseriti nell’esistenza di fede mediante l’accoglienza del Vangelo e mediante i sacramenti; ma debbono verificare la loro santità nella condotta di ogni giorno, conforme al Vangelo.
Unità nella fede e combattimento per la fede
V. 27/b: « Perché nel caso che io vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo ».
Paolo deve sapere, sia che arrivi di persona, sia che ne riceva notizia, che i cristiani di Filippi sono saldi in un solo spirito: questa è la verifica dell’autenticità del suo servizio apostolico e della fedeltà dei cristiani di Filippi. La vita comune dei cristiani è il restare saldi in un solo spirito, che è lo spirito di Dio.
Questo concetto esprime anche la realtà della comunione di vita dei cristiani. Nell’affermazione di « un solo spirito » c’è implicito un solo modo di pensare, un solo modo di vedere, un solo modo di agire. È la stessa cosa che, cambiando il contesto, troviamo negli Atti degli Apostoli, là dove si legge che i cristiani avevano « un cuore solo e un’anima sola » (cf. At 4,32).
Ed è implicito, nell’esistenza conforme al Vangelo, anche un unanime combattimento per la fede. Con questa affermazione Paolo vuoi ribadire una verità che appartiene a tutta la rivelazione neotestamentaria: la vita cristiana è un combattimento, una lotta.
In questo contesto il combattimento e la lotta vengono evidenziati in ordine al fatto che l’essere cristiani comporta necessariamente la persecuzione, l’aggressione violenta, la derisione da parte degli altri; quindi il cristiano deve sapere che questo è all’interno della logica nuova del suo essere comunità di Cristo, in obbedienza al Vangelo. Deve dunque rendersi conto che non è cosa strana la violenza, la persecuzione, l’emarginazione, l’aggressione che subisce da parte degli avversari. È una conseguenza necessaria dell’essere credenti. C’è un testo della 1 Pt che aiuta a capire bene tutto ciò: « Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi » (pt 4,12). Anzi, alla lettera sarebbe: « Non sentitevi stranieri ». All’interno della persecuzione, sembra dire Pietro, i cristiani sono di casa.
Vincitori nella sconfitta
V. 28: « Senza lasciarvi intimorire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio ».
La logica esistenziale del cristiano è l’essere perseguitato; la persecuzione fa parte integrante della sua esistenza. Quindi il combattimento unanime nella fede è un fatto da cui non si sfugge, ma del quale non bisogna avere paura (« Non lasciatevi intimidire »). Possiamo richiamare Mt 10,20, dove si dice che è lo Spirito che parla e opera nei cristiani che vengono accusati e perseguitati; non devono aver paura, perché in loro agisce lo Spirito di Dio.
« Senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari ». Ci sono degli avversari? Non bisogna aver paura, perché più potente di loro è il Signore.
« Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio ». Questa frase, tradotta così, non è chiara. Cosa vuoi dire « Questo è per loro un presagio di perdizione »? A chi si riferisce? La traduzione migliore è: « Ciò che per loro è segno di rovina, è invece per voi segno di salvezza ». Gli avversari, cioè coloro che perseguitano i cristiani, pensano, perseguitandoli, di operare la loro rovina. Questo fa parte della logica umana. Invece, avviene il contrario: quello che i pagani ritengono fonte di rovina per i credenti, è il segno della loro salvezza. Quando un cristiano è perseguitato, umiliato, umanamente rovinato, proprio in quel momento si attua la sua vittoria e la sua salvezza nella potenza di Dio. Quindi, quanto più i cristiani sono conculcati, schiacciati, umiliati, derisi, disprezzati, perseguitati, tanto più sono vincitori. C’è un insegnamento importantissimo nel rovesciamento della logica mondana: il cristiano vince non quando vince, ma quando perde.
Secondo la logica mondana si vince quando l’avversario è messo fuori gioco e quindi si riesce ad imporre il proprio modo di pensare e di fare. Per il cristiano è vero il contrario: proprio quando si attua nei suoi confronti la massima umiliazione ed emarginazione, proprio allora è davvero vincitore, come è avvenuto per Gesù Cristo.
Il momento supremo della distruzione del Cristo, del suo annientamento, quando ormai i suoi avversari erano riusciti ad eliminarlo mettendolo a morte, proprio quello è il momento in cui si consuma la loro definitiva sconfitta e il Cristo realizza la sua vittoria.
Questo è uno dei punti centrali della rivelazione cristiana, ma è difficile da capire non tanto sul piano intellettuale, quanto su quello esistenziale: perché è difficile accettarlo e viverlo.
Soffrire per Lui
Vv. 29-30: “Perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo ».
Paolo può dire queste cose perché i cristiani di Filippi hanno visto con i loro occhi lo stesso Paolo subire per primo questa condizione esistenziale. Nel libro degli Atti, al capitolo 16, troviamo la descrizione della vicenda di Paolo a Filippi:
« Salpati da Tròade, facemmo vela verso Samotràcia e il giorno dopo verso Neàpoli e di qui a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia. Restammo in questa città alcuni giorni; il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne colà riunite. C’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo essere stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: – Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa -. E ci costrinse ad accettare. Mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una giovane schiava, che aveva uno spirito di divinazione e procurava molto guadagno ai suoi padroni facendo l’indovina. Essa seguiva Paolo e noi gridando: – Questi uomini sono servi del Dio altissimo e vi annunziano la via della salvezza -. Questo fece per molti giorni finché Paolo, mal sopportando la cosa, si volse e disse allo spirito: -In nome di Gesù Cristo ti ordino di partire da lei -. E lo spirito partì all’istante. Ma vedendo i padroni che era partita anche la speranza del loro guadagno, presero Paolo e Sila e li trascinarono nella piazza principale davanti ai capi della città; presentandoli ai magistrati, dissero: – Questi uomini gettano il disordine nella nostra città; sono giudei e predicano usanze che a noi romani non è lecito accogliere né praticare. La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia. Egli, ricevuto quest’ordine, li gettò nella cella più interna della prigione e strinse i loro piedi nei ceppi » (At 16,11-24).
Paolo aveva sperimentato la persecuzione e la prigione a Filippi. I primi cristiani di Filippi avevano visto cosa era successo a Paolo. Sembrava che fosse stato messo a tacere questo « agitatore », che gettava il disordine nella città predicando usanze non lecite!
Riprendiamo il v. 29: « … a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui ». Il discorso di Paolo qui è molto importante: i cristiani di Filippi possono capire il rovesciamento della logica umana, di cui parlavamo, perché l’hanno sperimentata. A loro è stata concessa la grazia di credere in Cristo e di soffrire per Cristo: quindi hanno visto come le cose si sono rovesciate e come si è vincitori quando si è sconfitti, come si è salvati e salvatori quando si è umiliati, disprezzati e crocefissi con Cristo.
La grazia di capire questo si riceve e si consuma nel momento in cui lo si sperimenta; finché non lo si è sperimentato, forse non lo si capisce. La grazia della fede raggiunge la sua pienezza quando si verifica in noi la persecuzione, per la quale si entra nella nuova logica del regno di Dio: finché anche a noi non è concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per Lui, non capiremo la logica cristiana.
Si attui quindi per noi quello che si è attuato per i cristiani di Filippi e più in generale per i primi cristiani, come leggiamo, per esempio, nel libro degli Atti: Pietro e Giovanni, dopo essere stati portati davanti al Sinedrio, flagellati e malmenati, « se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù » (5,41). « Lieti di essere stati oltraggiati », perché quando sono oltraggiati capiscono fino in fondo la ricchezza del Vangelo e la potenza salvifica della fede nel Signore Gesù.
Paolo dice: « Sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo ». I cristiani di Filippi hanno visto con i loro occhi Paolo patire, l’hanno visto imprigionato e ora sanno che è in catene. Ecco il collegamento con la parte iniziale della lettera: « Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo ». La prigionia di Paolo non è uno svantaggio, ma un vantaggio, perché i cristiani di Filippi si rendono conto – e accettano – che quello che si è compiuto in Paolo deve compiersi in ciascuno di essi.

Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.