Lettera ai Filippesi – PARTE I – L’inno cristologico (2,1-11) (Claudio Doglio)
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CLAUDIO DOGLIO
Lettera ai Filippesi – PARTE I
4. L’inno cristologico (2,1-11)
Paolo scrive ai cristiani di Filippi non semplicemente per raccontare la sua situazione, dare notizie e mandare saluti, ma soprattutto per formare quella giovane comunità cristiana. Ecco perché ha senso che noi leggiamo e meditiamo questo scritto – anche se occasionale – perché non riguardava solo quelle persone, ma riguarda tutti e sempre.
All’inizio del capitolo 2 incontriamo il testo che è fondamentale in questa lettera; si tratta di un inno cristologico, cioè una celebrazione liturgica in onore di Gesù Cristo, un testo che probabilmente non ha scritto san Paolo, ma che era già stato scritto prima di Paolo e veniva utilizzato nella prima liturgia cristiana. Paolo probabilmente lo cita, cioè lo riporta per esteso, ricordando ai cristiani quello che cantavano nella liturgia, perché avessero modo di ripensare a quelle parole e contemplare il modello di Cristo.
Anche nella nostra liturgia questo è tornato a essere un cantico; ogni sabato sera, a vespro, apriamo la domenica con queste parole, avendo davanti agli occhi il modello fondamentale di Cristo.
Pienezza della gioia
Per arrivare a questo quadro, così importante, Paolo parte da una richiesta:
2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti,
Io sono contento, ma perché lo possa essere pienamente vi chiedo l’unione dei vostri spiriti. Prima però di arrivare a questa richiesta ha premesso quattro formule retoriche.
2, 1 Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia
Se ci sono le condizioni, allora fatemi contento fino in fondo. Le condizioni ci sono; le quattro formule che Paolo adopera sono delle affermazioni. È un modo retorico per affermare.
«Se c’è qualche consolazione in Cristo». C’è qualche consolazione in Cristo? Sarebbe come dire: “Se mi vuoi bene devi dirmi questo”; se te lo dico è perché so che mi vuoi bene. È come se io ti dicessi: “Dal momento che tu mi vuoi bene, di conseguenza, fammi questo favore”.
Proviamo allora a rileggere queste frasi come delle affermazioni, anche solenni e ribadite.
In Cristo c’è consolazione proprio perché la consolazione è strettamente legata a lui, è dentro di lui o, meglio, io sono consolato se sono in Cristo. La consolazione, l’esortazione, la formazione, sono caratteristiche dello Spirito Santo; lo Spirito Consolatore è legato a Cristo, è il dono di Cristo. Allora, dal momento che Cristo è la nostra consolazione, rendetemi contento.
Dal momento che c’è conforto derivante dalla carità, non c’è altro conforto se non l’amore, l’agàpe, la buona relazione. Non c’è altro conforto della nostra vita se non il bene che abbiamo fatto e abbiamo ricevuto; e allora – dal momento che esiste questa consolazione – rendete piena la mia gioia.
Terza condizione: dal momento che c’è «comunione di Spirito» – ovvero noi siamo perfettamente uniti in un solo Spirito, perché è lo Spirito Santo di Dio che ci tiene insieme – comunicatemi una gioia più grande.
Quarta condizione: poiché ci sono «sentimenti di amore e di compassione» – ritorna il termine che avevamo già trovato come viscere, amore passionale, viscerale, sentimenti di misericordia, di affetto – siccome ci sono, proprio esistono, allora, dal momento che mi volete bene, perché siamo uniti dallo stesso Spirito, perché siamo confortati dallo stesso amore, perché siamo consolati dello stesso Cristo Gesù, allora fatemi contento.
Ma che cosa vuole? Perché con tanta insistenza dà delle motivazioni, delle condizioni così teologiche? Per chiedere che cosa? Ha bisogno di un piacere: “Rendete piena la mia gioia”. Che cosa sta per chiedere? Evidentemente una cosa importante: «Pensate in modo unitario».
Letteralmente adopera il verbo “sentire”, “ragionare”, “pensare”: pensate la stessa cosa, abbiate una unità di intenti, siate uniti nel modo di pensare. Ha già parlato prima di unanimità e di concordia, adesso dice che bisogna avere tutti lo stesso pensiero: abbiate un pensiero solo, unico, uguale fra tutti. Ma come è possibile? Mio nonno diceva: “Tante teste, tante idee” , lo dite anche voi. Allora, se è vero che ognuno la pensa a suo modo, come può Paolo dire che dobbiamo pensare tutti la stessa cosa?
È un sistema da dittatori, perché i dittatori fanno così: lanciano loro l’idea e tutti devono venire dietro e dire la stessa cosa. È forse questa la strada? Ma che cosa intende Paolo quando dice di pensare tutti la stessa cosa? A questo punto, finalmente, specifica:
avendo tutti lo stesso amore
Parla di pensiero, poi specifica con amore, ma dice: “lo stesso tipo di amore”, cioè avendo un’anima sola, essendo uniti nell’anima. Ragionando ripete lo stesso verbo di prima: “Pensando una cosa sola”, la stessa, tutti una cosa, tutti la stessa cosa. Insiste quindi parecchio e prima di arrivare a spiegare che cosa intende apre una parentesi.
3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso,
Comincia a indicare una strada per comprendere il senso di quello che sta dicendo. È una spiegazione di tipo negativo: non fate le cose per rivalità, non fate qualcosa contro qualcuno, di nessun tipo; non fate nulla per rivalità, non fate nulla per vana gloria, cioè per emergere, per farvi vedere, per ottenere onore; è una gloria vuota. Sono due peccati gravi che caratterizzano purtroppo la nostra realtà di Chiesa. Ci sono molti, fra di noi, che peccano di rivalità e di vana gloria, che fanno le cose per rivalità nei confronti degli altri, per essere di più, per essere meglio, per far vedere, per fargliela pagare, anche nelle piccole cose.
Pensate come nelle piccole relazioni quotidiane – talvolta, se non spesso – ci sono queste ripicche: “glielo faccio apposta”; è la vana gloria, la ricerca dell’onore, del titolo, della carriera, della stima, del prestigio. Tutto questo nasce dalla prepotenza dell’io, mettendo me stesso al primo posto.
Grandezza dell’umiltà
Invece l’atteggiamento di umiltà – in greco Paolo adopera una bella parola, un po’ strana: «tapeinofrosu,nh» (tapeinofrosýne). È la sapienza di chi è tapino – è proprio l’umiltà di Maria che nel Magnificat dice: «Il Signore ha guardato la mia condizione tapina». Adopera la stessa parola: ha guardato a come sono piccola, a come sono povera, «per cui tutte le generazioni mi chiameranno beata».
Bisogna allora capire bene questa frase, perché la traduzione non mi piace.
Considerare gli altri superiori a se stessi suona male, ci può portare a un atteggiamento ipocrita. Maria ha la consapevolezza che Dio ha fatto in lei ha grandi cose, ha la consapevolezza di essere piccola, povera, debole, ma non per questo dice: “Io sono l’ultima”; dice invece: “Sono la prima, sono la più fortunata di tutte, tutte le generazioni diranno che io sono beata”. Non si tratta, quindi, di dire: gli altri sono meglio di me, anche quando non ne siamo convinti; si tratta piuttosto di non mettere se stessi al primo posto. Questo vuol dire che ognuno, con tutta umiltà, deve dare più peso agli altri che a sé; deve stare attento agli altri prima di stare attento a sé; prima di mangiare deve guardare se gli altri mangiano, prima di sedersi deve vedere se gli altri sono seduti; è questo il senso dell’umiltà: l’attenzione all’altro. Capiamo allora che se esiste questa umiltà, per cui io mi decentro – non sono più al centro – ma do importanza all’altro, non posso più fare le cose per rivalità e non le faccio neanche per farmi vedere; non mi interessa emergere, perché mi interessa che lui stia bene, che lei emerga Ecco l’atteggiamento di umiltà profonda che deve portarci a non considerarci importanti; non a disprezzare le doti che abbiamo, le qualità che il Signore ci ha donato, ma a non mettere noi stessi al primo posto, riconoscendo che nonostante tutto, nonostante nostre qualità, nonostante i nostri pregi, nonostante il bene che abbiamo fatto e continuiamo a fare, tutto ci è dato gratis.
Un principio a fondamentale della imitazione di Cristo dice: “Ama nesciri et pro nihilo reputari”: “ama essere non conosciuto e ritenuto niente”.
Attenzione, perché il punto decisivo è quell’ “ama”, non “sopporta” se non ti considerano. Non dice infatti: “Datti da fare perché ti considerino, arrabbiati se non ti considerano, ma ama non esser conosciuto, ama essere ritenuto nulla”. Se gli altri non ti ritengono importante, ama quella condizione. “In quella condizione la gioia è piena” così diceva San Francesco a frate Leone: “È perfetta letizia proprio questa, quando non avrai nessuna soddisfazione, quando ti tratteranno male”. Proprio in questo mettere se stessi all’ultimo posto sta l’atteggiamento fondamentale: abbiate tutti questa unica e medesima mentalità, un atteggiamento di umiltà.
4 non cercate ciascuno le proprie cose, ma quelle degli altri.
Ecco di nuovo un’altra spiegazione: non cioè fate i vostri interessi, non pensate a voi stessi e basta, ma occupatevi delle cose degli altri, state attenti alle loro necessità.
Finalmente esprime chiaramente quello che aveva in testa:
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti [pensieri] che furono in Cristo Gesù,
Più che “sentimenti” io direi “pensieri”, perché in greco Paolo adopera di nuovo lo stesso verbo che ha già adoperato due volte dicendo: “pensate”, pensate la stessa cosa, pensate una cosa sola. Adesso ripete: “Pensate al modo di Cristo”. Forse la traduzione migliore potrebbe essere questa:
abbiate la stessa mentalità che fu in Cristo Gesù
Modello esemplare è la mentalità di Cristo
La parola cardine è “mentalità”, cioè modo di pensare, modo di vedere le cose. Qual è l’unico modo buono, valido, di vedere le cose? Quello di Gesù Cristo! Abbiate tutti quell’unico e identico modo che è quello di Gesù Cristo.
Non si tratta allora di dire la stessa frase, di pensare la stessa cosa, ma di avere come fondamento la stessa mentalità. Questo non è un atteggiamento da dittatore, è l’offerta del modello fondamentale dell’unica strada di salvezza.
Questo è il vertice della Lettera ai Filippesi, è il cuore della nostra riflessione: Cristo è il modello, la mentalità di Cristo è fondamentale, è un imperativo di base: «Abbiate la sua mentalità»; se non avete la mentalità di Cristo noi gli appartenete, se ne avete un’altra cambiatela, criticate fortemente il vostro modo di pensare, analizzatelo, valutatelo, confrontatelo con Cristo; se corrisponde al suo: bene; se non corrisponde al suo cambiatelo, perché va male. La conformazione a Cristo misericordioso è il primo punto della nostra adesione a lui, del nostro cammino di fede, di conversione.
«Conformarsi a Cristo!»: allora la nostra meditazione adesso raggiunge un punto decisivo.
Prima di ragionare su di me devo ragionare su di lui, devo tenere fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della nostra fede, punto di partenza e punto di arrivo.
Dobbiamo continuamente rimanere fissi su Gesù Cristo, dobbiamo essere come lui, possiamo essere come lui, stiamo diventando come lui.

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