«TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18) (Lectio)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi4.htm

(sono sicura di avere messo le tre prime « lectio » se volete legggerle credo… di avere messo almeno la categoria « Lectio »)

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

Giuseppe De Virgilio

Una lettura vocazionale di Fil 1,12-2,18

IV. «TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18)

IV. 1 LECTIO

12 Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedenti, non solo quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e tremore. 13 È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo di­segno d’amore. 14 Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15 per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplende­te come astri nel mondo, 16 tenendo alta la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano aver faticato. 17 E se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18 Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
Dopo il brano cristo logico di Fil 2,6-11, nel v. 12 l ‘Apostolo riprende il dialogo con i cristiani di Filippi denominandoli «amati» (agapetoi). La ripresa è introdotta dall’ avverbio oste (perciò) e contrassegnata dalla raccomandazione: «attuate la vostra salvezza» (ten heauton soterian katergazesthe). Si tratta del primo dovere dei cristiani, che deriva dall’ obbedienza della fede vissuta in senso religioso «con timore e tremore» (meta probou kai tromou). Si nota il collegamento con il tema dell’obbedienza di Cristo (Fil 2,8), da cui deriva l’obbedienza dei cristiani.
Nel dialogo epistolare l’Apostolo, essendo fisicamente lontano, esprime il desiderio di essere vi­cino alla comunità con lo stesso affetto e la stessa premura di quando aveva soggiornato a Filippi. L’esortazione del v. 12 fa leva sulla frase comparativa: «(…) come sempre avete obbedito (…) ancora di più obbedite ora che sono lontano». Pertanto come nella presenza (parousia), anche nell’ assenza (apusia) dell’ Apostolo i Filippesi non devono venir meno nell’impegno per la loro salvezza. L’imperativo katergazesthe (52) rivolto all’intera Chiesa filippense evidenzia la necessità di lavorare fattivamente e responsabilmente, mediante una stretta e utile collaborazione (53). L’esortazione lascia emergere l’intento di unire la comunità e la preoccupazione circa le divisioni e i personalismi che Paolo percepisce nel contesto ecclesiale di Filippi.
Nel v. 13 l ‘Apostolo adduce la motivazione teologica: è Dio (theos) ad attivare l’energia (o energon) nei Filippesi; cioè a produrre la forza spirituale affinché si possa realizzare nei credenti il Suo disegno di amore. Egli suscita «in voi» (en hemin) il volere e l’operare «per» (hyper) «il disegno di amore» (eudokias). La formulazione dell’espres­sione hyper tes eudokias, nel contesto della frase, lascia aperte due possibili attribuzioni: la benevolenza sarebbe riferita a Dio (la sua benevolenza), ovvero ai destinatari (la vostra benevolenza) (54). Secondo Fabris la particella hyper non indicherebbe la causa ma lo scopo dell’agire di Dio nei credenti; per tale ragione l’esegeta friulano opta per una «lettura antropologica» (Dio attiva in noi il volere e l’operare per [= in vista della] la [vostra] benevolenza) (55). La traduzione CEI preferisce attribuire a Dio il «disegno di amore» della sua azione a favore dei credenti.
Il v. 14 si apre con un secondo imperativo: «fate tutto» (panta poiete). Lo stile che i cristiani dovranno seguire in mezzo ad una generazione «malvagia e perversa» (V. 15: skolias kai diestrammenes) dovrà essere ispirato al modello umile ed obbediente del Cristo. Come il «servo sofferente di Jahvé», il Signore non alzò la sua voce (cf. Is 42,2), non criticò i suoi accusatori, ma come agnello si lasciò immolare per la salvezza del suo popolo (cf. Is 53,7). Allo stesso modo i «credenti in Cristo», de­vono vivere «senza mormorare e senza esitare» (choris goggysmon kai dialogismon): sono proprio questi limiti che producono un clima fazioso e ne­gativo nella Chiesa.
Nel v. 15 si specifica l’invito paolino con la finale introdotta da ina: una vita impegnata sul versante della concordia e dell’unificazione comunitaria rende i credenti persone «irreprensibili e semplici» (amemptoi kai akeraioi). Paolo intende esprimere l’idea di irreprensibilità e di integrità etica: nessuno potrà rimproverare ai cristiani alcunché di male poiché essi si comportano da veri «costruttori di civiltà», come uomini saggi ed «immuni dal male» (cf. Rm 16,19). L’immagine che segue è molto densa: in un contesto sociale segnato da divisioni e malvagità, i cristiani dovranno essere «figli di Dio innocenti» (tekna theou amoma) e per questo devono «risplendere» (phainesthe) come astri nel mondo. È proprio lo «splendore della testimonianza»che accompagna la fede dei credenti. L’allusione alla «generazione perversa e degenere» riporta alla memoria il giudizio del popolo di Israele lungo il cammino del deserto, riproponendo il giudizio divino in Dt 32,5.20: «Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa (…) sono una generazione perfida, sono figli infedeli». Anche Gesù riprenderà questo giudizio nel contesto della sua missione, soprattutto per via dell’incredulità di Israele (cf. Mt 17,17; Lc 9,41; cf. Sal 78,8).
Nel v. 16 si riprende il motivo della «Parola di vita», già evocato nella prima unità (cf. Fil 1,14) (56). Siamo al culmine del messaggio paolino, che sottolinea ulteriormente la missione della Chiesa: far risplendere su tutti gli uomini la Parola di vita (logon zoes). I cristiani non devono distinguersi per ceto sociale o posizioni economiche o usanze tradizionali, ma per il fatto che «tengono alta» (epeehontes) la Parola di vita (57), cioè la priorità dell’annuncio del Vangelo (cf. 2Cor 4,2; 1 Ts 1,6). In questo essenziale messaggio Paolo condensa tutta la sua esperienza apostolica: il Vangelo è parola di vita perché opera efficacemente in coloro che la accolgono (1Ts 2,13), genera riconciliazione (2Cor 5,19), diventa una strada di speranza per ricominciare ogni giorno (2Cor 2,16-17), attesa di compimento futuro in Cristo Gesù (2Tm 1,10).
Agganciandosi al motivo escatologico, Paolo passa a parlare di sé e dell’ esito della sua missione, gettando uno sguardo sul «giorno futuro» di Cristo (eis emeran Christou), cioè sull’ epilogo della sua vita terrena. L’apostolato del Vangelo non è fatica vana: per Paolo l’impegno missionario e pastorale, come per un atleta o un agricoltore, porterà il suo frutto (58). L’apostolato è paragonabile ad una «corsa» (edramon) in vista della mèta, ad un «faticoso lavoro» (ekopiasa) in vista del frutto! Per questo egli può vantarsi (eis kauehema) della sua missione (cf. 2Cor 1,14), anche nel caso gli fosse chiesto di morire mediante il martirio.
Al v. 17 si esplicita questo concetto, mediante la metafora cultica del sacrificio cruento, in connessione con la sua situazione di prigioniero in attesa di giudizio (cf. Fil 1,12-13). Anche se l’Apostolo deve «essere sparso in libagione» (spendomai) (59) «sul sacrificio e sul servizio» (epi te thysia kai leitourgia), tutto questo accadrà «per la loro fede»(tes pisteos hymon), cioè a favore e a beneficio della fede dei Filippesi. L’esempio di una offerta tanto coraggiosa è stato seguito anche da altri missionari: l’Apostolo stesso addita la testimonianza mirabile di Epafrodito, che ha dato prova di un altissimo «servizio sacrificale» avendo sofferto per il V angelo senza cercare i propri interessi ma quelli di Cristo (cf. Fil 2,19-24.30).
La pagina si conclude con il motivo della gioia condivisa: «sono contento e ne godo con tutti voi» (ehairto kai sygehairo pasin hymin). L’Apostolo ha iniziato il suo dialogo epistolare con la gioia e termina questa prima sezione riconfermando di essere un uomo contento della propria missione. Abbiamo potuto constatare come l’espressione gioiosa del cuore di Paolo non è un artificio retorico né una manifestazione esterna e sentimentale. La gioia (chara) è frut­to di un’esperienza spirituale intensa (cf. Gal 5,22) che viene comunicata alla Chiesa di Filippi perché possa maturare la sua crescita in Cristo. Possiamo determinare la gioia cristiana come il metro indicatore del «sentire insieme», del «vivere insieme», del «soffrire insieme», del «servire insieme», dello «sperare insieme»! Si tratta della dimensione ecclesiale del cristianesimo, che vince la solitudine e apre il cuore alla condivisione!
Così nel v. 18 Paolo può rivolgere l’ultima esortazione ai suoi destinatari: «Godete e rallegratevi con me» (ehairete kai sygehairete moi). Possiamo interpretare questa splendida conclusione nella prospettiva pasquale. Anche se non viene espressamente menzionata, la visione paolina della «vita nuova» si ispira alla «risurrezione di Cristo». Il vanto e la gioia sono centrati su questo mistero; allo stesso modo la vocazione e la missione dei credenti non possono che partecipare a questo evento di salvezza e di speranza. L’intera Chiesa di Filippi accomunata dal «sentire comune», è chiamata alla gioia e alla comunione con il Cristo morto e risorto!

IV.2 MEDITATIO
La terza sezione della nostra pericope completa il percorso svolto, introducendo nuovi aspetti parenetici e sottolineando i motivi annunciati precedentemente. In primo luogo l’Apostolo offre una sintesi della vita della Chiesa attraverso la propria esperienza apostolica. La vicenda di Cristo (2,6-11) non rimane isolata e irraggiungibile, ma deve costituire il fondamento dell’obbedienza della fede nell’esistenza dei credenti. Possiamo ben affermare che la vocazione si concretizza nell’obbedienza della fede. Tale obbedienza deve essere condivisa in modo comunitario, sia in presenza che in assenza di Paolo (Fil 2,12).
Il protagonista della nostra vocazione è Dio. L’Apostolo esplicita bene questo concetto, per evitare equivoci nei cristiani. Nessuno si salverà da solo, con le proprie forze. Se ogni iniziativa è ispirata da Dio, allora il cammino della maturità cristiana è mosso dalla consapevolezza della priorità di Dio, della sua Parola di vita. I termini con cui l’Apostolo esorta a vivere il Vangelo esprimono bene la dialettica spirituale che differenzia il credente dal pagano. Attenzione a non trasformare la Chiesa in una sorta di società paganizzante, conformandosi alla generazione perversa e degenere!
Probabilmente le divisioni presenti nell’ambito della Chiesa di Filippi fanno emergere la fragilità del cristianesimo locale e la fatica di «crescere insieme». Paolo parla di una «generazione perversa e degenere», omologata da una vita piatta e senza fede, costruita sugli equilibri degli interessi e delle passioni umane. La sintetica descrizione appare molto attuale. Di contro la Chiesa è chiamata ad un «colpo di audacia», un «salto di qualità» che nasce dalla Parola di vita. Riscoprire la propria vocazione alla santità significa accettare di convertire il proprio cuore a Dio e alla fede del Vangelo.
Un ulteriore compito collegato al cammino della conversione è dato dall’esperienza della figliolanza. L’Apostolo invita i Filippesi ad essere «figli di Dio immacolati», a splendere come «astri nel mondo». Le due immagini possono aiutarci nella verifica del nostro cammino ecclesiale. Riscoprire la figliolanza divina nell’itinerario dello Spirito (cf. Rm 8,16-17) e riflettere su come le nostre comunità vivono questa figliolanza (o vivono forse una «orfananza» ?). La seconda immagine è quella degli astri, che sono capaci di illuminare o per luce propria o per luce riflessa. Lo splendore astrale richiama il tema della testimonianza cristiana, sempre più necessaria nel contesto della nostra cultura in declino.
Tenere alta la «Parola di vita». Si tratta del cuore del messaggio paolino, che ritorna nell’intera lettera. «Tenere alto» può essere attualizzato secondo tre applicazioni. Si tratta anzitutto della «priorità» della Parola che chiede di essere ascoltata e interiorizzata. Una comunità che non rimette al centro la Parola di vita, che non sa ricominciare dalla Parola, rischia di strumentalizzare e confondere la propria vocazione e missione. «Tenere alto» inoltre significa testimoniare in modo coraggioso e visibile la Parola, in forma personale e comunitaria. Infine «tenere alto» significa mirare alla santità, aspirare ad un’ascesi che consenta di «volare alto» sia nelle relazioni ecclesiali che nella vita sociale del mondo.
In questa lettera, forse più che in altri scritti epistolari, Paolo si presenta come un uomo «contento» e le espressioni di gioia e di letizia caratterizzano l’appassionato dialogo con i cristiani di Filippi. Se ripercorriamo con attenzione la vicenda di Paolo e le sue peripezie, possiamo solo minimamente renderci conto delle sofferenze e delle fatiche che l’Apostolo ha dovuto sostenere per la Chiesa (cf. 2Cor 4,11-18; 6,3-12). Eppure Paolo vive la gioia, la condivide, la proclama, la testimonia in modo convincente (Fil 1,25; 2,17-18). Si tratta di un «dono» che Dio fa all’Apostolo; allo stesso tempo la gioia deve caratterizzare la vocazione dei credenti e la loro missione: la lotta gioiosa per il Vangelo è la modalità attraverso la quale anche oggi siamo chiamati a «correre e a proclamare la Parola » lungo le strade del mondo.

IV.3 ORATIO
«Rallegratevi con me»

Quando fin dall’aurora
sperimentate la gioia di vivere,
incrociando gli occhi dei vostri vicini,
pronti a ricominciare una nuova giornata,
con il desiderio di lavorare per il Regno,
«Rallegratevi con me».

Quando siete chiamati
a dialogare nella famiglia,
accogliendo l’altro nella sua unicità,
disposti a servire i fratelli che vi sono accanto
con la stessa gratuità e tenerezza di Cristo,
«Rallegratevi con me».

Quando sperimentando la fatica delle relazioni,
sentite nel vostro cuore le resistenze ad amare,
timorosi di fare il primo passo nell’umiltà,
eppure vi lasciate portare
dalla speranza nel Vangelo,
«Rallegratevi con me».

Quando gli altri, per causa Sua,
diranno male di voi,
accusandovi ingiustamente
a motivo della testimonianza alla verità,
soli di fronte al mondo
e deboli di fronte agli uomini,
nella consapevolezza che lo Spirito
rinnoverà il cuore,
«Rallegratevi con me».

Quando vi passeranno davanti
con la protervia dell’ autoritarismo,
ritenendovi inutili per quello che siete e valete,
e vi relegheranno nei luoghi comuni
della commiserazione,
ma voi continuerete a servire
e a testimoniare la forza di vivere,
«Rallegratevi con me».

Quando i fratelli vi domanderanno
ragione della vostra fede,
e voi senza paura narrerete
le meraviglie di Dio,
mostrando come i superbi cadono
e i piccoli vengono esaltati,
sforzandovi di entrare per la porta stretta
del dono di sé,
«Rallegratevi con me».

Quando avrete compreso
che la vostra missione volge al termine,
e avrete fatto tutto quello che Dio
vi aveva chiesto,
sperimentando di essere stati
«servi inutili»
nella gratuità,
con il cuore grato alla Chiesa
e nell’attesa dell’Ultimo,
«Rallegratevi con me».

IV.4 CONTEMPLATIO
«Lo Spirito Santo, autore della missione»

Nella terza unità, dopo aver focalizzato il mistero del Padre e del Figlio, fermiamoci a contemplare la persona dello Spirito Santo e la sua missione nel mondo. Infatti non ci sarebbe la Parola di vita se non ci fosse l’azione efficace dello Spirito. Allo stesso modo lo Spirito continua a guidare la missione della Chiesa e a sostenere il cammino della Parola.
Un primo aspetto da evidenziare è collegato con l’obbedienza nello Spirito da parte dei credenti. Paolo stesso dichiara ai Corinzi che la sua parola non si è basata su un discorso persuasivo di sapienza, ma sulla «manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1 Cor 2,4). Riflettiamo sul senso teologico di questo dinamismo che segna la storia della nostra fede e della nostra obbedienza. Non siamo resi schiavi per la violenza di una «parola oppressiva», ma siamo resi liberi per l’attrazione di una «parola liberatrice» (1 Ts 1,8-10).
La missione dello Spirito si manifesta attraverso la storia, i cui punti salienti sono ripresi nella Sacra Scrittura. Fermiamoci a contemplare in modo essenziale la presenza dello Spirito in alcuni contesti biblici: l’atto creativo guidato dall’azione misteriosa dello Spirito di Dio (Gen 1,2; Sap 1,7), il dono dello Spirito di giudizio per la missione dei settanta collaboratori di Mosè (Nm 11,17.25-29), la forza dello Spirito per la parola profetica (Balaam: Nm 24,2; Giosuè: Nm 27,18; Is 61,1), per la missione regale (Davide: 1Sam 26,13).
Lo Spirito di Dio investirà il Messia con i suoi doni (Is 11,2), eleggerà e guiderà il «servo di Jahvé» in vista della salvezza del popolo (Is 42, 1), cambierà il deserto in giardino (1s 32,15), ridarà vita alla comunità di Israele, facendola risorgere dalla morte (Ez 37,1-14) e tutto il popolo finalmente profetizzerà mediante il dono dello Spirito di Dio (Gl 3,1-4), rinnovato nel cuore con una «nuova alleanza» (Ger 31,31-34).
Negli scritti neotestamentari si porta a compimento l’azione dello Spirito, rivelata nella missione del Cristo. È anzitutto il Padre che dona il suo Spirito al Figlio (Mt 3,16) dopo essere stato generato per «opera dello Spirito Santo» nel seno della Vergine Maria (Lc 1,26-38). Gesù «profeta potente in opere e parole» esercita la sua missione nella for­za dello Spirito (Lc 4,1.18; Mt 12,28), rassicurando i suoi discepoli che sarà lo Spirito Santo a sostenerli nella prova e nelle persecuzioni (Mc 13,11) e che Dio concederà lo Spirito Santo a tutto coloro che gliela chiedono (Lc 11,13).
In modo particolare nel Quarto Vangelo si presenta l’azione consolatrice dello Spirito Santo che opera nella storia e nel cuore dei credenti (Gv 1,33), rinnovando li mediante il battesimo (Gv 3,5). È lo Spirito di verità (Gv 4,23-24), protagonista della vocazione e della missione del Figlio (Gv 7,39) per donare la vita al mondo e preparare i discepoli e far conoscere l’amore di Dio mediante la rivelazione del Figlio (Gv 14,17.26; 15,26). Nell’inviare la comunità in missione il Risorto alita sui discepoli lo Spirito (Gv 20,22), segno del compimento della Pentecoste (At 2,1-12) per la quale la Chiesa porterà il Vangelo fino agli estremi confini della terra (At 1,8).
Paolo stesso è consapevole che non si dà missione della Chiesa e dei cristiani senza l’azione dello Spirito di Dio. I cristiani hanno ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ha dona­to loro (1Cor 2,12) e per formare un solo corpo (1 Cor 12,13), diventando ministri della nuova Alleanza nello Spirito (2Cor 3,6.8). È lo Spirito il protagonista e l’autore della nostra vocazione e della nostra missione. Dopo aver riletto la presenza dello Spirito nella storia biblica, riscopri l’opera che lo stesso Spirito ha segnato nella tua vita e nella tua vicenda personale.
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi:
«Il giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmen­te l’uno all’altro – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », para­kletos (cfr. 1 Gv 2, 1) » (60).

IV.5 ACTIO
«La testimonianza della Parola»
La terza unità che abbiamo presentato si caratterizza per la «testimonianza della Parola». L’Apostolo esorta i suoi destinatari a «tenere alta la Parola di vita». Non si tratta di una pia esortazione spirituale, ma di un invito concreto che deve diventare impegno dentro le nostre scelte quotidiane. Possiamo esplicitare il senso di questa affermazione secondo tre prospettive.
«Tenere alta la Parola di vita» indica la centralità della Parola di Dio. Nella consapevolezza che l’obbedienza della fede sgorga dalla predicazione della Parola, occorre rifare ogni giorno la «scelta» di cominciare dalla Parola. È questa la strada maestra per la missione alle genti che la Chiesa chiede alle comunità e ai singoli cristiani.
«Tenere alta la Parola di vita» significa elevare il livello della nostra vita spirituale, non conformando ci alla mentalità del tempo, ma rinnovando la nostra mente e il nostro cuore. Si comprende bene come la prerogativa della missione implica la «dimensione spirituale» dei credenti e della comunità. Splendere come «astri nel mondo» significa non cedere alla tentazione di omologare i progetti e i mezzi al ribasso, ma di elevare lo stile delle nostre relazioni e delle nostre esperienze. La Parola di vita ci spinge a fare scelte di vita e a rifiutare compromessi di morte.
«Tenere alta la Parola di vita» corrisponde al valore personale-comunitario della testimonianza di Cristo e del suo Vangelo. Donne e uomini scelgono di partire per la missione ad gentes, come religiosi, religiose e laici a servizio del bene degli ultimi e dei più bisognosi. Sacerdoti Fidei Donum lasciano le loro case per essere inviati dalla Chiesa nei confini della terra: perché? La risposta è inscritta nella vocazione fondamentale che ciascuno di noi sperimenta nel donarsi a Dio e ai fratelli. «Tenere alta» vuol dire che non ci si può nascondere, non è possibile mistificare la grandezza e la bellezza di questa Parola di speranza.
La nostra actio può recepire questo messaggio, che chiede di essere tradotto nei contesti in cui viviamo ed operiamo. Dio ha bisogno di te, del tuo «sì», della tua «corsa per il Vangelo». I poveri aspettano il nostro «eccomi» e questo tempo della Chiesa è momento favorevole perché tutto questo accada. Ricordiamo a proposito quello che Paolo scrive ai Corinzi:
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! 3 Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; 4 ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, 5 nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; 6 con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero; 7 con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; 8 nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9 come sconosciuti, eppure siamo notissimi; come moribondi, e invece viviamo; puniti, ma non uccisi; 10 come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2Cor 6,3-10).

CONCLUSIONE
Ripercorrendo l’itinerario proposto cogliamo la dimensione missionaria della testimonianza paolina, espressa attraverso la metafora della lotta atletica (cf. Fil 1,27; 3,12-14). La medesima immagine viene riproposta in Fil 3. Trattando della sua esperienza cristiana e della sua attività apostolica Paolo fa memoria delle sue scelte: dopo aver incontrato Cristo, ha subordinato ogni altro bene alla conoscenza del Signore (Fil 3,8). Egli attende solo da Dio la salvezza e in vista di questo dono egli «cor­re la sua gara», per partecipare alle sue sofferenze, diventando conforme a Cristo nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,9-10). Ritornando sulla metafora della «corsa della fede», l’Apostolo dichiara di sé:
«Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14).
La vocazione viene raffigurata alla «corsa verso la meta», alla gara in vista del premio finale, per la quale siamo chiamati ad un coinvolgimento pieno nella consapevolezza di essere stati conquistati da Cristo. Il brano evidenzia tre tappe di questo processo vocazionale, che possono essere applicate all’esistenza di ogni credente.
La prima tappa consiste nell’esperienza di «essere stati conquistati da Cristo». La fede che nasce dall’ascolto ci attrae al Signore e ci guida nella sua logica di amore. La vocazione nasce dall’ esperienza di un «sì» pieno al progetto di Dio per noi. Non per costrizione, ma per conquista di amore, ci sentiamo attratti da Lui e per questo «corriamo verso di Lui».
La seconda tappa è costituita dalla risposta personale all’appello divino, che consta della decisione di alzarsi e correre. La grande gara della vita implica l’impegno personale e il coinvolgimento in un confronto che è sempre faticoso, imprevedibile, aperto alla speranza. La metafora della corsa, ripresa dal contesto ellenistico, ci aiuta a capire come la vocazione sia impegno, fatica, conquista quotidiana, forza di lottare, desiderio di raggiungere la mèta, sfida costante su noi stessi e scommessa sulla fedeltà di Dio.
La terza tappa è costituita dal «premio finale», che Dio concederà «lassù», in Cristo Gesù. La sottolineatura paolina è di tipo escatologico, senza escludere la quotidiana esperienza del «portare frutto» nella missione. Se il premio finale di lassù è la mèta conclusiva della nostra vocazione alla santità, la missione è l’essenza del nostro gareggiare in questo tempo della vita.

È questa la testimonianza vocazionale di Paolo mentre scrive ai Filippesi e condivide con loro l’avventura del Vangelo.
Correre verso la mèta, per conquistare il premio! Vivere la propria vocazione mediante la missione di annunciare il Vangelo a tutti!

Publié dans : LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |le 5 septembre, 2012 |Pas de Commentaires »

Vous pouvez laisser une réponse.

Laisser un commentaire

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01