Archive pour août, 2012

Mount Tabor, the church, the apse

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IL TABOR NELLA LETTERATURA RABBINICA (SBF JERUSALEM)

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CUSTODIA TERRAE SANCTAE

IL TABOR NELLA LETTERATURA RABBINICA

(Teresa Petrozzi)

Il Tabor del rabbini si presenta sotto aspetti diversi.

In due trattati del Talmud di Babilonia, Zebaim e Baba Bathra, il monte è preso a misura di grandezza: “Esisteva un animale tanto grande che non entrava nell’arca; quanto era grande? era grande quanto il Tabor; e quanto è grande il Tabor? Quaranta parasanghe.”
Secondo un’altra scuola esso è un monte santo. La Midrash Yalkut, riferendosi ai sacrifici di giustizia di Dt 33,19, sostiene che il Tabor e il monte sul quale il Tempio doveva essere costruito, di diritto [ ... ] se non fosse stato per una espressa rivelazione che ordinava di erigere il santuario sul Monte Moria. L’autore del trattato Tehillim annuncia: Nel tempo a venire Dio farà scendere la Gerusalemme celeste su questi quattro monti: Tabor, Hermon, Carmelo e Sinai.
Una terza scuola presenta il Tabor come un simbolo di orgoglio e di presunzione. Nel commento al versetto del Cantico di Debora, i monti rabbrividirono innanzi a Iahve, innanzi a Iahve Dio di Israele (Gdc 5,5), il Targum di Gerusalemme fa dire al Tabor: “Su di me si libra la presenza divina, a me essa appartiene di diritto. Quando all’inizio, ai giorni di Noè, le acque del diluvio coprivano tutte le montagne, i flutti non arrivarono né alla mia testa né alle mie spalle. Io sono dunque più elevato di tutte le montagne ed è mio privilegio legittimo che Dio dimori su di me.”
La Midrash su Genesi racconta che, mentre le nazioni ed i popoli si rifiutavano di accettare la Legge, i monti disputavano fra di loro contendendosi l’onore di essere prescelti come luogo della rivelazione. Il Tabor si vantava di essere il più alto, appunto perché aveva torreggiato sulle acque del diluvio; l’Hermon accampava diritti perché, al momento dell’Esodo, si era steso fra le due sponde del Mar Rosso permettendo agli Israeliti di passare; il Carmelo, sicuro della sua posizione, taceva e pensava: Se la presenza di Dio, la Shekinah, deve sostare sul mare, sosterà su di me, e se deve sostare sulla terra ferma, sosterà su di me. Ma una voce risuonò dall’alto e dichiarò: la presenza divina non si fermerà su questi alti monti, che sono così superbi, bensi sul Sinai, che è il più piccolo ed il più insignificante di tutti. La stessa Midrash precisa che il Sinai fu preferito anche perché su di esso non erano stati adorati idoli.
Secondo la tradizione, peraltro, il Tabor ed il Carmelo fecero spontaneamente atto di sottomissione: essi, o i loro angeli degli elementi, andarono al Sinai quando venne data la Legge. Il Tehillim aggiunge che il Signore fu commosso dalle buone intenzioni dei due monti e dichiarò: Poiché vi affannate in mio onore vi ricompenserò. Guardate, al tempo di Debora libererò i figli di Israele sul Monte Tabor, come e detto: e sali verso il Monte Tabor (Gdc 4,6); e anche libererò Elia sul Monte Carmelo, come è detto: Acab [ ... ] riunì i profeti sul Monte Carmelo (1 Re 18,20). L’Hermon non è ricordato.
Le stesse considerazioni sulle pretese orgogliose del Tabor e del Carmelo sono ripetute nel Targum, nella Midrash su Numeri e sul Salmo 68 e nella Pesikta Rabbati.
L’Antico Testamento non lascia luogo a dubbi circa il fatto che la Legge fu data sul Sinai. L’insistenza con la quale i Rabbini sostenevano questo punto, proclamando che il Tabor ed il Carmelo erano stati scartati per il loro presuntuoso comportamento, ed il silenzio che sopravviene nei riguardi dell’Hermon, possono essere il riflesso di una polemica. I Rabbini compilarono i loro trattati nei primi secoli della nostra èra, mentre il Cristianesimo si stava espandendo. Il Carmelo, sul quale vivevano monaci ed eremiti cristiani, ed il Tabor, ritenuto particolarmente santo dai Giudeo-Cristiani, dovevano essere umiliati e accontentarsi di un premio di consolazione. Dell’Hermon era inutile parlare in quanto non era connesso al culto cristiano.
Comunque. il Tabor restò impresso nell’animo degli Israeliti. Ancora oggi, tra le preghiere recitate alla fine dello Shabbath, essi ripetono un inno, Havdalah, attribuito a Isaac ibn Chayyat (1030-1089), nel quale si dice che la giustizia misericordiosa di Dio è simile al Monte Tabor.

IL MITO DEL PROGRESSO – Una riflessione firmata da Rodolfo Papa… (direi anche filosofia, interessante)

http://www.zenit.org/article-32040?l=italian

IL MITO DEL PROGRESSO

(direi anche filosofia, interessante)

Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l’Urbaniana

di Rodolfo Papa

ROMA, mercoledì, 8 agosto 2012 (ZENIT.org) – Il mito del progresso sembra essere uno dei miti più forti prodotti dalla modernità, tanto da resistere persino alla relativizzazione e al debolismo tipici della mentalità postmoderna. Il mito del progresso ha impregnato fortemente la riflessione sulla storia, e intrattiene un rapporto peculiare con la storicizzazione dell’arte.
Ancora oggi, la maggior parte dei manuali propone la storia delle arti come una successione continua “dal peggio al meglio” secondo un puro criterio cronologico, secondo il quale ciò che viene dopo è senz’altro migliore rispetto a ciò che viene prima [1].
Ma dove nasce questo mito? La nozione di progresso accompagna ogni riflessione umana, ma il mito moderno del progresso, inteso come «filo conduttore della comprensione unitaria e organica degli eventi storici», affonda le radici in modo peculiare nell’Illuminismo del XVIII secolo; infatti, come lo storico della filosofia Miccoli ha messo in evidenza, le progrès funge da «denominatore comune nella proporzione ottimistica stabilita tra l’accrescimento quantitativo delle scoperte scientifiche e l’incremento qualitativo della felicità che accompagna l’evoluzione del genere umano sotto forma di storia della civilizzazione» [2].
Il mito del progresso è strettamente legato ad una visione meccanicistica e quantitativa della realtà, nella quale ogni aumento viene registrato come sommatorio e come positivo. È intimamente connesso all’entusiasmo sollevato dal progresso scientifico; già Bacone, nel suo Novum Organon del 1620, sembra identificare il progresso in quanto tale con quello delle scienze, da lui intese come somma di conoscenza e potere, dunque dominio della natura: «non si tratta solo della felicità della contemplazione, ma del destino e della fortuna del genere umano e di tutta la potenza delle opere. L’uomo, infatti, ministro e interprete della natura, tanto opera e comprende quanto, dell’ordine della natura, avrà osservato, con l’attività sperimentale o con la teoria»[3].
Il progresso è soprattutto un modo di valutare la storia e il passaggio del tempo, nella convinzione che l’uomo, grazie allo sviluppo delle proprie capacità, riesca a dominare la realtà e a costruire un mondo ed una società via via migliori. Il mito del progresso è, infatti, alla base delle grandi utopie della modernità, a partire dalla Nuova Atlantide dello stesso Bacone, e viene condiviso da pensatori assai diversi.
Il mito del progresso si rivela, infatti, come una sorta di filo conduttore, entro il quale è possibile leggere esperienze del pensiero e della cultura assai diverse e distanti fra di loro.
Nel corso dell’Ottocento, per esempio, appaiono filosofie progressive tanto l’idealismo quanto il materialismo positivista, tanto Hegel quanto Comte. Sia la dialettica di Hegel che la legge dei tre stadi di Comte, che traduce “la marche progressive de l’esprit humain” non cadono nelle ingenuità del progresso lineare, essendo la prima segnata dalla peculiarità del processo della dialettica storica dello Spirito e la seconda dalle serie di oscillazioni variabili quasi biologiche.
Tuttavia il mito del progresso si semplifica via via nella visione del tempo secolarizzata: una linea retta verso il meglio, che non è più historia salutis ma histoire de la civilisation. Il futuro diventa il paradigma per il presente, un futuro fatto di tecnologia e innovazione, così nel Manifesto del futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909, leggiamo: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno […]
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo [...] un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia […] Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! [...] Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente».
Il progresso entra in dialogo, e per certi versi sussume, le concettualità diverse dello sviluppo e dell’evoluzione, entrambe derivate dalle scienze biologiche. L’idea di sviluppo introduce l’idea di una crescita organica, teleologicamente motivata, mentre di contro l’evoluzione illustra un processo verso il più complesso dominato dal caso.
Entrambe, tuttavia, sia lo sviluppo che l’evoluzione, sembrano nutrire il mito stesso del progresso, che si rivela quanto mai onnivoro e invadente.
Tuttavia, è un mito che mostra presto i propri limiti e le proprie ambiguità. Inizialmente la critica al progresso appartiene a pochi che si soffermano a riflettere, successivamente, soprattutto dopo le Due Guerre Mondiali, appaiono evidenti a ciascuno le crepe di un mito ormai caduto.
Ma il mito del progresso viene denunciato già entro le soglie del XIX secolo. In modo particolare Nietzsche nella Seconda Considerazione Inattuale. Sull’utilità e il danno della storia per la vita del 1874, traccia, secondo alcuni, il confine finale della modernità [4]. Nietzsche critica la cultura occidentale, e in modo speciale lo storicismo che rende l’uomo incapace di storia, e che è un prodotto del razionalismo del progresso, della fede positivista nella scienza.
Ma ancora prima di Nietzsche, è Leopardi a porre una critica radicale a questa visione della storia, soprattutto nella Ginestra scritta nel 1836, dove la grande tracotanza moderna appare ritratta nella sua ridicola e tragica sconfitta: «Dipinte in queste rive/ Son dell’umana gente /Le magnifiche sorti e progressive/ Qui mira e qui ti specchia/ Secol superbo e sciocco,/Che il calle insino allora/Dal risorto pensier segnato innanti/Abbandonasti, e volti addietro i passi,/Del ritornar ti vanti,/E proceder il chiami».
E ancora più incisivamente, la superbia e la sciocchezza del secolo che crede nelle sorti magnifiche e progressive appare nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo del 1824, in cui viene illustrata la scomparsa della specie umana: «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». E gli uomini sono spariti per loro propria causa: « Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male»; ma il mondo continua ad andare avanti e lo gnomo afferma: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli» .
Una critica molto forte all’idea di progresso e soprattutto agli aspetti intrinsecamente negativi del progresso scientifico e tecnologico proviene nel secolo XX dalla Scuola di Francoforte, che si distanzia in questo dal marxismo classico. Il dominio recato dalla scienza è in realtà una forma di schiavitù. Ben lontano dal “promontorio estremo dei secoli”, ma anche ben oltre la denuncia del “secolo superbo e sciocco”, Horkeimer mostra il mondo che «sembra andare verso una catastrofe, o meglio trovarvisi già» [5]. Adorno, quando denuncia la “cattiva coscienza” del progresso, che mentre libera distrugge, diffida anche dell’estremo antiprogressismo, che può rovesciarsi nell’irrazionalismo.
L’immagine più suggestiva dell’ambiguità del progresso è, forse, quella offerta da Walter Benjamin: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta»[6].
Il progresso viene, dunque, rappresentato come una tempesta che proviene dal paradiso, spinge verso un futuro che non vediamo, mentre si accumulano i detriti del passato.
Il mito del progresso sembra dunque svelato nella sua valenza mitica, ma può, tuttavia, dirsi superato? Il termine rimane ancora investito di valenza fortemente positiva: «Noi diamo per scontato che qualsiasi progresso tecnologico sia, per definizione, un progresso. Sì e no. Dipende da cosa intendiamo per progresso.
Di per sé, progredire è solo un “andare avanti” che comporta un aumento. E non è detto che questo aumento debba essere positivo. Anche di un tumore si può dire che è in progresso; e in questo caso quel che aumenta è un male, una malattia. In molto contesti, allora, la nozione di progresso è neutra. Ma in riferimento al progredire della storia la nozione di progresso è positiva. Per l’illuminismo, e ancor oggi per noi, progresso è una crescita di civiltà, un aumento in meglio, un miglioramento» [7].
Eppure la nozione di progresso, sebbene per più versi demitizzata, continua ad essere uno dei motori più forti della storicizzazione artistica, soprattutto di tipo manualistico. La sua persistenza ci obbliga a riflettere ancora.
*
NOTE
[1] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.
[2] P. Miccoli, La voce di Clio. Lineamenti di filosofia della storia, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, p. 131.
[3] F. Bacone, Nuovo organo [1620], trad.it., Rusconi, Milano 1998, VI, pp. 57-58.
[4] «Appare, dunque, comprensibile il rifiuto nietzscheiano del mito del Progresso e della Storia: la seconda Considerazione inattuale (1874) chiude l’epoca della modernità e pare il periodo fluido e incerto, poliedrico e danzante della postmodernità. La concezione lineare della storia, propria in forma religiosa del secondo uomo ed in forma utopica del terzo uomo, viene ibernata» G. Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando editore, Roma 1992, p. 18.
[5] M. Horkheimer, Materialismo e morale [1933], in Teoria critica. Scritti 1932-1941, trad.it. Einaudi, Torino 1974, p. 95.
[6] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it., Einaudi, Torino 2006, p. 79.
[7] G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 19.

El Greco (aka Dominikos Theotokopulos) « St.Dominic of Guzman (c.1170-1221) »

El Greco (aka Dominikos Theotokopulos)

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Publié dans:immagini sacre |on 7 août, 2012 |Pas de commentaires »

8 AGOSTO – S. DOMENICO, di GEORGE BERNANOS

http://digilander.libero.it/avemaria78/san_domenico.htm

8 AGOSTO – S. DOMENICO

GEORGE BERNANOS

(una storia un po’…particolare, ma interessante)

SE SI INTERROGA per la prima volta la vita di un santo, e particolarmente d’uno dei santi fondatori d’ordini, le voci che ne escono sembrano sulle prime innumerevoli e diverse al punto da turbare lo spirito. Questa specie di vertigine crescerà ancora se si vorrà seguire passo passo l’ordine dei fatti, perché la loro successione insegna nulla o ben poco. Questi grandi destini sfuggono, più di tutti gli altri, a qualsiasi forma di determinismo: irraggiano, risplendono d’una sfolgorante libertà.
Sulle prime, sembra che soltanto il genio dia a certe vie eccezionali il medesimo carattere d’indipendenza, di spontaneità sovrana. Invece non è affatto cosi. Si potrebbe al contrario sostenere (e con quali illustri esempi!) che il genio ha sempre in sé qualcosa d’ostile e di irriducibile, quasi un principio di sterilità. Se egli attua quella maraviglia d’ispirazione e d’equilibrio che è l’opera d’arte compiuta, è il più sovente (quando la divina carità non vi collabora) per una sorta di mostruosa specializzazione che esaurisce tutte le potenze dell’anima e la lascia divorata d’orgoglio in un egoismo disumano. L’uomo di genio è così poco presente nella sua opera, che essa è quasi sempre una testimonianza spietata contro di lui. Invece l’opera del santo è la sua stessa vita, ed egli è tutto nella sua vita.
Tuttavia la difficoltà non è vinta: a questo punto della meditazione, appare, al contrario, quasi insolubile. L’esperienza degli uomini in­segna che per penetrare ben addentro nelle loro intenzioni basta il confronto, già troppo cru­dele, fra la vita pubblica e la privata. Non c’è atteggiamento, per quanto bene e pazientemente conservato, che non porti in sé la propria contraddizione, non c’è menzogna cosi compatta che non abbia una breccia, o almeno che non possa essere sorpresa. Come il chirurgo im­para la vita sulla morte, come il bíologo analizza ì cascami organici per cercare di sorprendervi il segreto degli scambi e delle funzioni, il moralista sa di aver davanti a sé un personaggio artificioso e fraudolento, un cadavere camuffato di cui noi stessi siamo le vittime non meno raramente di altri, finché il primo sguardo del giudice, di là dalla morte, non lo faccia andare in frantumi. Il santo invece è davanti a noi ciò che sarà davanti al giudice. In lui giungiamo, abbagliati, non (come si vorrebbe farci credere) a una vita diminuita, di continuo limitata dalla mortificazione, mai alla vita nella sua pienezza, e come nello splendore del suo primo nascere, la vita stessa, quasi una sorgente ritrovata. Ritrovata (infatti l’avevamo, smarrita e appena ritrovata), la perdiamo ancora. Il povero nomade, nel cuore dei suoi deserti di sabbia, che ha imparato a disputare al suolo, per sé e per le sue bestie, un sottile filo d’acqua torbida, stenta a credere che esista sempre un paese di fontane, e che vi sarà di nuovo per le sue labbra e le sue mani questo getto ghiacciato, questo slancio spumeggiante e azzurro.
Si pensa che un Benedetto, un Domenico, un Ignazio ci siano più vicini d’un Giovanni della Croce o d’una Caterina da Siena, perché sono anche legislatori e conquistatori. Ci dànno, è vero, lezioni che la prudenza umana è capace di capire. Ma come è miope questo punto di vista! L’ambizioso che sognerebbe di trovare in loro un metodo e ricette originali perderebbe il suo tempo. La santità non ha formule, o, per dir meglio, le ha tutte. Raccoglie ed esalta tutte le potenze, attua la concentrazione orizzontale delle più alte facoltà dell’uomo. Ma il riconoscerla esige da noi uno sforzo, esige che noi prendiamo parte, in certo qual modo, al suo ritmo, al suo immenso slancio. Senza dubbio pare più facile trascrivere, secondo il vocabolario comune, la storia della fondazione dei predicatori piuttosto che una illuminazione d’Angela di Foligno, e nondimeno, se fosse in nostro potere alzare sulle opere di Dio uno sguardo unico e puro, l’Ordine dei Predicatori ci apparirebbe come la stessa carità di san Domenico realizzata nello spazio e nel tempo, come la sua preghiera divenuta visibile.
Ecco perché in siffatta materia i metodi moderni della critica storica seguitano a ingannarci. Le vite guidate dalle grandi passioni umane hanno di là dal loro disordine apparente, una certa grossolana unità, che permette di trasporre le più illustri sul piano delle vite ordinarie, di trovare per loro, se si può dire, una specie di denominatore comune. Nulla di più monotono della passione, o che più di lei si ripeta così miseramente. Cesare ci fa comprendere quel tale ambizioso di capoluogo, e quel tale funzionario coloniale ci svela l’anima di Nerone. La passione prende tutto ciò che le cede e non rende nulla. Invece la carità dà tutto, ma le viene reso anche di più. Quale contabilità sovrumana potrebbe tener conto di questo magnifico scambio? Se lo storico si limita a una rigorosa esattezza, poco imparerà dall’esistenza d’un santo. Le vecchie leggende ne dicono assai di più, perché trascrivono in simboli realtà profonde. Esse hanno quel carattere ingenuo che sembra fatto apposta per sviare la nostra logica e la nostra esperienza. Come non l’avrebbero questo carattere? Ogni vita di santo è come una nuova fioritura, l’espansione, in un mondo che l’eredità del peccato rende schiavo dei suoi morti, d’una ingenuità da Paradiso Terrestre.
In questo senso, poco ci importa che Domenico appartenga o no all’illustre famiglia dei Guzman, e sia cosi parente degli antichi re di Spagna. Basti sapere che fu di sangue militare; e immaginare il bambino, con i capelli biondi, quasi fulvi, gli occhi celesti e la pelle bianca dei suoi avi visigoti, Ruodric, Wilhelm o Froila, mentre dalla vetta dell’umile torre feudale di Carleruega, dell’unico torreón rettangolare costruito dal suo antenato, alla frontiera del paese moro, guarda scorrere verso il mare le pallide acque del Douro. All’estremo orizzonte, molto di là dalle pianure grigie, striate dalle rocce rosse del trias, fiorite di eriche color rosa, di ginestre e di salicornie, con cespugli di spigo, d’issopo e di rosmarino, tra i quali pascolano i maialini neri, la sierra di Guadarrama innalza al cielo i suoi contrafforti oscuri, e dietro alla loro massa enorme Toledo, dove i capi castigliani lottano contro i mori. In una ripresa o due, aperta la breccia, i cavallini instancabili sarebbero sull’orlo del fiume, e si vedrebbero di nuovo agitarsi sulle sponde i lunghi mantelli bianchi e i giachi dorati… Non è tanto lontano il tempo in cui nei mercati mori si poteva avere una donna per un dirhem, e un bambino cristiano per un mezzo dirhem! Non una di queste capanne di argilla e di paglia ammucchiate ai piedi del torrione, dove non si narrino le meravigliose storie, solenni e sanguinose, proprie del genio di questa t razza formata nella sventura e nella povertà. Il pastore, coperto dai piedi alla testa di pelli di montone, e che sembra, in mezzo alle sue bestie, un’altra bestia gigante, ne alimenta i suoi sogni, col pugno stretto sul suo vincastro guarnito di ferro. Ma si parla anche a voce bassa dei propri parenti (padre, figlio o fratello) rapiti dai temerari ladri pagani, venduti come bestiame, e che muoiono d’una morte lenta nei supplizi e nei terrori della schiavitù, in fondo alle città misteriose, piene di sconosciute ricchezze e sotto un cielo incantato. A volte le donne, piangendo, si passano tra loro un messaggio portato da lontano da un catalano sospetto, probabilmente rinnegato o giudìo. Dopo aver ricordato disperatamente tutto ciò che non ritroverà mai più, il disgraziato enuncia timidamente il prezzo del suo riscatto: cifre favolose, miraggio straziante! “La prigionia, presso i mori, fu una delle piaghe della Spagna, più angosciosa della fame ”, scrive il padre Petitot. Ora, mentre quei duri contadini, o i loro signori tanto simili a loro, sognavano rappresaglie, eserciti disfatti e teste mozzate, non è permesso supporre che il piccolo Domingo, il quale, fino alla morte, fu un amico cosi tenero, sentisse, davanti a tali narrazioni, tremare il suo cuore per la compassione? Thierry d’Apolda ci riferisce che venti anni dopo il giovane canonico d’Osma decise un giorno di vendersi per riscattare il figlio d’una povera donna… Forse tocchiamo qui la molla segreta d’una infanzia di cui i cronisti poco ci insegnano. Questa immaginazione delicata fu presto crudelmente ferita. Molti altri giovani castigliani subirono nel medesimo tempo la medesima prova, e ne divennero soltanto più duri. Ma lui si apre d’istinto e tutto intero alla divina compassione e, sin d’allora, comincia senza dubbio il poema della sua carità.
La madre di Domenico, la beata Giovanna, era figlia dei signori d’Aza, e di nobiltà antica. Egli fu l’ultimo dei suoi figli, e forse il più teneramente amato, se possiamo credere alla tradizione, secondo la quale la futura gloria di suo figlio le fu annunciata in sogno. Ella lo tenne sette anni presso di sé, poi lo condusse da suo zio, l’arciprete di Gumiel d’Izan (ma Gumiel d’lzan è lontano soltanto quattro leghe da Carleruega). Là egli visse oscuramente e dedito agli studi sino all’età di quindici anni. Allora fu deciso di mandarlo alle scuole di Palencia, che più tardi saranno l’illustre università di Salamanca. Queste scuole erano celebri già in quei tempi; anzi tutta la Spagna, come il resto della cristianità, si sentiva presa nell’irresistibile movimento d’ascensione che fu il prodigioso tredicesimo secolo.
Secondo il venerabile programma carolingio, sei anni vennero consacrati allo studio della grammatica, della poetica, della logica, poi dell’algebra, dell’astronomia e della musica. Compiuto questo primo ciclo, Domenico aveva raggiunto il suo ventunesimo anno; però studierà o professerà la teologia a Palencia sino all’età di trentun anni. Allora, avendolo chiamato presso di sé, il priore del capitolo d’Osma, Diego de Azevedo, egli diventa canonico regolare di quel capitolo di cui sarà nominato sottopriore quando Diego stesso verrà chiamato al seggio episcopale d’Osma. Allora, Domenico avrà trentaquattro anni.
Quanti altri, non meno ben nati, non meno studiosi ed eloquenti, sono morti priori d’Osma! Nondimeno, all’insaputa di tutti e senza dubbio all’insaputa di lui stesso, la grande opera, già concepita, gli fremeva nel cuore. Quel giovane canonico dai capelli biondi, dalle belle mani, dalla voce forte e dolce, che va a leggere sulle sponde dell’Ucero e risponde ai saluti con quella specie di tenera urbanità che i suoi figli hanno tanto amata, è l’Ordine dei Predicatori, non formato in un calcolo, astratto, ma nella piena effusione della vita. Qui tutto è puro, tutto è nuovo, tutto tende all’alto, come l’universale ascensione dell’alba. L’Ordine dei Predicatori, questa grande avidità di scienza, come pure questo grande desiderio di instaurarla in Cristo. L l’Ordine dei Predicatori, quella sacra impazienza che, nella sua piccola cella, ai piedi del crocefisso, fa ruggire Domenico come un leone (a gemitu cordis sui rugitus solebat emittere). E’ l’Ordine dei Predicatori, il grido dell’apostolo il quale, in tempi di carestia, vende ciò che ha di più caro, i suoi libri: “Come potete studiare sopra pelli morte, mentre i vostri fratelli muoiono di fame?” A l’Ordine dei Predicatori infine, la sublime inquietudine dell’oscuro sottopriore il quale, nella piena fioritura della vita monastica, cerca invano una regola alla sua misura e non la trova. Così simile agli altri uomini e, agli occhi di Dio e dei suoi angeli, nuovo, creato espressamente, unico!
E’ povero, è solo, e il suo tempo è misurato: diciassette anni, duecentoquattro mesi! Inoltre, non sembra che abbia alcun piano, ignora sempre la sua strada. Però ha qualcosa di più d’un piano: il distacco fondamentale, la libertà interiore che attira senza dubbio lo Spirito dall’alto dell’aria, come un uccello incantato. E allora di improvviso un primo segno, del resto oscuro, gli viene dato. Il re di Castiglia invia Diego de Azevedo e Domenico in Danimarca perché vi negozino il matrimonio di suo figlio con una principessa di quel paese.
Che alla fine di questo lungo viaggio i due ambasciatori abbiano saputo della morte della piccola principessa, questo senza dubbio importa ben poco. L’avventura, un pochino burlesca, ha un altro senso. Domenico è ancora sottopriore d’Osma, e già i suoi vincoli si sono spezzati. Egli ha attraversato molti paesi, ha veduto la grande angoscia della Chiesa, i monaci appartati nei loro conventi, i vescovi inerti o sospetti, persi nelle cause e nei cavilli, il clero mantenuto in una ignoranza abietta in mezzo a un popolo che il progresso materiale e la facilità crescente della vita affinano ogni giorno, le parrocchie trascurate, abbandonate dai loro pastori legittimi a vicari mercenari, la predicazione ridotta a zero, limitata alla recita domenicale del Credo e del Pater o affidata ad associazioni laiche senza dottrina, a oratori da fiera; il papato impotente, sommerso, tradito, costretto a impegnare le sue ultime truppe, la suprema riserva cistercense… E in questo disordine spaventoso, come lupi attraverso una città saccheggiata, gli apostoli d’una dottrina strana, venuta d’Oriente, e che fanno del diavolo l’uguale e il rivale di Dio…. Vedete il vecchio vescovo, sulla lunga strada monotona, a tante leghe dalla sua povera cattedrale, e che non può credere che il mondo sia tanto cattivo, menire la famosa voce di bronzo ancora sconosciuta grida nella campagna deserta la sua collera e la sua speranza! Ed eccoli d’improvviso, il giovane e il vecchio, sazi di tristezza, che prendono una risoluzione, così bella, così commovente, così simile ai grandi sogni della fanciullezza! Si affrettano, corrono a Roma, si gettano ai piedi del Santo Padre, e sollecitano umilmente il permesso di evangelizzare ì cumani. Che cosa sono i cumani? Sono pagani nomadi della lontana Dacia, di cui hanno sentito parlare in Danimarca, e così crudeli e astuti che faranno presto a ucciderli, loro poveri servitori di Dio…
Innocenzo III, scrive il padre Petitot, era piccolo di statura, portava un berretto a punta, parlava con voce forte e brusca. Rimandò Diego nella sua diocesi.
Ogni uomo predestinato, almeno una volta in vita sua, ha creduto di andare a fondo, di toccare il fondo. L’illusione che tutto viene a mancarci in una volta, questo sentimento di completo abbandono, è il segno divino che al contrario tutto comincia. E’ verosimile che il vecchio vescovo, il quale, del resto, morrà poco dopo, e il suo giovane compagno abbiano conosciuto sulla strada del ritorno qualche cosa di questa amarezza. Seguirono la valle della Loira, poi quella del Rodano, attraversarono Lione, Avignone, Nimes. Da per tutto si respira aria di tradimento. Signori grandi e piccoli, avidi di mettere le mani sui beni della Chiesa, vescovi infami, monaci assediati nelle loro fortezze, popolino oggi già beffardo, domani feroce, sguardi sornioni, mani nascoste, piazze di paese rumorose come alveari, improvvisamente mute quando passano… La piccola carovana camminava lentamente attraverso la burrasca prossima a scoppiare. Come dovevano ridere le ragazze al loro passaggio! Durante le ore del giorno (perché la notte era soltanto un grande rumore confuso) incrociavano a volte la scorta d’un ricco abate, furtiva, armata sino ai denti, come in paese nemico. E quando la polvere si era posata di nuovo, si vedeva spesso uno di quei càtari perfetti, a piedi nudi, a testa nuda, la capigliatura ancora molle dell’ultimo acquazzone, sordido e severo nel suo saio, e le madri in ginocchio che gli presentavano i loro pargoli… Giunsero così vicino a Montpellier, a Castelnau.
Trovarono al castello una grande calca di uomini, di muli, di cavalli: erano i due cortei del potente abate di Citeaux, Arnald Amalric, e dei due legati del papa, Cháteauneuf e Raoul de Fontfroide, che li accolsero con onore. Sùbito il giorno successivo ebbe luogo una conferenza. I legati deplorarono amaramente il libertinaggio e la simonia dei preti, l’ambizione dei prelati, i loro intrighi coi signori, indegnità del vescovo di Narbona, l’insolente parzialità del conte di Tolosa e della sua nobiltà a favore dei rinnegati e dei ribelli. Con Amalric giudicarono che la ribellione sarebbe ben presto diventata generale, e che bisognava soffocarla nel sangue… poi domandarono onestamente il parere dei due forestieri. A quell’appello, come i due amici dovettero sentirsi saltare il cuore nel petto! Dichiararono insieme che bisognava congedare sull’istante scudieri, cavalli e muli, spogliarsi dei ricchi abiti, e andarsene a piedi per le strade, alla mercè di Dio, mendicando il pane giorno per giorno.
E fu in tale equipaggio che Diego de Azevedo, Domenico, i monaci cistercensi e i legati risolsero di prendere la strada di Béziers. Il medioevo ha dato lo scandalo di moltissimi vizi, ma non è mai stato volgare.
Ciò che bisogna ammirare in una proposta così audace, non è soltanto la generosità, ma la sua perfetta correttezza. Quando il mondo sfugge alla tirannia delle idee mediocri, cade preda delle idee audaci che diventano folli; infatti nulla è più raro del vero spirito pratico, nel quale san Tommaso vede, giustamente, un prolungamento dello spirito speculativo. Ma il pensiero di Domenico a questo punto si congiunge, senza saperlo, con quello dei grandi papi che, nella prima metà di questo secolo, getteranno nella mischia i predicatori e i mendicanti. I conventi erano rimasti quel che già erano nel colmo dell’anarchia feudale, asili e fortezze. Possono già esser paragonati a quei soldati armati cosi pesantemente che la leggera fanteria inglese distruggerà da lontano senza mai lasciarsi attaccare. Perché una tale rivoluzione fosse compiuta, vale a dire sanzionata da Roma, bisognava prima che san Francesco e san Domenico si sacrificassero, per dimostrare che era possibile. Infatti tale è la parte che Dio riserva ai suoi santi.
Forse è lecito immaginare che sin da allora Domenico seguisse un suo piano. Ma come deve essere lontana la verità da questa pigra ipotesi! Se la santità svolge una storia, dovrà essere piuttosto come un succedersi senza ripetizione di momenti, ognuno dei quali è unico. L’opera non è matura, ma la carità è pronta, l’essere vivificato dallo Spirito ha già attinto al punto più alto della sua eccellenza. Nulla lo arresterà, e l’ostacolo, crollato in anticipo, non è più se non una guida o un punto di riferimento. La volontà del grande uomo ha sempre in sé una certa rigidezza. Come è libera, docile e pura, invece, quella del santo! Che cosa volete opporre di saldo, o quale trappola volete tendere colui il quale, a ogni istante, è sempre pronto dare tutto?
In verità egli dà tutto. Il suo primo impulso è di gettarsi avanti. Questi magnifici eroi della speranza combattono sempre da disperati. La fortezza del signor Etienne, a Lervian, è un covo di rinnegati càtari, il più celebre dei quali è Thierry, antico decano del capitolo della cattedrale di Nevers. La piccola compagnia vi corre. Non bisogna credere che questi neo-manichei fossero gente stupida: l’erudizione biblica di alcuni di loro era inaudita, e ne sapevano trarre un vantaggio prodigioso alleando destramente la loro causa, da una parte, al movimento democratico, più potente in quell’epoca che in qualsiasi altro momento della nostra storia.
Lo schiudersi d’una eresia è del resto sempre un fenomeno assai misterioso. Quando nella Chiesa un vizio giunge a una certa maturazione, l’eresia germoglia da sé, getta sùbito i suoi mostruosi rami. Ha la sua radice nel corpo Mistico, è una deviazione, una perversione della sua vita stessa. L’eresia càtara è germogliata sull’ignoranza e sulla pigrizia del clero, come la valdese sulla sua avarizia e sulla sua lussuria. “ I vescovi ”, dirà solennemente il concilio del Laterano, “per via delle loro infermità, per non parlare della mancanza di scienza, la quale è assolutamente biasimevole e intollerabile, non sono più capaci di predicare la parola di Dio”. Se la carità di Domenico non ne avesse avuto il presentimento, l’esperienza glielo avrebbe insegnato durante il corso delle dure controversie che dovrà sostenere durante lunghi mesi a Lervian, a Béziers, a Carcassonne, a Tolosa, a Montréal.
Le leggi della dialettica sono anche quelle dell’azione. Il vero dialettico sdegna gli errori parassiti e si porta di slancio al centro stesso del ragionamento nemico. In modo simile noi ve diamo Domenico, come un capo in guerra, cercare di venire a contatto con l’avversario non per saggiarlo, ma per batterlo. Certo, egli poteva trovare fra i càtari ipocriti da smascherare, ambiziosi da umiliare, ignoranti da confondere. Io lo vedo sprezzante di questi facili trionfi; e senza dubbio non ci pensa nemmeno. Ma siccome i migliori fra i “ perfetti ” si trovano a Fanjeaux, in mezzo a un popolo fanatico, egli corre a chiudersi là, con gran pericolo della vita. E appena ha riportato a Dio nove dame della piccola nobiltà, egli fonda con loro la casa di Prouille: la sua prima e umile conquista.
Quasi sùbito il papa Innocenzo III chiamò il re di Francia, il duca di Borgogna, il conte di Sciampagna al soccorso della cristianità. Diciotto mesi dopo, Béziers cadde, poi Carcassonne. Per altri sei anni, la marea passa e ripassa sopra la misera terra. Quando si ritira, Prouille sta sempre in piedi, e Domenico, d’accordo col vescovo Foulques, s’è saldamente stabilito a Tolosa. Nondimeno, dopo dieci anni di predicazioni incessanti, il santo conta appena sei compagni. Più d’uno si sarebbe scoraggiato, o almeno avrebbe mostrato un po’ di fretta per riprendere il tempo perduto: lui manda tranquillamente la sua piccola compagnia dal maestro Stavensby, il quale professa, a Tolosa stessa, l’apologetica e la teologia. Un tale sangue freddo fa riflettere.
L’istituto dei “ missionari apostolici di Tolosa ” data dall’anno 1215. Domenico ha raggiunto l’età di quarantacinque anni, e morrà sei anni più tardi.
Il destino dei grandi uomini è sottomesso alla legge comune: sembra che la loro fortuna abbia una sua giovinezza, una sua età matura, un suo declino. A Marengo, tutto va bene; a Waterloo, tutto va a rovescio. Ma la vita d’un santo ha un altro ritmo. Gli inizi sono lenti, spesso fastidiosi; le contraddizioni vengono dall’esterno, e sembra spesso che vengano dall’interno. Poi, quando l’opera ha trovato il suo misterioso equilibrio, viene come strappata da terra e prende il volo.
Tutti gli storici di san Domenico consacrano allo studio dei suoi ultimi dieci anni più della metà delle loro pagine. Questo indugio forzato rischia di lasciare il lettore insensibile a uno slancio cosi prodigioso. La carta con la quale Innocenzo III prende sotto la sua immediata protezione il monastero di Prouille è dell’8 ottobre 1215. Domenico e Foulques si trovano allora a Roma. Nel gennaio 1215 ritroviamo il santo a Narbona, poi a Prouille. Una comunità di religiose è installata a Tolosa. Il progetto della prima regola è appena stabilito, che già spunta la innovazione più audace: la soppressione del lavoro manuale, che ha come corollario la rinuncia ai possessi territoriali. Il 28 agosto del medesimo anno, il maestro dei Predicatori prende possesso del priorato di San Romano, primo convento regolare dell’ordine. In dicembre, egli è di nuovo a Roma, dove ottiene dal successore d’Innocenzo, Onorio III, una approvazione solenne. Nella primavera del 1217 si trova di nuovo a Languedoc, e nonostante tutti i consigli, con una audacia inaudita, mentre la rivolta brontola nell’intera provincia. Egli sparpaglia i suoi frati, sette a Parigi, quattro a Madrid, e lui stesso torna a Roma con un solo compagno, per fondarvi quasi sùbito il convento di San Sisto. Ha già radunato una trentina di frati, ma, fedele alla sua stupefacente massima che “ il grano marcisce quando lo si accumula e fruttifica quando lo si semina ”, lancia una parte della sua truppa a Bologna, la cui università è rivale di quella di Parigi. Poi corre in Francia, dove viene a sapere la disastrosa morte di Simone di Montfort e la rovina della crociata. Le fondazioni di Prouille e di Tolosa sono in pericolo: bella occasione per prelevare, sugli effettivi ridotti, due frati, e siccome Lione è la capitale dell’eresia valdese, mandarli colà. Del resto non ha tempo per seguirli, poiché lui è già in Spagna, dove fonda, a Segovia, il convento di Santa Cruz; ripassa i Pirenei, si ferma a Prouille appena quanto basta per dare a ciascuna delle sue care figliole una bella posata 1 di ebano che ha gentilmente portata per loro nel suo zaino, e se ne va di volo a Parigi, prendendo con sé al passaggio frate Bertrand de Garrigue. Laggiù trova trentadue religiosi. Bastano per fondare, l’una dopo l’altra, le case di Reims, di Metz, di Orléans, di Poitiers, di Limoges; e parte cinque settimane dopo per l’Italia, dove arriva sempre a piedi, s’intende. Del resto ha molta fretta di finire, e si accusa ancora di essere troppo lento. Infatti s’è lasciato crescere la barba e si prepara a raggiungere finalmente, dopo tanto ritardo, quel leggendario paese dei cumani, senza dubbio in espiazione della sua pigrizia e per la remissione dei suoi peccati.
Nel settembre del 1219 si trova a Bologna, dove la predicazione del suo figliolo Reginaldo, dice la cronaca, è scoppiata come la folgore. La comunità di San Nicola è in piena prosperità: vi si attendono prodigi dal discepolo preferito del maestro. Ragione sufficiente per mandarlo a Parigi. “ E’ una cosa ben ammirevole ”, scrive il beato Giordano di Sassonia, “ vedere il servo di Dio sparpagliare i suoi frati con tanta sicurezza! ” L’apostolo incendiario ha contro di sé, un po’ da per tutto, i decani, i cancellieri, gli arcidiaconi, i vescovi, ma ha dalla sua parte il papa. Intraprende la riforma delle monache romane, fonda la comunità di San Siro con l’aiuto di qualcuna delle sue figliole di Prouille, chiamate in fretta. Le lettere e le bolle pontificie si succedono senza interruzione, spezzando tutte le resistenze a Parigi, a Prouille, a Tolosa, a Madrid, a Roma stessa. Nel febbraio del 1220, il vescovo di Cracovia porta a Roma quattro dei suoi preti. Domenico ne fa quattro predicatori e, due mesi dopo, li lancia all’assalto della Polonia. Si spingono molto lontano verso Oriente, dalla parte dei Carpazi, quasi sino alla frontiera del paese cumano. Ah, il beato padre conta di raggiungerli ben presto! Ma avanti vuol tener il primo capitolo generale dell’Ordine… Oramai gli restano undici mesi da vivere.
Con lo sguardo dell’anima, egli può contare i suoi sparsi conventi, già forti, rivali, senza dubbio domani, delle abbazie più antiche e più ricche. Tutti questi priori, qualcuno di schiatta illustre, istruiti nelle prime università del mondo, oratori celebri, teologi cosi sicuri che, per forza di cose e seguendo l’esempio del fondatore, si vedono da per tutto non soltanto predicare contro l’eresia, ma cercarne i promotori, convincerli e consegnarli al braccio secolare (tanto che i figli pieni di dolcezza dei sans-culottes terroristi riuniranno nello stesso onorevole odio i Predicatori e l’Inquisizione), ricevono a centinaia pii legati e donazioni. Dove non giungerà oramai la potenza del nuovo ordine?… E’ questo il momento scelto da Domenico per decidere di abbandonare i beni già acquisiti, domìni o decime, e far concludere dal suo primo capitolo generale una seconda e più solenne alleanza, questa volta indissolubile, con la Santissima Povertà. Egli strappa solennemente e simbolicamente le Chartes davanti ai padri capitolari riuniti. E siccome quella povera gente venuta da molto lontano, a prezzo di fatiche e stenti, potrebbe essere tentata di cedere a qualche debolezza lungo la strada del ritorno, egli decide di inserire nella regola il divieto di andare a cavallo e di portar danaro. Poi fa vendere all’asta cavalli e muli.
Lascia Roma nel maggio del 1221, se ne va per sempre. Due volte la febbre lo ha atterrato di sorpresa senza ancora riuscire a strappargli il suo ultimo segreto, la umile morte che Dio prepara in lui, e che già brilla con dolcezza nel suo cuore, come la fedele piccola lampada del santuario prima dell’aprirsi del mattino. Dopo un supremo colloquio a Venezia con il cardinale Ugolino, suo amico, egli ritorna al convento di Bologna, con l’ultimo volo delle sue grandi ali infaticabili. Vi giunge morente.
Le nostre agonie portano il segno del rimorso: testimoniano contro il passato, ne spezzano i vincoli, e, anticipando il giudizio ineffabile, denunciano in pieno la nostra onta. Ah! che il lenzuolo ricopra dopo un istante il corpo umiliato, vuoto, dove risplende, sola, l’Unzione! Ma la vita augusta del santo si lancia nell’agonia come in un abisso di luce e di soavità.
Stendono un grosso sacco per terra, ed egli vi si corica sopra.
Ecco l’uomo di cui certi forsennati vorranno fare un boia, e i meno fanatici una specie di ministro della polizia delle anime. Se egli li vede a quest’ora, con quello sguardo che già si tuffa nell’avvenire, il frate nero e bianco può bene alzare su di loro la sua grande mano dolce e dissolverli come una vampata di fumo! Lui, davanti al quale tutto si fa chiaro. non capisce nulla del loro odio, perché giustamente il loro odio non è nulla. Essi invocano contro di lui la scienza, ed egli l’ha amata più caramente di ciascuno di loro. La luce, ed egli sente che trabocca da lui. Il suo unico scrupolo, se ci fosse posto per uno scrupolo in un’anima cosi limpida, sarebbe piuttosto di aver troppo amato, troppo servito il primo rinascimento intellettuale, sino a sembrare di voler sacrificare allo studio quello stesso ufficio in coro che i suoi frati reciteranno oramai con una rapidità gioiosa, così diversa dalla tradizione benedettina. Il secolo si spaventava per una fonte di luce perduta, ritrovata a un tratto sotto le rovine del mondo antico, e, d’accordo con due ammirevoli pontefici, egli ha risollevato il suo secolo, l’ha mantenuto fremente nel fascio di luce che suo figlio Tommaso volgerà risolutamente verso la croce.
Intorno al moribondo, che finisce di vuotarsi del suo sangue mistico, di tutta la sua divina carità, in una effusione di lacrime austere, l’ordine ronza come un alveare con le sue centinaia di frati che domani saranno migliaia, le sue cinque province di Francia, Spagna, Lombardia, Roma, Provenza, e i suoi cinquanta conventi. La cristianità occidentale è salva, non soltanto dagli oscuri fanatici, il cui barbaro zelo condannava, col matrimonio, la vita stessa, ma dall’Islam, dallo scisma greco e dai furori di Federico II. Si, così com’è, questo uomo qui sdraiato è uno dei più grandi della storia, ed entra nondimeno nella morte, come ha traversato la vita, con lo stesso slancio, senza esitazioni, con lo sguardo di fanciullo. A larghi passi regolari, con la povera bisaccia sulle spalle, le tasche vuote, egli ha percorso diversi reami, e ora che è coricato per terra, ha lasciato la sua bisaccia, ma ha conservato le sue grosse scarpe. E’ pronto, se Dio lo suscita di nuovo. Non lascia nulla dietro a sé. I suoi figli bruceranno o dissemineranno le sue lettere; i libri annotati di suo pugno, il suo bastone da viaggio, i suoi abiti, la catena di ferro con cui su flagellava ogni notte con quel potente urlo la cui eco si ripercuoteva sino all’ultima cella dei frati che ascoltavano, atterriti. Dopo si avvolgeva tutto sanguinante nella sua cappa, e si stendeva sopra una panca o sopra un tavolo…
Questa volta si è disteso per sempre. Né il ricordo dei suoi ímmensi lavori, o delle mortificazioni durissime, delle predicazioni o dei miracoli, distoglie un solo istante il suo cuore. Egli teme soltanto che i suoi figliuoli si lascino, dopo la sua morte, trascinare verso una vita troppo comoda, e quando sa che i suoi frati ingrandiscono il convento e alzano il soffitto delle celle, lo vedono prima rompere in lacrime, poi scoppiare in imprecazioni terribili, invocando la maledizione di Dio sopra chiunque introdurrà l’uso della proprietà temporale nel suo ordine.
L’hanno trasportato sopra una collina dove l’aria è pura; ma egli teme che conservino lì il suo corpo. “ Dio non voglia ch’io venga sepolto altrove se non sotto i vostri piedi! ” Lo riportano sopra una lettiga fino al convento di San Nicola. Lo stendono per terra tutto sudato. Stefano di Spagna li segue con uno straccio di tela.
Ventura di Cremona ascolta la sua confessione generale. Quel debole soffio che il frate si sente passare sulla faccia è ormai tutto quanto resta della grande voce che sollevava tutta Roma, ed è anche la medesima voce che, nel ritiro della notte, chiamava Dio tante volte con un grido straziante, che ruggiva per gli infedeli, gli eretici, gli ebrei, e nell’ammirevole delirio d’una carità universale, che andava sino a voler far violenza alla stessa giustizia del Padre, pregava per i dannati (ad in infernos damnatos extendebat caritatem suam).
I fratelli sono adunati per raccogliere, se è possibile, qualche cosa della parola che si sta spegnendo. Domenico fa segno con la mano, essi si avvicinano. Dall’umile gesto del santo, capiscono che ha qualche riconoscimento pubblico da fare, e che pesa gravemente sul suo cuore. Colui che è parso al papa Innocenzo III in sogno portando la chiesa del Laterano sulle spalle, consigliere dei pontefici, consigliere dei principi, arbitro di tanti destini, maestro e legislatore di tante coscienze, scopre forse con sgomento, in quell’istante solenne, il carattere astratto, quasi terribile, della sua vocazione dottrinale? Quale scrupolo lo tormenta?
Egli alza sopra i fratelli i suoi occhi celesti, il suo sguardo intatto. “ Mi accuso ”, dice il maestro dei Predicatori, “ di aver sempre preferito, a quella delle vecchie, la conversazione delle donne giovani. ”
L’ordine di mio figlio Domenico è un delizioso giardino, immenso, gioioso e profumato ”, disse un giorno Nostro Signore a santa Caterina, che lo riferisce.

GEORGE BERNANOS

Madonna della Lettera – (Maria e San Paolo, una tradizione)

http://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_della_Lettera

Madonna della Lettera

(Maria e San Paolo, una tradizione)

« Vos et ipsam Civitatem benedicimus »
(IT)
« Benediciamo voi e la vostra Città »

Dalla Lettera di Maria ai messinesi)

« Madonna della Lettera » è uno degli appellativi utilizzati dalla religione cattolica nella venerazione di Maria, madre di Gesù. La Madonna della Lettera è venerata dalla Chiesa cattolica come santa patrona di Messina, di Palmi (RC) e di Finale di Pollina (PA).
La tradizione, avvalendosi di una affermazione dello storico Flavio Lucio Destro (II secolo d.C.), (“Apud Messanenses celebris est memoria B. Virginis Mariae, missa ipsis ab aedem dulci epistola” – “Celebre è presso i messinesi la memoria della dolce epistola scritta dalla Beata Vergine Maria”)[1] narra che san Paolo, giunto a Messina per predicare il Vangelo, trovò la popolazione ben disposta a lasciarsi convertire. Ben presto molti cittadini aderirono all’invito convertendosi al Cristianesimo, e nel 42, quando Paolo si accingeva a tornare in Palestina, alcuni messinesi chiesero di accompagnarlo per poter conoscere la Madonna di persona. Così una delegazione di messinesi si recò in Palestina con una missiva, nella quale i molti concittadini convertiti alla fede di Cristo professavano la loro fede e chiedevano la protezione di Maria.
Maria li accolse e, in risposta alla missiva, inviò indietro una sua Lettera, scritta in ebraico, arrotolata e legata con una ciocca dei suoi capelli. La delegazione tornò a Messina l’8 settembre del 42 recando l’importante missiva: in essa Maria lodava la loro fede, diceva di gradire la loro devozione ed assicurava loro la sua perpetua protezione.
Così termina la Lettera: « Vos et Ipsam civitatem benedicimus », ovvero « Benedico voi e la vostra città ». Il testo oggi è scritto a caratteri cubitali alla base della stele della Madonnina sul braccio estremo del porto falcato di Messina.[2] Da allora la città di Messina la celebra il 3 giugno con una affollata processione del fercolo argenteo della Madonna e il 15 agosto di ogni anno con la processione della colossale Vara, trascinata da centinaia di fedeli vestiti di bianco, che vede la partecipazione di diverse centinaia di migliaia di fedeli e curiosi da tutta Europa.[senza fonte]

Il testo della lettera
Maria Vergine figlia di Gioacchino,
umilissima serva di Dio,
Madre di Gesù crocifisso,
della tribù di Giuda,
della stirpe di Davide,
salute a tutti i Messinesi
e benedizione di Dio Padre Onnipotente.
Ci consta per pubblico strumento che voi tutti con fede grande
avete a noi spedito Legati e Ambasciatori,
confessando che il Nostro Figlio,
generato da Dio sia Dio e uomo
e che dopo la sua resurrezione salì al cielo:
avendo voi conosciuta la via della verità
per mezzo della predicazione di Paolo apostolo eletto
per la qual cosa BENEDICIAMO VOI E LA VOSTRA CITTA’
della quale noi vogliamo essere perpetua protettrice.
Da Gerusalemme 3 giugno anno 42 di Nostro Figlio. Indizione 1 luna XXVII

Il culto della Madonna della Lettera a Finale di Pollina
Il culto della Madonna della Lettera arrivò a Finale di Pollina tramite il casato dei Ventimiglia, marchesi di Geraci, proprietari feudali delle Madonie, comprendente anche il feudo di Finale. La borgata, residenza estiva della nobile famiglia, comprendeva una torre spagnola a picco sul mare, appositamente scelta dai marchesi come abitazione di sicurezza, mentre i cortigiani al seguito alloggiavano in una maestosa villa con ampia foresteria e grandi depositi di derrate alimentari. Antedecente al culto della Madonna della Lettera, i Ventimiglia veneravano il mistero dell’Ascensione. La ricorrenza era molto sentita nella piccolissima comunità che contava allora poco più di 50 abitanti.
La parentela collaterale con la famiglia Moncada di Messina, portò a Finale un originale riproduzione di un quadro dell’1800, di gusto bizantino, raffigurante una Madonna con in braccio il bambino Gesù, reggente il mondo. Nella corona della Madonna era inciso « Regina Coeli Laetare Alleluya ».
La solenne celebrazione veniva celebrata nella cappella di famiglia dei marchesi, tuttora esistente, in posizione antistante la torre bizantina. Essa era parte integrante della villa, alloggio di corte.

Perugino, The Transfiguration of Our Lord

Perugino,  The Transfiguration of Our Lord dans immagini sacre Perugino_Transfiguration1518

http://christchurchwindsor.ca/2009/08/06/the-transfiguration-of-our-lord/
Publié dans:immagini sacre |on 6 août, 2012 |Pas de commentaires »
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