Archive pour août, 2012

A mosaic of St. Clare, a disciple of St. Francis of Assisi, at a Catholic mausoleum in Cheektowaga, New York.

A mosaic of St. Clare, a disciple of St. Francis of Assisi, at a Catholic mausoleum in Cheektowaga, New York. dans immagini sacre stclaremosaiccheektowagany588

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Publié dans:immagini sacre |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

Omelia per la XIX domenica del T.O. – 12 agosto 2012: Dio si fa pane per la vita del mondo

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Omelia per la XIX domenica del T.O. – 12 agosto 2012

padre Ermes Ronchi

Dio si fa pane per la vita del mondo

La storia di Elia ci aiuta a interpretare il Vange­lo di oggi. Dio stesso si fa pane e vicinanza, angelo e carezza perché noi, profe­ti troppe volte stanchi, non ci arrendiamo al deserto che ci assedia.
Io sono il pane disceso dal cielo. Io sono il Pane della vi­ta. La mia carne è per la vita del mondo. Tre affermazio­ni che riassumono il brano. Io sono pane: pane indica tutto ciò che ci mantiene in vita, Cristo fa vivere. Fa vive­re con la Parola, con le per­sone, con il giorno che ci do­na, con pane e acqua, un?in­tima luce e angeli che non ci aspettavamo, con se stesso. Pane disceso: il movimento decisivo della storia è di­scendente, è Lui che si in­carna e vuole la comunione con me; è Lui che attraversa deserti e crea sorprese di pa­ne e di carezze, è Lui che invita. È disceso dal cielo per­ché la terra non basta, per­ché a nessun figlio prodigo basteranno mai le ghiande contese ai porci. Ogni figlio ha nostalgia del pane di ca­sa: la nostra casa è il cielo, il nostro pane è Dio.
La mia carne è per la vita del mondo. Tre sole lettere «per» ed è il senso della storia di Gesù, dichiarazione d?amo­re da parte di Dio: per te, mondo, per tutte le tue vite, vale la pena vivere e morire; tu prima di me; la tua vita prima della mia. Neanche Dio vive per se stesso; vive, regna e ama «per noi e per il mondo», seme di fuoco in o­gni cosa, per sempre.
La nervatura di tutto il bra­no è il verbo mangiare. Men­tre le religioni orientali si concentrano sul respiro, il cristianesimo ha come gesto centrale il mangiare: entra in me Pane buono, che rag­giunge e alimenta anche la cellula più lontana. Dio vicino a me, Dio in me, Dio sot­to la mia pelle, che si insedia al centro della mia povertà come un re sul trono. Dio in ogni vena, Dio che mi abita: medicina, guarigione, pro­tezione, salvezza dell?anima e del corpo. Questa è la vita eterna, promessa per circa cento volte nei vangeli. Cer­tezza di una realtà senza prove. Tralcio e vite, una co­sa sola. «Siate imitatori di Dio». O­biettivo impossibile, se l?Amato non diventa la vita di chi lo ama, se non dà forma Lui al nostro sentire, pensa­re, parlare, dare. Siate imita­tori di Dio, fatevi voi stessi pane e angelo, acqua e vici­nanza. Cercate Qualcuno che doni il coraggio di non vivere per se stessi, di diven­tare dono e pane, di diven­tare tutti, gli uni per gli altri, carezza e angelo, compagnia nel deserto, compagnia ol­tre il deserto, su fino al mon­te di Dio.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

Omelia prima lettura – 12 agosto 2012 : Alzati, mangia!

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Omelia prima lettura – 12 agosto 2012

don Marco Pratesi

Alzati, mangia!

La lettura traccia un itinerario: Elia passa dalla fuga, che diviene presto un vagare senza meta, al cammino verso il monte di Dio. Vediamo meglio. Elia fugge davanti a Gezabele: la regina lo ha minacciato di morte a motivo dell’uccisione dei quattrocento profeti di Baal, ed egli teme (cf. 19,1-3). Ma il motivo della fuga non è soltanto la paura della morte, che pure c’è. Più tardi, al culmine del suo sconforto, Elia dirà: « io non sono da più dei miei padri » (19,4). Che cosa vuol dire? Egli sente di aver fallito come i suoi padri. Pensava di poter riuscire, ma si sbagliava. Riuscire in cosa? Nel vincere l’idolatria, della quale Gezabele è in quel momento la grande sostenitrice. In effetti Elia aveva appena riportato due grandi successi, ossia predetto la fine della siccità e prevalso sui profeti di Baal. Il re era ben disposto verso di lui, mancava soltanto che la regina lo seguisse. La sovrumana corsa del profeta sino al palazzo del re (cf. 18,46) rappresenta probabilmente il culmine di questa esaltazione. In effetti ci si poteva ben aspettare che ciò avvenisse, e invece no: la regina rimane accanita avversaria. Alla paura si aggiunge il senso di fallimento: credevo di essere riuscito, invece ho mancato l’obiettivo.
Si ha a questo punto l’impressione di un progressivo precipitare del profeta nel baratro. Fugge al sud, congeda il servo e rimane solo (cf. 19,3), entra nel deserto. Quando si entra in crisi si ha l’impulso a isolarsi; e alla paura della morte – che qui si manifesta come fallimento e pericolo – si risponde andando a cercare la morte, come se essa potesse essere medicina a se stessa e autodissolversi. Elia invoca la morte. Il suo sonno è già morte: per quanto lo riguarda egli non vuole più vedere la vita né il mondo.
Ma Dio interviene. Una prima volta Elia mangia e beve, poi si rimette a dormire. Già questo sonno non è più solo morte, ma riposo. Ancora deve alzarsi e mangiare. Questa volta gli è data l’indicazione decisiva: c’è molto cammino da fare. La meta non è nemmeno detta – Elia ha bisogno di poco per comprendere – è l’Oreb, il monte di Dio, il luogo dell’alleanza. Deve rivivere personalmente il cammino dell’esodo, come è suggerito chiaramente dal numero quaranta (19,8). Dio si prende cura di lui. Non gli dice quasi niente, gli dà acqua e pane, cibo quanto mai essenziale. Il fatto che per due volte il profeta debba mangiare dice la necessità di un processo di rafforzamento: egli non riprende forza istantaneamente, solo la seconda volta si rimette in cammino. Oramai Dio ha fatto del suo vagare in cerca di morte un camminare verso la vita.
E’ la nostra esperienza. Si parte sempre da una lotta con la morte, nelle sue varie forme, lotta che alla fine risulta perdente e ci costringe alla fuga. I comportamenti nei quali si traduce la nostra risposta alla morte sono molteplici, ma la radice è una. Credevamo di riuscire, laddove avevamo visto tanti altri – forse anche proprio i nostri genitori – fallire. Alla fine realizziamo che essa avrà ragione anche di noi. Adesso siamo disorientati, i punti di riferimento sono saltati. Adesso la fuga diventa vagabondaggio e ricerca, più o meno esplicita, di morte. Ma no, essa non più risolvere nulla. Invocata, può soltanto rafforzarsi e rendere definitivo il suo dominio. Il Signore però trova il modo di arrivare sino a noi e darci del pane, dell’acqua, di riportarci all’essenziale, a ciò che solo è in grado di nutrire. Che cosa? Lui stesso, la sua presenza, la cura che mostra per noi se solo, come Elia, sappiamo « guardare e vedere » (19,6) vicino alla nostra testa reclinata la focaccia e l’orcio d’acqua che il Signore, durante il nostro sonno di morte, silenziosamente ha deposto.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano – EDB nel libro Stabile come il cielo.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

11 agosto: Santa Chiara d’Assisi – La Benedizione

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11 agosto: Santa Chiara d’Assisi

La Benedizione

Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. Il Signore vi benedica e vi custodisca. Vi mostri la sua faccia e abbia misericordia di voi.. Volga verso di voi il suo volto e vi dia pace, sorelle e figlie mie, e a tutte le altre che verranno e rimarranno nella vostra comunità, e alle altre ancora, tanto presenti che venture, che persevereranno fino alla fine negli altri monasteri delle povere dame.
Io Chiara, ancella di Cristo, pianticella del beatissimo padre nostro san Francesco, sorella e madre vostra e delle altre sorelle povere, benché indegna, prego il Signore nostro Gesù Cristo, per la sua misericordia e per l’intercessione della santissima sua genitrice, santa Maria, e del beato Michele arcangelo e di tutti i santi angeli di Dio, del beato Francesco padre nostro e di tutti i santi e le sante, che lo stesso Padre celeste vi dia e vi confermi questa santissima benedizione sua in cielo e in terra: in terra, moltiplicandovi nella grazia e nelle sue virtù fra i servi e le ancelle sue nella Chiesa sua militante; e in cielo, esaltandovi e glorificandovi nella Chiesa trionfante fra i santi e le sante sue.
Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso, con tutte le benedizioni, con le quali il Padre delle misericordie ha benedetto e benedirà i suoi figli e le sue figlie in cielo e sulla terra, e con le quali il padre e la madre spirituale ha benedetto e benedirà i figli suoi e le figlie spirituali. Amen.
Siate sempre amanti delle anime vostre e di tutte le vostre sorelle, e siate sempre sollecite nell’osservare quelle cose che avete promesso al Signore.
Il Signore sia sempre con voi e voglia il Cielo che voi siate sempre con lui. Amen.

Introduzione storica
La « Legenda sanctae Clarae » ci dice che Chiara, sul punto di morire, benedisse le sorelle, presenti e future. Ci si è chiesti se questa benedizione fu messa per iscritto e se Chiara usò un testo, che aveva composto personalmente. La risposta non è semplice. Attraverso i documenti, che ci sono pervenuti, possediamo tre formule di benedizione di Chiara, sostanzialmente uguali (cambiano il nome della destinataria e la conclusione): una indirizzata ad Agnese di Praga, un’altra a Ermentrude di Bruges e una terza a tutte le sorelle. Sono in tedesco medievale, in olandese medievale, in francese medievale, in italiano medievale e in latino.
Tutti i manoscritti, che riportano il Testamento, contengono anche la Benedizione e questo conferma l’uso antichissimo, nei monasteri di sorelle povere, di leggere ogni venerdì sera il Testamento, concludendolo con la Benedizione. Vi è molta somiglianza nello stile tra il Testamento e la Benedizione: il periodare semplice, l’uso degli stessi vocaboli, vicinanza nel contenuto. Questo conferma l’identità di autore tra i due testi, la loro autenticità e spiega il motivo per il quale sono stati sempre trasmessi insieme e letti l’uno dopo l’altro. L’epoca di composizione deve essere quella del Testamento o un tempo immediatamente successivo: siamo, quindi, alla fine della vita di Chiara.
Il fatto che ci siano diverse edizioni della Benedizione, rivolte a singole Sorelle povere, non si oppone a questa ipotesi: la Benedizione ad Agnese di Praga deve essere stata inviata insieme alla Lettera quarta, che appartiene agli ultimi mesi della vita di Chiara. Per la Benedizione a Ermentrude il problema è più complesso, ma forse si può ipotizzare lo stesso comportamento. La benedizione era quasi un dovere per un francescano, un modo di rivolgersi e di rispondere al fratello, che si stima. Questo movimento benedizionale si accelera nei momenti definitivi della morte, ora di verità e momento per dimostrare la profondità dei vincoli fraterni. Non è solo rito d’uso: è il linguaggio del cuore e della fede, che prende corpo in un ultimo desiderio.
La Benedizione è uno scritto minore di Chiara, perché non ha l’intento teologico e spirituale degli altri scritti, e si apre con la benedizione di Aronne (Nm 6,24-26), che Francesco aveva copiato, di suo pugno, letteralmente per frate Leone e con la quale benedì frate Bernardo (Legper 107: FF 1664).
Questo testo rappresenta, ancora una volta, un primato storico: è la prima benedizione liturgica scritta da una donna, di cui sia stata conservata memoria scritta nella storia della Chiesa.
E questa sensibilità emerge là dove Chiara traduce al femminile tutte le espressioni della benedizione liturgica, dicendo per esempio: Vi benedico….con tutte le benedizioni….con le quali un padre e una madre spirituale ha benedetto o benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali.
Contenuto

Per una vita feconda
Rompendo e passando oltre la crosta del genere letterario medievale della benedizione, scopriamo un’interessante intelaia-tura spirituale:
* Da un lato, la benedizione la dà il Padre, perché solo Lui può rendere feconda l’efficacia di ogni gesto di fraternità e di fede. Ma la dà anche Chiara e forse lo stesso Francesco, ai quali pare alludere con l’espressione padre e madre spirituali, che benediranno i loro figli e le loro figlie spirituali. Tutti in indissolubile unità. La benedizione svela così che nel cammino evangelico della clarissa si frammischiano il Padre, Chiara, Francesco e tutti quelli che sono entrati a far parte della famiglia francescana. Intelaiatura di vita e di fede.
* Inoltre, il frutto della benedizione è descritto come una fecondità nella storia (la benedizione è sempre legata alla fecondità) e una esaltazione nel cielo. Sarebbe riduttivo intendere questa fecondità come un semplice aumento numerico. Perciò dice che è una fecondità in grazia e virtù, cioè, in offerta evangelica.
Questa è, innanzi tutto, la fecondità francescana. Da parte sua, la glorificazione del cielo, come l’altra di Fil 2,6-11 nel caso di Gesù, è il sigillo della verità che il Padre pone a tutta la traiettoria evangelica del credente francescano. Al termine della sua vita, Chiara afferma con l’avallo della sua, persona la verità fondamentale della fede: il cammino cristiano, vissuto con intensità, porta all’esito credente, s’incontra con il segreto del Padre. Sì, benedizione e testamento, donazione della realtà più essenziale della propria esperienza.

Per una vita nella fedeltà
La BsC non è solo una promessa di sostegno che si basa sulla constatazione della verità del funzionamento dei meccanismi della fede. È anche una vocazione alla fedeltà che si inserisce nella continua catechesi clariana sul mantenersi nel cammino evangelico promesso. Lo avevano ereditato da Francesco (ricordare Uv) e, soprattutto, Chiara stessa era giunta alla conclusione, come dice nel TestsC, che la fedeltà era la prova della verità dell’opzione intrapresa. Perciò Chiara conclude che le sorelle siano sempre amanti di Dio e delle vostre anime e di tutte le vostre sorelle. In questo sempre si racchiude tutto l’animo fraterno e tutta l’urgente vocazione a una fedeltà dalla quale dipende, in parte notevole, l’esito del processo cristiano.

Per realizzare la promessa fatta al Signore
Con questo riferimento alla opzione evangelica primitiva termina la BsC: perché osserviate sollecitamente quello che avete promesso al Signore. Quando la clarissa, tanto personalmente come istituzionalmente, vede che le si annebbia il primo impulso di fronte a un Vangelo vissuto con limpidezza, ricorrerà al coraggio e all’impulso di questo reinserirsi nei giorni primaverili nei quali il Vangelo era decisivo. Farlo con la maturità dell’oggi, nella lotta dura di ogni giorno, può essere un sostegno decisivo per conservare la fedeltà e l’entusiasmo per la fede. Parola fraterna che stimola e soccorre, parola di fede.

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 10 août, 2012 |Pas de commentaires »

San Lorenzo martire

San Lorenzo martire dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 9 août, 2012 |Pas de commentaires »

10 AGOSTO: IL MARTIRIO DI SAN LORENZO NEL RACCONTO DI AMBROGIO

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10 AGOSTO: IL MARTIRIO DI SAN LORENZO NEL RACCONTO DI AMBROGIO

San Lorenzo appare specialmente caro a sant’Ambrogio: come gli apostoli Pietro e Paolo, l’arcidiacono di Papa Sisto ii, martire nella persecuzione di Valeriano nel 258, gli richiamava la sua Chiesa d’origine, con la sua fede: la « fede romana » (romana fides). Ma il santo era anche particolarmente venerato nella sua famiglia. Ambrogio ricorda che a lui si era raccomandato il fratello Satiro prima di mettersi in viaggio per la Sicilia e l’Africa: « Con le tue preghiere al santo martire Lorenzo avevi ottenuto di metterti in viaggio ».
Il suo richiamo, con le circostanze della sua passio, torna soprattutto nel De officiis, come a volerlo porre a modello del suo clero, specialmente per l’amore ai poveri, ai quali vanno destinati e distribuiti l’oro e il patrimonio della Chiesa. Parlando della fortezza dei martiri scrive: « Non trascuriamo san Lorenzo, che, vedendo il suo vescovo Sisto condotto al martirio, cominciò a piangere non perché quello era condotto a morire, ma perché egli doveva sopravvivergli. Cominciò dunque a dirgli a gran voce: « Dove vai, padre, senza tuo figlio? Dove ti affretti, o santo vescovo, senza il tuo diacono ». (…) Allora Sisto gli rispose: « Non ti lascio, non ti abbandono, o figlio; ma ti sono riservate prove più difficili. A noi, perché vecchi, è stato assegnato il percorso di una gara più facile; a te, perché giovane, è destinato un più glorioso trionfo sul tiranno. Presto verrai, cessa di piangere: fra tre giorni mi seguirai. (…) Perché mi chiedi di condividere il mio martirio? Te ne lascio l’intera eredità »".
E continuava, ricordando i particolari della morte, con la battuta di spirito arguta e raccapricciante del martire, che arrostiva sui tizzoni ardenti: « Nessun desiderio spingeva san Lorenzo, se non quello d’immolarsi per il Signore. E anch’egli, tre giorni dopo, mentre, beffato il tiranno, veniva bruciato su una graticola: « Questa parte è cotta, disse, volta e mangia ». Così, con la sua forza d’animo, vinceva l’ardore del fuoco ».
E anche la beffa di Lorenzo al persecutore è menzionata nel De officiis: « A chi gli chiedeva i tesori della Chiesa il santo martire Lorenzo promise di mostrarli. Il giorno seguente condusse i poveri. Interrogato dove fossero i tesori promessi, indicò i poveri dicendo: « Questi sono i tesori della Chiesa ». (…) Tali tesori mostrò Lorenzo e vinse, perché nemmeno il persecutore poté sottrarglieli ».
Anche per questo inno Ambrogio raccoglie i dati sparsi nella sua prosa e li compone a formare un insieme poetico stupendo, dove il racconto si fonde con l’ispirazione e l’emozione con la scenografia, e da cui spicca la figura vigorosa e affascinante dell’intrepido e ironico diacono che la Chiesa di Roma venera con ammirazione e tenerezza, e al quale si sente legatissima, come al suo speciale patrono, con gli apostoli romani Pietro e Paolo.
L’autenticità dell’inno, più volte citato da Agostino, appare indubbia: « Lo stile grafico di Ambrogio, – osserva il Biraghi – la somiglianza di frasi, certi vocaboli tutti suoi, varie voci da legale, i passi paralleli ad altri delle Opere, tutto ci rivela a chiare note l’origine Ambrosiana ».
L’inizio dell’inno è una prima grande esaltazione del diacono di Sisto, quasi equiparato a Pietro e Paolo, e insignito della gloria eterna del martirio dalla fede feconda della Chiesa che risiede in Roma: « Lorenzo, l’arcidiacono, / pari quasi agli apostoli (apostolorum supparem), / la fede romana (fides romana) ha immortalato / con la corona propria dei martiri ».
E questa corona gli è preannunciata assai vicina da Papa Sisto, che – come scrive Ambrogio – lo aveva fatto suo amministratore e « partecipe della celebrazione dei sacri misteri », e che ora lo precede sulla via del sacrificio: « Mentre seguiva il martire Sisto, / un responso profetico ne ottenne: / « Cessa, figlio, d’affliggerti: / mi seguirai fra tre giorni »".
Lorenzo riceve, così, in eredità il sangue stesso versato da Papa Sisto, e quindi una garanzia sicura – siglata dalla promessa e suggellata dal sangue – del proprio destino, anticipato e rimirato, con animo intrepido e compassionevole, nel martirio del proprio vescovo: « Non atterrì il supplizio / il designato erede di quel sangue, / che con occhio pietoso anzi contempla / la sorte che sarà sua ». Nel sacrificio del suo Pontefice l’arcidiacono inizia la propria immolazione: « Già in quel martirio il martire trionfa, / successore legittimo: / tiene un impegno siglato / dalla voce e dal sangue ».
Commenta il Biraghi: « Non atterrito dalla profezia di morte, ma lieto di dover essere erede del di lui sangue, stette osservando con fermo e divoto sguardo quel supplizio che doveva tra poco subire egli pure. Anzi col cuore già egli pure fe’ il sacrificio insieme con Sisto, e con lui già trionfò, egli erede, egli successore a pari condizioni, egli che già ne aveva il codicillo (syngrapham) fatto di voce e col sangue di Sisto ».
In questi versi limpidi e icastici viene mirabilmente delineata, in tutta la sua suggestione e la sua forza, la figura commovente e vigorosa di san Lorenzo, che continuerà a suscitare ammirazione e tenerezza in tutte Chiese, dove il suo culto sarà assai diffuso e vivo. E ne è un segno la Chiesa di Milano, per la quale stende l’inno Ambrogio, che del martire romano vi ha portato o certamente incrementato la memoria. « Milano fin dal principio del secolo v ebbe una chiesa in onore di san Lorenzo, che fu una delle più celebri » (Biraghi).
Viene poi volto in poesia l’episodio dei « tesori della Chiesa » (thesauri Ecclesiae), come li denomina sant’Ambrogio, e il particolare dell’inganno tramato da Lorenzo, che li presenta argutamente al persecutore. Il tutto sarà raccolto largamente nella tradizione della Chiesa, dove contribuirà a illustrare ciò che in essa si trova di più pregevole e di più caro – i poveri – e insieme a raffigurare nell’ »erede del martirio » di Papa Sisto l’icona della diaconia a servizio dei poveri: « Dopo tre giorni gli impongono / di consegnare i tesori ecclesiali (census sacratos); / docilmente promette, non rifiuta, / aggiungendo una beffa alla vittoria ».
L’ispirazione del poeta indugia a descrivere e a destare meraviglia per l’incantevole visione di questi tesori della Chiesa, dei quali al suo clero aveva detto: « Quali tesori più preziosi ha Cristo di quelli nei quali ha detto di trovarsi? »; « Sono veramente tesori quelli in cui c’è Cristo, in cui c’è la fede di Cristo ». Recitano i versi: « Che spettacolo splendido! (spectaculum pulcherrimum!) / Raduna le schiere dei poveri / ed esclama, quei miseri additando: / « Eccovi le ricchezze della Chiesa! » // Certo, vere e perenni ricchezze / son dei fedeli i poveri ».
Sennonché, all’irrisione canzonatoria e smaliziata di Lorenzo, segue la rivalsa del tiranno: « Ma la derisa avidità si rode/ e la vendetta con le fiamme appresta ». Ambrogio aveva scritto: « Per la singolare accortezza della sua preveggenza, Lorenzo ottenne la ricca corona del martirio ».
E, finalmente, il compimento del desiderio di Lorenzo, come lo chiama ancora il vescovo di Milano, di « immolarsi per il Signore ». Ossia quella consumazione del martirio sulla graticola, che tanto profondamente è rimasta impressa nell’animo e nella rappresentazione agiografica della Chiesa, anche per la richiesta impressionante e canzonatoria rivolta al tiranno, scottato dal fuoco da lui stesso acceso, di essere rigirato in vista di una cottura accurata e pronta per una idonea consumazione: « Però si ustiona da sé il carnefice / e fugge dalla sua vampa. / « Giratemi », invita il martire, / « e, se è a punto, mangiate »".
Mettendo in versi per la preghiera e il canto dei suoi fedeli milanesi, quest’altro « miracolo della fortezza cristiana » (Biraghi), nato dalla « fede romana », come la martire Agnese, Ambrogio ha soddisfatto la sua devozione personale verso san Lorenzo; ha esaltato, una volta ancora, la fecondità e la pietà della sua Chiesa d’origine, con la quale coltivò sempre un intimo legame e un affettuoso ricordo; e ha suscitato e rinvigorito nella Chiesa, che Dio gli aveva affidato tanto inaspettatamente, una più accesa devozione per l’eroico e vittorioso arcidiacono di Sisto.

(©L’Osservatore Romano – 10 agosto 2008)

SANTA MESSA PER LA CANONIZZAZIONE DI EDITH STEIN – GIOVANNI PAOLO II – (cfr Gal 6,14)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1998/documents/hf_jp-ii_hom_11101998_stein_it.html

SANTA MESSA PER LA CANONIZZAZIONE DI EDITH STEIN

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 11 ottobre 1998

1. Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr Gal 6,14).

Le parole di San Paolo ai Galati, che poc’anzi abbiamo ascoltato, ben si addicono all’esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce, che oggi solennemente viene iscritta nell’albo dei santi. Anche lei può ripetere con l’Apostolo: Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo.
La croce di Cristo! Nella sua costante fioritura l’albero della Croce porta sempre rinnovati frutti di salvezza. Per questo, alla Croce guardano fiduciosi i credenti, traendo dal suo mistero di amore coraggio e vigore per camminare fedeli sulle orme di Cristo crocifisso e risorto. Il messaggio della Croce è così entrato nel cuore di tanti uomini e di tante donne cambiandone l’esistenza.
Un esempio eloquente di questo straordinario rinnovamento interiore è la vicenda spirituale di Edith Stein. Una giovane donna in cerca della verità, grazie al lavorio silenzioso della grazia divina, è diventata una santa ed una martire: è Teresa Benedetta della Croce, che quest’oggi dal cielo ripete a tutti noi le parole che hanno segnato la sua esistenza: « Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce di Gesù Cristo ».
2. Il primo maggio 1987, nel corso della mia visita pastorale in Germania, ho avuto la gioia di proclamare Beata, nella città di Colonia, questa generosa testimone della fede. Oggi, a undici anni di distanza, qui a Roma, in Piazza San Pietro, mi è dato di presentare solennemente come Santa davanti a tutto il mondo questa eminente figlia d’Israele e figlia fedele della Chiesa.
Come allora, così quest’oggi ci inchiniamo dinanzi alla memoria di Edith Stein, proclamando l’invitta testimonianza da lei resa durante la vita e soprattutto con la morte. Accanto a Teresa d’Avila ed a Teresa di Lisieux, quest’altra Teresa va a collocarsi fra lo stuolo di santi e sante che fanno onore all’Ordine carmelitano.
Carissimi Fratelli e Sorelle, che siete convenuti per questa solenne celebrazione, rendiamo gloria a Dio per l’opera da lui compiuta in Edith Stein.
3. Saluto i numerosi pellegrini venuti a Roma, con un particolare pensiero per i membri della famiglia Stein, che hanno voluto essere con noi per questa lieta circostanza. Un saluto cordiale va anche alla rappresentanza della Comunità carmelitana, la quale è diventata la « seconda famiglia » per Teresa Benedetta della Croce.

Rivolgo, poi, il mio benvenuto alla delegazione ufficiale della Repubblica Federale di Germania, guidata del Cancelliere Federale uscente, Helmut Kohl, che saluto con deferente cordialità. Saluto, inoltre, i rappresentanti dei Länder Nordrhein-Westfalen e Rheinland-Pfalz, come anche il Primo Sindaco della Città di Colonia.
Anche dalla mia patria è venuta una delegazione ufficiale guidata dal Primo Ministro Jerzy Buzek. Rivolgo ad essa un cordiale saluto.
Una speciale menzione voglio poi riservare ai pellegrini delle diocesi di Breslavia (Wroclaw), di Colonia, Münster, Spira, Kraków e Bielsko-Zywiec, presenti con i loro Vescovi e sacerdoti. Essi si uniscono alla numerosa schiera di fedeli venuti dalla Germania, dagli Stati Uniti d’America e dalla mia patria, la Polonia.
4. Cari Fratelli e Sorelle! Perché ebrea, Edith Stein fu deportata insieme con la sorella Rosa e molti altri ebrei dei Paesi Bassi nel campo di concentramento di Auschwitz, ove insieme con loro trovò la morte nelle camere a gas. Di tutti facciamo oggi memoria con profondo rispetto. Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: « Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta ».
Nel celebrare d’ora in poi la memoria della nuova Santa, non potremo non ricordare di anno in anno anche la Shoah, quel piano efferato di eliminazione di un popolo, che costò la vita a milioni di fratelli e sorelle ebrei. Il Signore faccia brillare il suo volto su di loro e conceda loro la pace (cfr Nm 6,25 s.).
Per amor di Dio e dell’uomo ancora una volta io levo un grido accorato: mai più si ripeta una simile iniziativa criminale per nessun gruppo etnico, nessun popolo, nessuna razza, in nessun angolo della terra! E’ un grido che rivolgo a tutti gli uomini e le donne di buona volontà; a tutti coloro che credono all’eterno e giusto Iddio; a tutti coloro che si sentono uniti in Cristo, Verbo di Dio incarnato. Tutti dobbiamo trovarci in questo solidali: è in gioco la dignità umana. Esiste una sola famiglia umana. Questo ha ribadito la nuova Santa con grande insistenza: « Il nostro amore verso il prossimo – scriveva – è la misura del nostro amore a Dio. Per i cristiani – e non solo per loro – nessuno è «straniero». L’amore di Cristo non conosce frontiere ».
5. Cari Fratelli e Sorelle! L’amore di Cristo fu il fuoco che incendiò la vita di Teresa Benedetta della Croce. Prima ancora di rendersene conto, essa ne fu completamente catturata. All’inizio il suo ideale fu la libertà. Per lungo tempo Edith Stein visse l’esperienza della ricerca. La sua mente non si stancò di investigare ed il suo cuore di sperare. Percorse il cammino arduo della filosofia con ardore appassionato ed alla fine fu premiata: conquistò la verità, anzi ne fu conquistata. Scoprì, infatti, che la verità aveva un nome: Gesù Cristo, e da quel momento il Verbo incarnato fu tutto per lei. Guardando da carmelitana a questo periodo della sua vita, scrisse ad una benedettina: « Chi cerca la verità, consapevolmente o inconsapevolmente cerca Dio ».
Pur essendo stata educata nella religione ebraica dalla madre, Edith Stein a quattordici anni « si era consapevolmente e di proposito disabituata alla preghiera ». Voleva contare solo su se stessa, preoccupata di affermare la propria libertà nelle scelte della vita. Alla fine del lungo cammino le fu dato di giungere ad una constatazione sorprendente: solo chi si lega all’amore di Cristo diventa veramente libero.
L’esperienza di questa donna, che ha affrontato le sfide di un secolo travagliato come il nostro, diventa esemplare per noi: il mondo moderno ostenta la porta allettante del permissivismo, ignorando la porta stretta del discernimento e della rinuncia. Mi rivolgo specialmente a voi, giovani cristiani, in particolare ai numerosi ministranti convenuti in questi giorni a Roma: guardatevi del concepire la vostra vita come una porta aperta a tutte le scelte! Ascoltate la voce del vostro cuore! Non restate alla superficie, ma andate al fondo delle cose! E quando sarà il momento, abbiate il coraggio di decidervi! Il Signore attende che voi mettiate la vostra libertà nelle sue mani misericordiose.
6. Santa Teresa Benedetta della Croce giunse a capire che l’amore di Cristo e la libertà dell’uomo s’intrecciano, perché l’amore e la verità hanno un intrinseco rapporto. La ricerca della verità e la sua traduzione nell’amore non le apparvero in contrasto; essa, anzi, capì che si richiamavano a vicenda.
Nel nostro tempo la verità viene scambiata spesso con l’opinione della maggioranza. Inoltre è diffusa la convinzione che ci si debba servire della verità anche contro l’amore o viceversa. Ma la verità e l’amore hanno bisogno l’una dell’altro. Suor Teresa Benedetta ne è testimone. La « martire per amore », che donò la sua vita per gli amici, non si fece superare da nessuno nell’amore. Allo stesso tempo ella cercò con tutta se stessa la verità, della quale scriveva: « Nessuna opera spirituale viene al mondo senza grandi travagli. Essa sfida sempre l’uomo intero ».
Suor Teresa Benedetta della Croce dice a noi tutti: Non accettate nulla come verità che sia privo di amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di verità! L’uno senza l’altra diventa una menzogna distruttiva.
7. La nuova Santa ci insegna, infine, che l’amore per Cristo passa attraverso il dolore. Chi ama davvero non si arresta di fronte alla prospettiva della sofferenza: accetta la comunione nel dolore con la persona amata.
Consapevole di ciò che comportava la sua origine ebraica, Edith Stein ebbe al riguardo parole eloquenti: « Sotto la croce ho compreso la sorte del popolo di Dio… Infatti, oggi conosco molto meglio ciò che significa essere la sposa del Signore nel segno della Croce. Ma poiché è un mistero, con la sola ragione non potrà mai essere compreso ».
Il mistero della Croce pian piano avvolse tutta la sua vita, fino a spingerla verso l’offerta suprema. Come sposa sulla Croce, Suor Teresa Benedetta non scrisse soltanto pagine profonde sulla « scienza della croce », ma fece fino in fondo il cammino alla scuola della Croce. Molti nostri contemporanei vorrebbero far tacere la Croce. Ma niente è più eloquente della Croce messa a tacere! Il vero messaggio del dolore è una lezione d’amore. L’amore rende fecondo il dolore e il dolore approfondisce l’amore.
Attraverso l’esperienza della Croce, Edith Stein poté aprirsi un varco verso un nuovo incontro col Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Fede e croce le si rivelarono inseparabili. Maturata alla scuola della Croce, ella scoprì le radici alle quali era collegato l’albero della propria vita. Capì che era molto importante per lei « essere figlia del popolo eletto e di appartenere a Cristo non solo spiritualmente, ma anche per un legame di sangue ».

8. « Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4,24).

Carissimi Fratelli e Sorelle, con queste parole il divino Maestro s’intrattenne con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Quanto egli donò alla sua occasionale ma attenta interlocutrice lo troviamo presente anche nella vita di Edith Stein, nella sua « salita al Monte Carmelo ». La profondità del mistero divino le si rese percettibile nel silenzio della contemplazione. Man mano che, lungo la sua esistenza, essa maturava nella conoscenza di Dio, adorandolo in spirito e verità, sperimentava sempre più chiaramente la sua specifica vocazione a salire sulla Croce con Cristo, ad abbracciarla con serenità e fiducia, ad amarla seguendo le orme del suo diletto Sposo: Santa Teresa Benedetta della Croce ci viene additata oggi come modello a cui ispirarci e come protettrice a cui ricorrere.
Rendiamo grazie a Dio per questo dono. La nuova Santa sia per noi un esempio nel nostro impegno a servizio della libertà, nella nostra ricerca della verità. La sua testimonianza valga a rendere sempre più saldo il ponte della reciproca comprensione tra ebrei e cristiani.

Tu, Santa Teresa Benedetta della Croce, prega per noi! Amen.

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