Archive pour juillet, 2012

La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

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La conversione di San Paolo? Ad opera di un brigante.

Di don Massimo Vacchetti – (2009)

Nell’anno giubilare dei duemilanni della nascita di San Paolo, la giornata di oggi assume un valore singolare. La Liturgia della Chiesa contempla due circostanze in cui ricorda l’apostolo delle genti: il 29 giugno il suo martirio assieme a quello di Pietro, il 25 gennaio quando ricorda la sua conversione. E’ un fatto unico che la liturgia più che fare memoria di un santo (nel giorno del suo dies natalis) celebra un fatto, un avvenimento. La storia di Paolo è una vicenda che riguarda un uomo. E’ lui che è ha visto la luce, ne è rimasto accecato, si è, convertendosi a Gesù, battezzato e ha annunciato il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto. Ma allo stesso tempo, sentiamo che questo fatto riguarda anche me perché quel suo annuncio, l’annuncio di Gesù morto e risorto, è arrivato come un lunghissimo eco anche a me. La vicenda di un uomo, nato a Tarso una città della Cilicia nell’attuale Turchia che s’intreccia con la mia. Per dirmi che la vita mia s’intreccia – che io ne sia consapevole o no – con il mondo intero. La vocazione di Paolo è quella di un uomo che se fosse stato possibile avrebbe infiammato tutti i paesi non solo nell’estensione dello spazio, ma nell’estensione del tempo. E in qualche modo c’è riuscito. Il suo nome vero è Saulo. E’ un giudeo, nato fuori dalla Palestina. Pare che i suoi genitori fossero scappati dalla Galilea quando i romani conquistarono la terra promessa. Tarso è una città importante. Saulo conosce bene l’ebraico in quanto figlio di una famiglia ebrea, il greco lingua madre degli abitanti i Tarso. Consce presumibilmente anche il latino godendo Tarso di una prerogativa privilegiata che è quello di conferire la cittadinanza romana, un privilegio singolare che l’apostolo farà valere così da giungere, scortato in catene, nella città imperiale. E’ un giovane colto e pieno di entusiasmo. Siccome è un ragazzo in gamba, viene mandato a Gerusalemme in Giudea per imparare bene le Sacre Scritture. Suo maestro è Gamaliele, uno che gode di una notevole fama al riguardo. La sua fede s’irrobustisce fino a detestare tutte le forme di eresia tra cui – così la riteneva – quella cristiana. Così partecipa alla morte di Stefano, un giovane della comunità cristiana che si prestava ad aiutare le vedove prive di sostentamento e in varie forme perseguita i discepoli di quel Gesù che per lui altro non è che un brigante e un bestemmiatore. Una volta racconta così il suo accanimento contro i cristiani: “Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere”. Una di queste città straniere è Damasco dove l’attendono un gruppetto di cristiani intimoriti forse dalle voci riguardo quest’uomo così impetuoso e risoluto. Durante il viaggio – è lui stesso a raccontarlo – “verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia”. Questo è l’episodio che ricordiamo oggi. “Chi sei? Sono Gesù”. Come a dire: “tu mi ritieni morto. Sono vivo. Eccomi!” Saulo è raggiunto dalla luce di Cristo vivo. E’ questa la chiave di volta di tutta la vicenda personale di Paolo e del suo annuncio. Cristo è vivo ed è luce. Su quella strada che doveva portarlo a portare un altro corpo mortale a quella banda di menzogneri, Gesù gli ha atteso un agguato. Come un brigante, Gesù lo ha atteso al varco e lo ha assalito. Mi viene in mente la famosa parabola che racconta Gesù. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono” (Lc 10,30) Come quell’uomo sulla strada tra Gerico e Gerusalemme, così Saulo sulla strada che da Gerusalemme portava a Damasco. Nella parabola di Gesù, il brigante lascia l’assalito alla pietà di un passante occasionale, buon samaritano. In questa circostanza, il brigante mentre disarciona, rialza; mentre ferisce, risana; mentre umilia, innalza; mentre arresta, manda; mentre acceca, rivela; mentre crocifigge, fa rinascere. Questa è la festa dell’ironia di Dio che rovescia le nostre logiche. Invece che prendere il più fedele e pio dei cristiani, ha scelto il peggiore dei persecutori capovolgendo il destino della sua vita e della nostra. Che Dio, nella sua ironia, ci tenda un agguato che ci cambi la vita.

Saint Macrina the Younger

Saint Macrina the Younger dans immagini sacre 7471249054_d42c5360be_z

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Publié dans:immagini sacre |on 18 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

La «Vita di santa Macrina» – di Gregorio di Nissa

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GREGORIO DI NISSA

La «Vita di santa Macrina»

In fondo non stupisce che metà della già breve Vita di santa Macrina, che Gregorio di Nissa dedica, probabilmente intorno al 390, alla sua sorella maggiore, sia occupata in realtà dalla sua morte. È nella morte infatti che si concentrano una serie di temi dell’opera di Gregorio, che sgorgano qui esaltati dal dolore, seppur trattenuto, per la scomparsa di una donna che «non era estranea alla mia famiglia».
Secondo Gregorio, spiega Peter Brown, successivamente alla Caduta, insieme con la morte una nuova percezione del tempo era entrata a far parte della condizione umana: al tempo «puro» della creazione, caratterizzato dalla certezza del fine, era subentrato un tempo terreno «impuro» e incerto, denso di «ansie mai soddisfatte e vissuto come una perpetua e inquieta “tensione” dell’anima verso un futuro minaccioso e ignoto». «Il tempo umano era fatto da incessanti tentativi di evitare la morte», e al suo cuore, per così dire, trovava posto «l’orologio del matrimonio», lo strumento principe nella lotta contro la paura della fine. Per Gregorio, dunque, «il modo migliore di vincere quella paura consisteva nell’evitare la specifica istituzione sociale che ne era l’esplicito frutto»; di qui l’ossessione per il celibato e il nubilato, la verginità, l’astinenza: «Nel cuore dell’individuo casto cessava finalmente il sonoro ticchettio emesso dall’orologio del tempo mondano».
Così, Macrina, di cui Gregorio acconsente a scrivere, «affinché una vita così luminosa non fosse ignorata e non rimanesse nell’oblio, senza profitto, l’operato di una donna che, in forza del suo vivere filosofico, raggiunse il più alto grado di virtù».
La prima immagine la coglie all’età di dodici anni, «quando, soprattutto, rifulge il fiore della giovinezza», e Macrina «nonostante la sua riservatezza, non riesce a tenere nascosta la propria bellezza». Siamo intorno al 340, Macrina infatti è nata probabilmente nel 328 a Cesarea di Cappadocia, nella ricca famiglia di Emmelia e di Basilio il Retore, un «esercito di santi» se si considera che seguono la vocazione religiosa cinque dei dieci figli, tra i quali appunto Gregorio e il grande Basilio. Alla morte – ecco – del pretendente scelto dal padre, Macrina, già molto addentro alle sacre scritture, sceglie la verginità, sostenendo che lo sposo promesso è soltanto «momentaneamente lontano», «in viaggio e non già defunto», che lo ritroverà dopo la resurrezione e che quindi non vede perché non debba restargli fedele.
Il matrimonio, come accennato, era in quel contesto materia molto delicata, piena di risvolti economici, sociali e politici, ma la ragazza è irremovibile e convince anche la madre, cui è molto legata, «a rinunziare all’abituale esistenza molto agiata e ai servizi delle domestiche cui era stata avvezza sino ad allora». Dopo la morte del padre, all’età di circa vent’anni, Macrina lascia Cesarea e si ritira ad Annesi, in una proprietà di famiglia, dove fonda un asceterio che si trasforma presto in un vero e proprio monastero femminile, cui ne risulta affiancato anche uno maschile, poi affidato al fratello Pietro, l’ultimogenito. Alle consorelle Macrina detta una regola che purtroppo non si è conservata e sulla quale lo stesso Gregorio si diffonde brevemente. Libertà dalle passioni mondane, lavoro (pare che Macrina fosse particolarmente abile nel «lavoro della lana») e preghiera, preghiera continua e incessante: un’esistenza, commenta Gregorio, «sospesa a mezzo tra la natura umana e quella angelica». «Come le anime libere dai corpi in seguito a morte sono esenti dalle cure di questo mondo, così la loro esistenza era distaccata, del tutto lontana dalle vanità terrene e regolata in modo da imitare le vite degli angeli».
Anzi, azzarda Gregorio, forse si potrebbe dire addirittura che erano superiori a essi, perché comunque «vivevano nella carne, eppure non erano appesantite dal corpo: lievi, levandosi in alto, spaziavano per il firmamento in compagnia degli angeli».
È la morte della sorella, come si diceva, a «interessare» maggiormente Gregorio di Nissa. Morte di fronte alla quale si manifesta ancor più, ai suoi occhi, la grandezza di lei. Macrina aveva già mostrato «la sublimità del suo animo» in occasione della scomparsa, prematura, del fratello Naucrazio, quando «non solo conservò la calma rifuggendo da irrazionali manifestazioni di dolore, ma prestò valido soccorso alla madre che dava prova di debolezza, sollevandola dall’abisso di dolore in cui era caduta», poi di quella della stessa madre e infine di quella del fratello Basilio (quella del padre è menzionata di sfuggita). Sempre Macrina aveva resistito, «come un invitto atleta», ai colpi della sorte mantenendo lo sguardo sereno sull’oltre e, questo è ciò che preme a Gregorio, «levandosi al di sopra della natura medesima».
Ora è il suo turno. Gregorio lo apprende per caso. Sta andando a trovarla e incontra uno dei «servi» del monastero: «Domandai, allora, notizie della grande. La risposta fu che era in preda a grave morbo». Gregorio si affretta ad Annesi e si precipita nella cella di Macrina. Fratello e sorella si vedono, lei fa per tirarsi su (è stesa su «una tavola ricoperta da un sacco»), lui, «sorreggendole con le mani il volto inchinato a terra», la rimette sdraiata. Lei parla, «filosofando intorno alla natura dell’anima e spiegandoci la ragione della vita nella carne, e perché l’uomo è stato fatto e come egli è mortale», lui piange e si sente quasi «libero dai vincoli della natura umana».
Poi Macrina dice che sta meglio («né lo diceva per illuderci») e manda il fratello a riposarsi e rifocillarsi. Quindi sono di nuovo insieme e si abbandonano ai ricordi, «a partire dagli anni della giovinezza». Viene la notte. Salmi e preghiere, «tra un ansimare lieve, persistente». «A quella vista ero combattuto tra me e me da contrastanti sentimenti», ricorda Gregorio: «triste» perché di lì a poco non avrebbe più udito la sua voce, «però entusiasta innanzi allo spettacolo che si offriva ai miei occhi, convinto che la vergine aveva varcato i confini della natura umana».
La sera dell’indomani Macrina muore. Seguono i primi riti, la vestizione, la notizia che si diffonde, il concorso di folla, l’esposizione della salma, la processione, la funzione, la sepoltura accanto alla madre: si fa il «tempo di pensare al ritorno».
La compostezza, la fortezza, la speranza sono il segno di questa cronaca minuziosa e consapevole dei posteri, ma a me sono rimasti impressi soprattutto due frammenti, incastrati fra tanto ritegno, una «cosa» sfuggita alle consorelle cui Macrina aveva sempre raccomandato il «decoro in ogni evenienza» e una confessione dell’autore: «Quando non fu possibile dominare più a lungo la sofferenza, come fuoco avvampasse nel profondo dei cuori consumandoli, [le religiose] mandarono un urlo straziante, irrefrenabile. Anch’io», aggiunge Gregorio, «non seppi contenermi».

Gregorio di Nissa, Vita di santa Macrina, a cura di E. Marotta, Città Nuova 1989 (cfr. anche Peter Brown, Il corpo e la società. Uomini donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Einaudi 2011

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR (2 Cor. 12,7-10) – IN MEDITARE CON PAOLO DI STANISLAO LYONNET

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/lyonnet_meditare_con_paolo1.htm

STANISLAO LYONNET

MEDITARE CON PAOLO

VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR (2 Cor. 12,7-10)

Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.
7 Affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca. 8 Tre volte riguardo a questo pregai il Signore, perché lo allontanasse da me. 9 Ora, egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia, poiché la (mia) potenza si mostra appieno nella debolezza! Molto volentieri, adunque, mi glorierò nelle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo. 10 Per questo mi compiaccio delle (mie) debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo; perché quando son debole è ben allora che sono forte.
Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.
Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, «or sono quattordici anni», dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.
v.7 «Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca».
Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera.
Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: «Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia», vedono volentieri in questa «spina» una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche.
Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.
San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che «toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino» (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: «Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito»; e ancora 2 Cor. 4,4: «Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo…».
Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di «debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie» (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): «Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli…». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).
Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: «Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me». Preghiera insistente, ripetuta «tre volte», come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa «spina» un grande ostacolo per il suo apostolato.
Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: «Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. «Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza»: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico. È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: «Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo».
Mi glorierò» kauchesomai, cioè «riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza».
«Affinché abiti in me la potenza di Cristo»; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della «gloria di Jahvé» sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: «E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): «Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte».
Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo.
Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).
L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi. Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno «spirito pitone» che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e pregato di lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, «presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città…» (v. 5).
Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.
A Berea (17,10) trovarono i Giudei «animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero…». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, «si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. «Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! …», e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).
Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla.
«Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.
A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno «choc». Ecco il testo: «Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili» (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo! ». Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, «una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore», e vorrebbe essere lui stesso «anatema dal Cristo» per i suoi «fratelli secondo la carne…» (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.
Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: «Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città!» (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. «Ho un popolo grande in questa città ».
A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: «Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: «La mia potenza si mostra appieno nella debolezza»; «quando sono debole, è ben allora che sono forte»; «molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo».

Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.
Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei «liberatori» o «salvatori» d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che «dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti» (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. «Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo» (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, «levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato!» (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. «Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! …»(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. «Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani…» (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.
La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: «Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato» (1 Sam. 17,45). Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: «Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla» (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete «pescatori d’uomini».
Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della «potenza di Dio nella debolezza dell’uomo» è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: «Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte» (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).
Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: «Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni» (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli «da parte dei Giudei», che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, «da parte dei pagani». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: «perciò lo mandava spesso a chiamare» (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei «fratelli», di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi «predicatori», che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.
Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.
Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemme teme che la comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità, raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare «affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi» (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: «Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare?» (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: «Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene» (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessun0 (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata «il testamento spirituale di San Paolo»: «Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato…» (1,15) «Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen!» (4,9-18).
Mai, forse, nella sua vita 1′Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto «la potenza si mostra appieno nella debolezza».

[1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
[2]. V. anche 1 Cor.4,9-13.
[3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in «Rivista Biblica» 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

Mazzolino, Ludovico. God the Father

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Publié dans:immagini sacre |on 17 juillet, 2012 |Pas de commentaires »

PRIGIONE DEL FINITO! – HANS URS VON BALTHASAR

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HANS URS VON BALTHASAR

IL CUORE DEL MONDO

I. PRIGIONE DEL FINITO!

In prigione nasce anche l’uomo, come ogni altro essere. Anima, corpo, pensiero, desiderio, comportamento: tutto in lui ha limiti, lui stesso è un tangibile limite, è tutto un definito, diverso, staccato dall’altro. Dalle finestre ingabbiate dei sensi egli guarda fuori di sé nell’esterna, estranea realtà che mai egli sarà. Potesse pur volare il suo spirito come uccello attraverso gli spazi del mondo: lui stesso non è mai questo spazio, e il solco che vi incide si cancella poi subito e non vi lascia impronta che duri. Da un essere all’altro: quale distanza! E se questi esseri per di più si amano, e da quell’isola all’altra che essi sono si lanciano cenni, quando tentano di scambiarsi la propria solitudine e di farne una illusoria unità, tanto più dolorosa li coglie ben presto la delusione quando tocca loro urtare contro le invisibili sbarre, contro il gelido vitreo cristallino su cui picchiano come uccelli imprigionati. Nessuno riesce ad abbattere la propria prigione, nessuno sa chi sia l’altro! Delle ipotesi soltanto osano avventurarsi dall’uomo alla donna, dal piccolo al grande, ancora più esitanti quelle che vanno dall’uomo all’animale. Gli esseri sono l’un l’altro stranieri, e anche se è bello trovarsi insieme, integrati come colori, come l’acqua e le pietre, come il sole e le nebbie, anche se realizzano insieme l’armonia melodiosa dell’universo. È una bellezza che paga lo scotto di una separazione tanto più amara. Già starsene soli da singoli si chiama rinuncia. È spezzato il limpido specchio, è dispersa per tutto il mondo l’immagine infinita, il mondo è un acervo di schegge. È pur sempre preziosa ogni singola briciola, da ogni frammento un raggio lampeggia dell’origine arcana, un bene infinito viene intravisto nel bene finito, la promessa di un più, un sospetto di rottura di limiti, un’attrattiva dolce al punto che il polso si ferma per un repentino piacere quando qualcosa si offre per attimi, senza velo o vestito, aperto e ripulito della cenere dell’abitudine: un meraviglioso qualcosa che rende oltremisura felici. Il sigillo della provenienza, il bacio dell’ origine, il pegno dell’unità perduta. Arcano sempre e inafferrabile resta però il seme di quel frutto che è il piacere. Chi l’insegue non l’afferra. Si trova in mano la mela di Adamo, non il frutto infinito dell’Albero della Vita. L’immagine celeste scivola via con un mesto sorriso, si spegne, si sbriciola in fumo. Per un attimo apparve senza limiti, ricompaiono poi subito le sue povere pareti, ed entrambi, cercato e cercante, si ritrovano nell’ angusta prigione. E rieccoci di nuovo l’uno di fronte all’altro, parti di parti, e ciò che abbiamo è solo parte di un tutto. Non servono strappi, né lacrime ad abbattere la prigione.

E tuttavia ecco il tempo: oscilla, dondola, corre inspiegabilmente! Una barca invisibile da riva a riva. Qualcosa di alato che va da essere ad essere. Entra nel tempo ed esso già è partito, già ti porta, tu non sai né come né dove, già trema e vacilla la rigida terra sotto di te, la dura strada si curva e si fa viva, comincia a scorrere come la corrente ben rodata di un fiume, le sponde mutano e cangiano ora son selve, e tu ondeggi tra esse, ed ora vaste campagne, vaste città di uomini. La stessa corrente è composita e mutevole: ora scorre frusciando tranquilla, ora piomba in cateratte selvagge, ridiventa poi ancora liscia e piana, si amplifica in mare. Ormai non si avverte più il movimento, e lungo le rive l’acqua rifluisce talvolta, finché il centro la riprende nel suo impeto.

Lo spazio è rigido e gelido, ma il tempo vive. Lo spazio divide, ma il tempo porta ogni cosa a ogni altra. Esso non scorre fuori di sé, tu non navighi alla sua superficie come un tronco semovente. Scorre attraverso di te, sei tu stesso nel pieno del fiume. Tu stesso sei il fiume. Sei triste? Confida nel tempo: tra poco riderai. Ridi invece? Non puoi trattenere il tuo riso: tra poco piangerai. Come il vento ti cambia da una situazione a un’altra, da uno stato d’animo all’ altro, dalla veglia al sonno e dal sonno di nuovo alla veglia. Ma non puoi camminare a lungo: eccoti fermo di nuovo, sei stanco, affamato, devi sederti, cibarti, poi ti alzi di nuovo, riprendi a camminare, a cambiare. Tu soffri: da lungi, inarrivabile, tu vedi l’azione a cui miri; ma sempre ti porta la corrente, e un bel mattino ecco che è giunta l’ora dell’ agire. Sei un bambino, e mai sfuggirai, così pensi tu, alla fragilità dell’infanzia, che ti chiude fra quattro mura senza finestre. Ma ecco: le stesse tue mura sono mobili e pieghevoli, e tutto il tuo essere si plasma da sé in giovane uomo. Da dentro di te sale in te stesso acqua da nascoste sorgenti, possibilità si aprono come fiori davanti a te, e un bel giorno il mondo si è fatto maturo intorno a te. Pian piano il tempo ti conduce di curva in curva, visioni e orizzonti si srotolano di qua e di là mentre avanzi: cominci ad amare il cambiamento, indovini una dopo l’altra smisurate avventure. Intravedi una direzione, intuisci un punto di partenza, senti il sapore di un mare. E lo vedi tu stesso: ciò che in te cambia, cambia anche ovunque intorno a te: ogni punto, accanto a cui passi sfiorandolo in fretta, è esso stesso in movimento. Qualcosa lo muove verso chissadove, la lunga sua storia scorre in esso, ma esso non sa, come neppure tu, dove andrà a finire. Alzi gli occhi al cielo: alti vi girano i soli, ma tutti, appesi come grappoli ai loro sistemi planetari, ruotano divergendo verso mete predeterminate e verso spazi inimmaginabili. Tu dividi gli atomi: formicolano confusi come un formicaio calpestato. Tu cerchi un punto fermo e una legge costante nel centro che è misura della terra, ma anch’esso non è fatto che di eventi e di storie, nessuno può calcolare per te anche solo le nuvole della settimana entrante.

Esiste certo una legge, ma è la misteriosa legge del mutamento, che nessuno ha mai sondato tranne colui che muta se stesso. Tu non puoi tirare il fiume sulla sua riva asciutta per catturare come si fa con un pesce la regola del suo fluire. E tu stesso impari a nuotare soltanto nell’acqua. Gli uomini sapienti cercano di spiegare l’esistenza nel suo fondamento, ma altro non possono fare che descrivere una certa onda della corrente; sui loro disegni lo scorrere è fermo, diventa vero solo quando riconsegnano l’immagine al mutamento. Molte cose hanno intrapreso i curiosi e hanno gettato rocce nell’acqua per domare la corrente. Nei loro sistemi hanno pensato di poter un giorno trovare un’isola di eternità e hanno gonfiato i loro cuori come palloni per captare l’eternità in un momento beato. Ma hanno preso soltanto dell’aria e sono scoppiati, oppure, nell’incantesimo di un’idea immaginaria, hanno dimenticato precisamente di vivere, ma il fiume è passato schiumando tranquillo sopra i loro cadaveri. No, la legge è nel fiume e solo correndo la puoi afferrare. La perfezione è nella pienezza del venire. Perciò non sognare mai di averla raggiunta, dimentica ciò che sta dietro di te, protenditi verso ciò che ti sta davanti: nel mutamento, in cui perdi quanto arraffato, sarai alla fine mutato in ciò che desideri ardentemente di essere.

Fidati del tempo. Il tempo è musica; e lo spazio da cui la musica suona è il futuro. Suono dopo suono la sinfonia si crea in una dimensione che inventa se stessa, che di continuo, da un’insondabile provvista di tempo, si mette a disposizione. C’è spesso mancanza di spazio: troppo poca è la pietra per la statua, la piazza non contiene tutta la folla. Ma quando mai il tempo è mancato? Quando mai è finito come un filo troppo corto? Il tempo è lungo quanto la grazia. Affidati alla grazia del tempo. Tu non puoi interrompere una musica per afferrarla e portartela a casa: lasciala fluire e fuggire, non la capiresti altrimenti. Non la puoi raccogliere in un unico bell’accordo e possederla una volta per sempre. Pazienza è la prima virtù di colui che vuole capire. E la seconda è rinuncia. Poiché vedi: tu non comprendi l’arco e lo slancio della melodia prima che l’ultimo suono non sia esaurito. Soltanto adesso che tutta è stata suonata puoi guardare dall’alto gli accenti arcani, gli archi in tensione e le curve della distanza; solo ciò che sprofonda nell’udito sale nel cuore. E dunque, e tuttavia: tu non afferri invisibile nell’unità dello spirito ciò che non hai sentito sensibile con tutti i tuoi sensi. Così l’eterno è al di sopra del tempo, ed è la sua messe, e diventa e si realizza tuttavia solo nel mutamento del tempo.

Quali mai esseri siamo! Dobbiamo crescere agganciati a ciò che è transeunte. Diventiamo ricchi, diventiamo maturi non altrimenti che mediante ininterrotta rinuncia di ora in ora. Dobbiamo portare a compimento la durata. Quando cerchiamo di trattenerla violiamo la legge di vita della natura. Quando perdiamo la pazienza dell’esistenza nel tempo, già stiamo cadendo nel nulla. Mentre avanziamo ci mormora all’orecchio una voce dal vento contrario che avanzando tendiamo; ma se ci fermiamo per meglio ascoltarla essa non parla più. Il tempo è, insieme, minaccia e inaudita promessa: lascia che passi, allora ci chiama, non c’è altra possibilità con esso. Lascia che passi, mostragli vuote le mani, non posso altrimenti riempirtele! Altrimenti io ti passo di lato con i miei doni freschi e ti abbandono ai tuoi gingilli che invecchiano. Tu sei più ricco, puoi credermi, quando sei capace di finire e troncare la felicità e l’ora tua grande, più ricco quando puoi essere povero, sempre aperto comunque, un mendicante alla porta dell’avvenire! Non trattenere, non aggrapparti, non aderire! Non puoi far incetta di tempo, dal tempo impara la prodigalità! Da’ via tu stesso quanto altrimenti ti verrebbe di violenza sottratto. Allora sarai, tu miserabile derubato, più ricco di un re! Il tempo è la scuola dell’abbondanza, della magnanimità.

È la scuola superiore dell’amore. E se il tempo è il terreno della nostra esistenza, della nostra esistenza il terreno è l’amore. Tempo è esistenza fluente; amore è vita che si dà ad altri. Tempo è esistenza che inerme si espropria senza farsi pregare; amore espropria se stesso e si lascia da sé disarmare volontariamente. Esistenza altro non può – è la sua legge ed essenza – che fluendo dimostrare l’amore. Ed è libera di essere essa stessa l’amore. Dobbiam esser pazienti, anche se veniam meno per impazienza, perché nessuno può accrescere nemmeno d’un cubito la propria statura, se non crescendo… col tempo. Dobbiam rinunciare, e anche se teniamo sotto gli avari artigli tremanti i nostri averi, è facile al tempo mortale sciogliere le nostre dita, e i tesori ammassati si rovesciano a terra. Ciò che l’ultimo istante alla fine pur ci strappa di forza ci persuade dolcemente ogni volta a riconoscere il mistero della durata come il dolce nodo della nostra vita, l’offerta di un instancabile amore. Strano è che ci viene consentito di essere ciò a cui inutilmente miriamo. Noi possiamo realizzare con semplicità nell’esistenza ciò che in sapere e volere non riusciamo a raggiungere. Dedizione vorremmo, e siamo già donati. Cerchiamo colui al quale vorremmo donarci, e siamo già presi da lungo tempo. E se il cuore si raggomitola tutto nel considerare la vanità di ogni cosa vissuta, questa è la paura della sposa nella notte nuziale quando le viene strappato l’ultimo velo.

Siamo stati concepiti come esseri che possono volere ciò che involontariamente devono volere. Ma che cosa è più bello, quale pensiero potrebbe essere più inebriante di questo: la nostra esistenza è per se stessa opera dell’ amore? Così che invano mi opporrei a non essere ciò che da sempre sono. Così che, qualora gridassi: no! a gola spiegata, gonfie le vene di angoscia: no!, nell’angolo estremo della caverna, a tradimento un’eco ormai dice: sì, anzi Sì. E se dopo qualche morte moriamo per l’ultima volta, allora in quest’atto supremo della vita l’esistenza ha cessato di morire. Mortale è pur sempre solo una cosa: vivendo non volere morire. Ogni morte che volontariamente va incontro alla morte è una vita che sorge. Così il calice dell’amore è misto di vita e di morte. È un miracolo il fatto che non amiamo: amore è la filigrana nella pergamena della nostra esistenza. Secondo la sua melodia le nostre membra si muovono.

Chi ama obbedisce alla piega della vita nel tempo; chi si nega all’amore lotta (inutilmente) contro la corrente. Quanto facile ci è stato reso il gesto del dono dal momento che l’aurea acqua dell’essere ci passa attraverso come attraverso la bocca di una fontana! E quanto l’espropriazione ci è facile, dato che siamo immersi nella ricchezza del futuro che giunge inesauribile a noi! Quanto è facile la fedeltà, dato che il tempo infedele ci ha messo al dito l’anello che non si spezza! Quanto facile la morte, dato che veniamo a sapere ad ogni ora quanto è bello, anzi quanto vantaggioso il perire! E l’invecchiare perfino, quello che ci angoscia, restringe e delimita, offre a compenso delle nebbie di fuori la chiarezza interiore della povertà. Niente è tragico in noi, perché ogni rinuncia viene pagata in modo ultraricco, e quanto più vicini arriviamo al centro vero della povertà assoluta, con intimità sempre più grande prendiamo possesso di noi stessi e tanto più certo è che tutte le cose diventano nostre.

Così possiam essere ciò che vorremmo. Nell’acqua arcana del tempo, in cui ci bagniamo, che siamo noi stessi, in questa fluidità dell’essere, è superata e dissolta la odiosa profonda resistenza dei cuori. Discutibile è solo la realtà ferma, impenetrabile, la rigidità che si oppone a ogni spirito e occhio. Ma l’occhio è bagnato e lo spirito luccicante e così attraversa irradiando e discioglie tutto ciò che resiste. Mentre di fuori aggiungiamo corazza a corazza e ci armiamo contro gli inesorabili comandi della vita, nel più profondo di noi la sorgente zampilla, disperde ogni muro e scava da sotto la nostra più dura fortezza. Nessuno resiste fino alla fine alla pressione incessante di quest’onda? Essa ci debilita giorno dopo giorno, corrode selce su selce delle rive scavate di modo che alla fine ci accasciamo del tutto. Con il tempo anche l’uomo più stupido capisce il tempo! Esso si scava dentro di lui il suoi alveo e lo macina dentro e tritura con la sua pietra rotonda come la cascata il ghiaccio.

Così lo avverti, ed esso ti va iniziando nel suo più alto mistero. Tu senti il suo ritmo che insieme ti dà e ti toglie. A te arriva come futuro, ti inonda, ti regala doni senza misura, ma anche ti rapina, pretende tutto da te. Ti vuole ricco e povero a un tempo, sempre più povero e ricco. Ti vuole sempre più bene, ti ama sempre di più. E se seguissi del tutto la legge e il comando del tuo essere e fossi pienamente te stesso, vivresti unicamente di questo dono che arriva a te (che sei tu stesso), santamente ridonandolo a tua volta, senza insudiciarlo con l’appropriazione. La tua vita sarebbe un respiro tranquillo e inconscio nel duplice atto di inspirazione ed espirazione dei tuoi polmoni. E tu stesso saresti l’aria che entra e che esce da te nel battito alterno del tempo che passa. Saresti il sangue nel pulsare di un cuore che ti aspira e sospinge, e che ti prende e mantiene entro il cerchio e il corso delle sue arterie.

Tu senti il tempo, e questo cuore non senti? Percepisci la corrente di grazia che ti compenetra col suo rosso colore e calore, e non ti accorgi quanto sei amato? Cerchi una prova, e sei tu stesso la prova. Tu cerchi di prenderlo, lo sconosciuto, nelle maglie della tua conoscenza, e sei tu stesso preso nell’indistricabile rete del suo potere. Vorresti afferrare, comprendere, e già sei afferrato. Vorresti dominare, e sei sopraffatto. Ti spingi avanti a cercare, e sei già da lungo tempo e da sempre trovato. Ti apri brancicando la strada attraverso mille vestiti verso un corpo vivente, ed affermi di non sentire la mano che tocca la tua anima nuda e senza veli? Ti agiti cercando tutt’attorno nella furia del cuore inquieto, e chiami tutto ciò religione, ma si tratta in realtà degli scossoni del pesce già finito nella barca da pesca. Vorresti trovare Dio, pur fra mille dolori: ma che umiliazione venir a sapere che il tuo agire non era che un vuoto rito, perché Dio ti tiene da lungo tempo in sua mano. Metti il tuo dito sul polso vivente dell’essere. Avverti quel battito che nell’unico atto della sua creazione a un tempo ti sfida e ti libera. Nell’immenso sgorgare dell’esistenza esso definisce l’esatta misura che ti distanzia: lo devi amare come il più prossimo dei prossimi e insieme davanti a lui cadere come davanti all’altissimo. Come egli con lo stesso atto per amore ti veste e per amore ti spoglia. Come egli, con l’esistenza, ti mette in mano tutti i tesori e il più prezioso gioiello: poterlo riamare, ridonare, e subito ti toglie ogni cosa donata (subito e non dopo, in un secondo atto, un passo più avanti), affinché possa amare non il dono ma il donatore, e possa sapere che anche donando sei solo un’onda del suo comunicare. Nell’identico istante dell’esistenza tu sei vicino e lontano, hai avuto alla pari un amico e un maestro. Sei alla pari un bambino, un figlio, un servo. Non andrai oltre questo tuo stato primario. Vivrai nell’eternità come ciò che sei allora diventato: giacché dovesse pure la tua virtù, sapienza, amore innalzarsi oltre ogni misura, e tu sorpassare uomini e angeli in alto attraverso tutti i cieli, dal punto di partenza non ti allontani mai. Ma niente è migliore di questo punto primo; lungo il pur lunghissimo arco del tuo sviluppo tu ti pieghi sempre all’indietro verso questa meraviglia dell’origine; perché inconcepibilmente meraviglioso è l’essere dell’amore.

Ma, è vero, la vita mira ad allontanarsi dalla sua origine. Cerca se stessa e crede di trovarsi là dove sarà al sicuro dalla precarietà del suo principio! Troppo insicuro sembra il seme e bisognoso di robuste scorze protettive e troppo vicino al niente l’attimo della generazione. Ma una bronzea legge costringe ogni freccia a ritornare in circolo. In un grande arco liscio sale la vita destandosi a se stessa, vuole affermarsi sulla stretta cresta. Il sangue penetra potente attraverso la porta angusta della vita individua e gonfia il cuore e la mente delle persone. Sospinte dall’ ambizione o dalla missione, le sue mani distribuiscono come fosse da lui creato ciò che a lui arriva da lontano, dalla stirpe, da radici sconosciute. Ma la cima è raggiunta, e mentre per altri il sole ancora sale, il suo sentiero inizia la discesa, emerge un pomeriggio dentro più fresche selve, e lui riode il sussurro, un ruscello piccolo dapprima, ricordi quasi sepolti della gioventù zampillano, e inaspettatamente ecco una cascata che va giù nell’ abisso, nella notte del principio. Ogni curiosa singolarità si discioglie, come di diversi fiumi il corso, in un unico mare della morte e della vita. Nell’unico mare si sollevano e si abbassano le onde, salgono e scendono i corpi, le forme e le generazioni, i secoli si infrangono schiumando contro l’onda dei secoli, cadendo e livellandosi come non mai lungo la piatta spiaggia dell’ eternità.

Significato della nostra vita: riconoscendo dimostrare che noi non siamo Dio. Così noi moriamo arrivando a Dio, giacché Dio è vita eterna. Come l’avremmo toccato altrimenti che con la morte?

La morte nella nostra vita è il pegno che noi attingiamo l’oltrevita. La morte è la riverenza della nostra vita, la cerimonia dell’inchino davanti al trono del Creatore. E poiché la più profonda essenza degli esseri è fatta di lode, di servizio e di riverenza, che essi devono alloro Creatore, una goccia di morte si trova commista in ogni momento dell’ essere. Ma poiché tempo e amore sono così intrecciati, essi amano anche il loro morire, e la loro esistenza non rifiuta il tramonto. E anche se la piccola singola vita si angustia, e l’oscura volontà dell’ ego si erge contro la morte, l’esistenza stessa, la corrente profonda del mare che la fa salire e scendere riconosce la sua padrona e si piega volentieri. Giacché un presentimento, in essa, sa: esiste autunno unicamente perché si prepara una primavera, e volentieri accetta di inaridire in questo mondo ciò che porta la promessa di fiorire in Dio.

Così muore in Dio e in Dio risorge la creatura. Andiamo entusiasti dentro la luce, ne siamo attirati ed ebbri! Ma il fuoco, per tutti inavvicinabile, ci tiene lontani. Cadiamo nelle fiamme, ne veniamo inceneriti, ma la fiamma non uccide, si trasforma in luce ed arde in noi come amore. Amore che, più a fondo, sa: quanto vive in noi si erge in noi come un centro, di cui viviamo, che ci nutre e ci matura, e ci incanta, si veste di noi come di un mantello, di cui ha bisogno l’anima come d’un organo; questo non siamo noi, questo è, in una vicinanza così prossima da non distinguersi, Il Signore in noi! E con l’amore la paura cresce in noi, che un’altra volta ci getta in ginocchio, nella polvere del nulla. Potentemente martella, con voce di tuono ancora più forte del tempo, il cuore dell’ amore. Batte unificando il due nell’uno e dividendo l’uno nel due! Così noi viviamo di Dio: per il fatto che potentemente ci attira nel suo centro ardente e come Signore ci toglie da ogni centro che non sia il suo. Ma non siamo Dio; e per mostrarci con forza maggiore la forza del centro che è il suo ci getta via da sé non soli e inermi, bensì forniti di centro proprio e nella forza della sua missione. Dio pone le sue gelose esigenze a noi, ci vuole per sé e per il suo onniunico onore. Ma carichi del suo amore, e vivendo del suo onore, ci rinvia nel mondo. Poiché non è forse questo il ritmo della sua creazione: che essa esca da Dio per egressus e vi ritorni in regressus là da dove deriva? Le due cose sono piuttosto una sola e indivisa, l’egresso non meno incondizionato del regresso; la missione non meno voluta da Dio della nostalgia. E ancor forse più divina del ritorno a Dio è l’uscita da Dio, giacché questa è la cosa più grande: non che Dio lo conosciamo riflettendolo come lucidi specchi, bensì che lo annunciamo come fiaccole ardenti la luce. lo sono la luce del mondo, Dio dice, e senza di me non potete far nulla. E non esiste né luce né Dio accanto a me. Ma voi siete la luce del mondo, una luce adombrata e non falsa, e ardendo della mia fiamma voi dovete con il mio fuoco accendere il mondo. Uscite fuori e oltre fino alla tenebra estrema, portate il mio amore come agnelli tra lupi, portate la buona novella a coloro che se ne stanno rannicchiati nelle tenebre e nell’ombra di morte. Uscite con rischio e coraggio dall’ovile sicuro; un giorno io vi ho raccolti, quando, agnelli sperduti, sanguinanti tra spine, vi ho portati a casa sulle spalle del Buon Pastore; ma ora il gregge viene disperso, viene allargata la porta della stalla: l’ora della missione è venuta! Via, staccatevi da me, perché io sono con voi fino alla fine del mondo. Poiché io stesso sono uscito dal Padre, e uscendo da lui sono stato obbediente fino alla morte, e obbedendo sono stata la perfetta immagine del suo amore per me. La stessa uscita è l’amore, l’uscita stessa è il ritorno. Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Uscendo da me come il raggio dal sole, l’acqua dalla sorgente, rimanete in me, perché sono io stesso il raggio che riluce, l’acqua che sgorga dal Padre. Dare è meglio che prendere. Come io diffondo il Padre, anche voi dovete diffondere me. Volgete a me il vostro volto affinché io lo possa volgere al mondo. Voi dovete dividervi dalle strade a voi proprie, così che io vi possa mettere sulla strada ch’io sono.

Questo è un nuovo mistero, che la piccola creatura non può intuire: anche la lontananza da Dio e la gelidità del rispetto è similitudine e immagine di Dio e di vita divina. La massima incomprensibilità è la vera realtà: proprio perché tu non sei Dio, sei simile a Dio. E proprio perché sei fuori di Dio, sei in Dio. Poiché aver Dio di fronte, questo stesso è divino. Nell’incomparabilità del tuo io tu rispecchi ciò che è solo di Dio. Giacché anche nell’unità di Dio c’é distanza e rispecchiamento ed eterna missione: Padre e Figlio l’uno di fronte all’ altro e tuttavia un’unica cosa nello Spirito e nella natura sigillo dei Tre. Dio non è soltanto l’archetipo primo, ne è anche l’immagine e la copia. Non soltanto l’Uno è l’Assoluto, è divino anche essere Due, quando il Terzo li lega. In questo Secondo perciò il mondo è stato creato, in questo Terzo esso sussiste e persevera in Dio.

Ma resta inspiegabile il senso della creazione fino a quando il velo rimane sull’immagine eterna. Questa vita sarebbe solo destino, questo tempo solo melanconia, perituro ogni amore, se il battito dell’ essere non pulsasse nella vita eterna trinitaria. Solo allora la sorgente della vita può scaturire anche in noi, in noi raccontata dal Verbo, diventa essa stessa verbo, parola e lingua, ci trasmette come un saluto da Dio il compito di annunciare il Padre nel mondo. Solo allora la maledizione della solitudine è dissolta, perché essere l’uno di fronte all’ altro è esso stesso divino, e ogni essere, uomo e donna e bestia e sasso non sono esclusi nella loro individualità dalla vita universa, ma sono fatti gli uni per gli altri, non rinchiusi in buie prigioni, da cui una nostalgia oppressiva suggerisce di sottrarsi in lontananze senza confini. Piuttosto essi sono come messaggeri di Dio e in reciproca integrazione splendidamente creativa, avendo preso la forma arrotondata di un corpo il cui capo riposa nel grembo del Padre.

Allora batti pure, o cuore dell’essere, o polso del tempo! Strumento di amore infinito! Tu ci rendi ricchi, ci rendi poi di nuovo poveri; tu ci attiri, poi ti sottrai di nuovo; ma noi siamo, ondeggianti su e giù a te aggrappati. Tu fai sentire su di noi il tuono della tua maestà, taci sopra di noi con il silenzio delle tue stelle, ci riempi e ricolmi fino all’orlo, e ci svuoti e ci scavi da sotto fino all’ultima goccia. E tuonando, tacendo, riempiendo, svuotando tu sei il Signore e noi i tuoi servi.

Holy Mary of Mout Carmel

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Publié dans:immagini sacre |on 16 juillet, 2012 |Pas de commentaires »
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