SAN GIACOMO APOSTOLO

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25 LUGLIO: SAN GIACOMO APOSTOLO – VITA E TRADIZIONE
E’ detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo (detto il Minore). Nato a Betsaida, sul lago di Tiberiade, era figlio di Zabedeo e si Salome (Mc 15,40; cf Mt 27,56) e fratello di Giovanni l’evangelista. Col fratello fu chiamato fra i primi discepoli di Gesù e fu pronto a seguirlo (Mc 1,19s; Mt 4,21s; Lc 5,10). È sempre messo fra i primi tre Apostoli (Mc 3,17; Mt 10,2; Lc 6,14; Atti 1,13). Di carattere pronto e impetuoso, come il fratello, assieme a lui viene soprannominato da Gesù “Boànerghes” (figli del tuono) (Mc 3,17; Lc 9,52-56). E’ tra i prediletti discepoli di Gesù, assieme al fratello, a Pietro e ad Andrea
Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36), della risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37-43; Lc 8,51-56); Assiste all’improvvisa guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31); con gli altri 3 apostoli interroga Gesù sui segni dei tempi premonitori della fine (Mc 13,1-8). Infine con Pietro e Giovanni è chiamato da Gesù a vegliare nel Getmsemani alla vigilia della Passione (Mc 14,33ss; Mt 27,37s).
Con zelo intempestivo, aveva chiesto di far scendere il fuoco sui Samaritani che non accoglievano Gesù, meritando un rimprovero (Lc 9,51-56). Ambiziosamente mirò ai primi posti nel regno, protestandosi pronto a tutto; e suscitò la reazione degli altri apostoli e il richiamo di Gesù a un altro primato: quello del servizio e del martirio (Mc 10,35-45; Mt 20,20-28). E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. “Il re Erode (Agrippa I) cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni” (Atti 12,1-2.
Una tradizione risalente almeno a Isidoro di Siviglia narra che Giacomo andò in Spagna per diffondere il Vangelo.
Ai tempi di Giacomo si svolgeva un intenso commercio di minerali come lo stagno, l’oro, il ferro ed il rame dalla Galizia alle coste della Palestina. Nei viaggi di ritorno venivano portati oggetti ornamentali, lastre di marmo, spezie ed altri prodotti comperati ad Alessandria ed in altri porti ancora più orientali, di grande importanza commerciale. Si pensa che l’Apostolo abbia realizzato il viaggio dalla Palestina alla Spagna in una di queste navi, sbarcando nelle coste dell’Andalusia, terra in cui cominciò la sua predicazione. Proseguì la sua missione evangelizzatrice a Coimbra e a Braga, passando, secondo la tradizione, attraverso Iria Flavia nel Finis Terrae ispanico, dove proseguì la predicazione.
Nel Breviario degli Apostoli (fine del VI secolo) viene attribuita per la prima volta a San Giacomo l’evangelizzazione della “Hispania” e delle regioni occidentali, si sottolinea il suo ruolo di strumento straordinario per la diffusione della tradizione apostolica, così come si parla della sua sepoltura in Arca Marmárica. Successivamente, già nella seconda metà del VII secolo, un erudito monaco inglese chiamato il Venerabile Beda, cita di nuovo questo avvenimento nella sua opera, ed indica con sorprendente esattezza il luogo della Galizia dove si troverebbe il corpo dell’Apostolo.
La tradizione popolare indica la presenza del corpo di San Giacomo nelle cime prossime alla valle di Padrón, ove esisteva il culto delle acque. Ambrosio de Morales nel XVI secolo, nella sua opera il Viaggio Santo dice:” Salendo sulla montagna, a metà del fianco, c’è una chiesa dove dicono che l’Apostolo pregasse e dicesse messa, e sotto l’altare maggiore si protende sin fuori della chiesa una sorgente ricca d’acqua , la più fredda e delicata che abbia provato in Galizia”. Questo luogo esiste attualmente ed ha ricevuto il nome affettuoso di “O Santiaguiño do Monte”. Uno degli autori dei sermoni raccolti nel Codice Calixtino, riferendosi alla predicazione di San Giacomo in Galizia, dice che ” colui che vanno a venerare le genti, Giacomo, figlio di Zebedeo, la terra della Galizia invia al cielo stellato”.
Il ritorno in Terra Santa, si svolse lungo la via romana di Lugo, attraverso la Penisola, passando per Astorga e Zaragoza, ove, sconfortato, Giacomo riceve la consolazione ed il conforto della Vergine, che gli appare (secondo la tradizione il 2 gennaio del 40), secondo la tradizione, sulle rive del fiume Ebro, in cima ad una colonna romana di quarzo, e gli chiede di costruire una chiesa in quel luogo. Questo avvenimento servì per spiegare la fondazione della Chiesa di Nuestra Señora del Pilar a Zaragoza, oggi basilica ed importante santuario mariano del cattolicesimo spagnolo. Da questa terra, attraverso l’Ebro, San Giacomo probabilmente si diresse a Valencia, per imbarcarsi poi in un porto della provincia di Murcia o in Andalusia e far ritorno in Palestina tra il 42 ed il 44 d.C..
Oramai in Palestina, Giacomo, assieme al gruppo dei “Dodici”, entra a far parte delle colonne portanti della Chiesa Primitiva di Gerusalemme, ricoprendo un ruolo di grande importanza all’interno della comunità cristiana della Città Santa. In un clima di grande inquietudine religiosa, dove di giorno in giorno aumentava il desiderio di sradicare l’incipiente cristianesimo, sappiamo che fu proibito agli apostoli di predicare. Giacomo tuttavia, disprezzando tale divieto, annunciava il suo messaggio evangelizzatore a tutto il popolo, entrando nelle sinagoghe e discutendo la parola dei profeti. La sua gran capacità comunicativa, la sua dialettica e la sua attraente personalità, fecero di lui uno degli apostoli più seguiti nella sua missione evangelizzatrice.
Erode Agrippa I, re della Giudea, per placare le proteste delle autorità religiose, per compiacere i giudei ed assestare un duro colpo alla comunità cristiana, lo sceglie in quanto figura assai rappresentativa e lo condanna a morte per decapitazione. In questo modo diventa il PRIMO MARTIRE DEL COLLEGIO APOSTOLICO. Questa del martirio di San Giacomo il Maggiore è l’ultima notizia tratta dal Nuovo Testamento.
Secondo la tradizione, lo scriba Josias, incaricato di condurre Giacomo al supplizio, è testimone del miracolo della guarigione di un paralitico che invoca il santo. Josias, turbato e pentito, si converte al cristianesimo e supplica il perdono dell’Apostolo: questi chiede come ultima grazia un recipiente pieno d’acqua e lo battezza. Ambedue verranno decapitati nell’anno 44.
Dice la leggenda che due dei discepoli di San Giacomo, Attanasio e Teodoro, raccolsero il suo corpo e la testa e li trasportarono in nave da Gerusalemme fino in Galizia. Dopo sette giorni di navigazione giunsero sulle coste della Galizia, ad Iria Flavia, vicino l’attuale paese di nome Padrón.
Nel racconto della sepoltura dei resti di San Giacomo, impregnato di leggenda, appare Lupa, una dama pagana ricca ed influente, che viveva allora nel castello Lupario o castello di Francos, a poca distanza dall’attuale Santiago. I discepoli, alla ricerca di un terreno dove seppellire il loro maestro, chiesero alla nobildonna il permesso di inumarlo nel suo feudo. Lupa li rimette alla decisione al governatore romano Filotro, che risiedeva a Dugium, vicino Finisterra. Ben lungi dall’intendere le loro ragioni, il governatore romano ordina la loro incarcerazione.
Secondo la tradizione, i discepoli furono liberati miracolosamente da un angelo e si dettero alla fuga inseguiti dai soldati romani. Giunti al ponte di Ons o Ponte Pías, sul fiume Tambre, ed attraversatolo, questo crollò provvidenzialmente permettendogli di fuggire. La regina Lupa, simulando un cambio di atteggiamento, li portò al Monte Iliciano, oggi noto col nome di Pico Sacro, e gli offrì dei buoi selvaggi che vivevano in libertà ed un carro per trasportare i resti dell’Apostolo da Padrón fino a Santiago. I discepoli si avvicinarono agli animali che, dinnanzi agli occhi esterrefatti di Lupa, si lasciarono porre di buon grado il giogo. La regina dopo quest’esperienza decide di abbandonare le sue credenze per convertirsi al cristianesimo.
Narra la leggenda che i buoi cominciarono il loro cammino senza ricevere nessuna guida, ad un certo punto si fermarono per la sete ed iniziarono a scavare con i loro zoccoli il terreno, facendone zampillare poco dopo dell’acqua. Si trattava dell’attuale sorgente del Franco, vicino al Collegio Fonseca, luogo dove posteriormente sarà edificata, in ricordo, la piccola cappella dell’Apostolo, nell’attuale “rua del Franco”. I buoi proseguirono il loro cammino e giunsero in un terreno di proprietà di Lupa, che lo donò per la costruzione del monumento funerario. In quel medesimo luogo, secoli dopo fu costruita la cattedrale, centro spirituale che presiede la città di Santiago.
Quando poi la Spagna cade in mano araba (sec. IX), nell’angoscia dell’occupazione, i cristiani spagnoli tributano a San Giacomo un culto fiducioso e appassionato, facendo di lui il sostegno degli oppressi e addirittura un combattente invincibile, ben lontano dal Giacomo evangelico (a volte lo si mescola all’altro apostolo, Giacomo di Alfeo). La fede nella sua protezione è uno stimolo enorme in quelle prove durissime. E tutto questo ha un riverbero sull’Europa cristiana, che già nel X secolo inizia i pellegrinaggi a Compostela. Ciò che attrae non sono le antiche, incontrollabili tradizioni sul santo in Spagna, ma l’appassionata realtà di quella fede, di quella speranza tra il pianto, di cui il luogo resta da allora affascinante simbolo. Nel 1989 Giovanni Paolo II va pellegrino a Santiago de Compostella e Benedetto XVI lo imita il 6 novembre 2010 in occasione, come il predecessore, dell’Anno Santo Compostellano che viene indetto ogni qualvolta il 25 luglio cade di domenica.
Eccezionalmente dal 22 al 25 luglio 2010 la Penitenzieria Apostolica della Santa Sede ha concesso all’Oratorio di San Giacomo a Levanto di essere Porta Santa come a Santiago e tutti i fedeli che secondo le regole prescritte si recavano in pellegrinaggio al Colle della Costa potevano lucrare tutte le indulgenze che la Chiesa attribuisce in queste occasioni al Santuario Galliziano.
ETIMOLOGIA: Giacomo è un nome di origine ebraica e significa “Dio ti protegga”. Esistono circa 50 santi e beati con questo nome, ma il più popolare è San Giacomo Apostolo detto Maggiore. La sua festa si celebra il 25 luglio. Giacomo esiste anche in versione femminile – Giacoma, inoltre in forme derivanti: Giacobbe, Jacopo, Iacopo, (soprattutto in Toscana) , Jakob (tedesco, polacco), James (inglese), Jacques (francese) Iago (spagnolo).
PATRONATI: San Giacomo è patrono e protettore di numerose città e paesi, fra altri : Pisa, Pesaro, Pistoia, Compostela, Spagna, Portogallo, Guatemala
E’ considerato Patrono di pellegrini, viandanti e questuanti, farmacisti, droghieri, cappellai e calzettai; va invocato contro i reumatismi e per il bel tempo.
EMBLEMA: Il suo attributo principale è il bastone e la zucca, attributi secondari possono essere: otre e la borsa da pellegrino, vestito e cappello da pellegrino, conchiglia.
http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio12.htm
“SE MORIAMO CON CRISTO…” (2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7)
(Lectio divina 12)
Introductio:
Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito Santo.
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.
Lectio.
Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.
Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.
Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.
Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.
Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!
Amen.
http://www.figlididio.it/communio/charbel/charbel.html
24 luglio (mf): San Charbel Makhlouf
Non è semplice scrivere di San Charbel Makhlouf, un monaco appartenente all’Ordine Libanese Maronita, vissuto nel secolo scorso ed elevato alla Gloria degli altari da Paolo VI il 9 ottobre 1977, non tanto per i suoi miracoli o per i fatti prodigiosi o eclatanti avvenuti durante la sua vita e dopo la sua morte, quanto per le sue virtù eroiche che permettono a noi occidentali di conoscere meglio l’intensa spiritualità della Chiesa Orientale.
La vita di questo Santo merita di essere maggiormente conosciuta anche in occidente, specialmente fra le nuove generazioni che sono alla ricerca di una nuova e intensa spiritualità, come dimostrano l’aumento delle vocazioni negli Ordini monastici contemplativi. Se riusciremo a comprendere il messaggio che San Charbel ci ha lasciato siamo certi che questi potrà essere un valido aiuto per tutti i credenti.
La vita
Il nostro Santo nacque in Beqakafra, paese distante 140 Km. della capitale del Libano, Beirut, l’otto di maggio dell’anno 1828.
Quinto figlio di Antun Makhlouf e Brigitte Chidiac, una pia famiglia di contadini. Otto giorni dopo la sua nascita ricevette il battesimo nella chiesa di Nostra Signora del suo paese, dove i suoi genitori gli imposero il nome di Yusef (Giuseppe). I primi anni trascorsero in pace e tranquillità, circondato della sua famiglia e soprattutto dell’insigne devozione di sua madre, che per tutta la sua vita praticò con la parola e le opere la sua fede religiosa, dando esempio ai suoi figli che crebbero così nel santo timore di Dio.
A tre anni, il padre di Yusef fu arruolato dall’Esercito turco che combatteva in quel momento contro le truppe egizie. Suo padre muore ritornando a casa dalla guerra e sua madre, passato po’ di tempo, si risposa con un uomo devoto e perbene che successivamente riceverà il diaconato. Yusef aiutò sempre il suo patrigno in tutte le cerimonie religiose, rivelando fin dal principio un raro ascetismo ed una inclinazione alla vita di preghiera.
Infanzia
Yusef imparò le prime nozioni nella scuola parrocchiale del suo paese, in una piccola stanza adiacente alla chiesa. All’età di 14 anni si dedica a curare un gregge di pecore vicino alla casa paterna; in questo periodo iniziano le sue prime e autentiche esperienze riguardanti la preghiera: si ritirava costantemente in una caverna che aveva scoperto vicino ai pascoli e lì passava molte ore in meditazione, ricevendo spesso le burle degli altri ragazzi come lui pastori della zona. A parte il suo patrigno (diacono), Yusef ebbe due zii da parte di madre che erano eremiti appartenenti all’Ordine Libanese Maronita, e da essi accorreva con frequenza, trascorrendo molte ore in conversazioni, riguardanti la vocazione religiosa e il monachesimo.
La vocazione
All’età di 20 anni, Yusef è un uomo fatto, sostegno della casa, egli sa che presto dovrà contrarre matrimonio, tuttavia resiste all’idea e prende un periodo di attesa di tre anni, nei quali ascoltò la voce di Dio: « Lascia tutto, vieni e seguimi ». Si decide, e senza salutare nessuno, nemmeno sua madre, una mattina del 1851 si dirige al convento della Madonna di Mayfouq, dove sarà ricevuto prima come postulante e poi come novizio, facendo una vita esemplare sin dal primo momento, soprattutto riguardo all’obbedienza. Qui Yusef prese l’abito di novizio e rinunziò al suo nome originale per scegliere quello di Charbel, un martire di Edessa vissuto nel secondo secolo.
Studi da sacerdote
Passato qualche tempo lo trasferirono al convento di Annaya, dove professò i voti perpetui come monaco nel 1853. Subito dopo, l’obbedienza lo portò al monastero di San Cipriano di Kfifen, dove realizzò i suoi studi di filosofia e teologia, facendo una vita esemplare soprattutto nell’osservanza della Regola del suo Ordine. Fu ordinato sacerdote il 23 luglio 1859 da parte di Mons. Jose al Marid, sotto il patriarcato di Paulo Massad, nella residenza patriarcale di Bkerke. Ordinato da poco tempo, padre Charbel ritornò al monastero di Annaya per ordine dei suoi superiori. Lì passò lunghi anni, sempre come esempio per tutti i suoi confratelli nelle diverse attività che lo coinvolgevano: l’apostolato, la cura dei malati, la cura delle anime ed il lavoro manuale.
L’eremita
Così trascorse la sua vita in comunità. Tuttavia, egli anelava ardentemente ad essere eremita, e per questo chiese l’autorizzazione al superiore, il quale vedendo che Dio era con lui redasse l’autorizzazione il 13 di febbraio del 1875. Charbel rimase eremita fino al giorno della sua morte avvenuta la vigilia di Natale dell’anno 1898.
Nell’eremo dei Santi Pietro e Paolo, il P. Charbel si dedicò al colloquio intimo con Dio, perfezionandosi nelle virtù, nella ascesi, nella santità eroica, nel lavoro manuale, nella coltivazione della terra, nella preghiera (Liturgia delle ore 7 volte al giorno), e nella mortificazione della carne, mangiando una volta al giorno e portando il cilicio. Padre Charbel raggiunse la fama dopo la sua morte, iniziando con il prodigio del suo corpo incorrotto che sudava sangue ed emanava una luce misteriosa. Fenomeni osservati e constatati non solo dai membri del suo Ordine, ma dal popolo che cominciò a venerarlo come Santo anche quando la gerarchia ed i superiori ne avevano proibito il culto, in attesa che la Chiesa pronunciasse il suo verdetto.
Beatificazione e canonizzazione
Col passare del tempo, ed in vista dei miracoli che avvenivano e del culto di cui era oggetto, il padre Superiore Generale, Ignacio Dagher, andò a Roma nel 1925 per sollecitare Papa Pio XI all’apertura del processo di beatificazione. Durante la chiusura del concilio Vaticano II, il 5 di dicembre di 1965, Papa Paolo VI, beatificò padre Charbel con le seguenti parole: « Un eremita della montagna libanese è iscritto nel numero dei Venerabili… un nuovo membro di santità monastica arricchisce con il suo esempio e con la sua intercessione tutto il popolo cristiano. Egli può farci capire in un mondo affascinato per il comfort e la ricchezza, il grande valore della povertà, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio ».
Il 9 di ottobre di 1977 durante il sinodo mondiale di vescovi, lo stesso Papa canonizzò il Beato Charbel, elevandolo agli altari con il seguente formula: « In onore della Santa ed Unica Trinità per esaltazione della fede cattolica e promozione della vita cristiana, con l’autorità del Nostro Signore Gesù Cristo e dei venerabili Apostoli Pietro e Paolo, e nostra, dopo matura riflessione e implorando l’intenso aiuto divino… decretiamo e definiamo che il Beato Charbel Makhlouf è Santo, e lo iscriviamo nel Libro dei Santi, stabilendo che sia venerato come Santo con pietosa devozione in tutta la Chiesa. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».
Innamorato dell’Eucaristia e del Santa Vergine Maria, San Charbel modello ed esempio di vita consacrata, è considerato l’ultimo dei Grandi Eremiti. I suoi miracoli sono molteplici e chi si affida alla sua intercessione, non resta deluso, ricevendo sempre il beneficio della Grazia e la guarigione del corpo e dell’anima.
« Il giusto fiorirà, come una palma, si alzerà come un cedro del Libano, piantato nella casa del Signore » (Sal 91(92)13-14).
I miracoli
In vita San Charbel non ha compiuto numerosi miracoli, anche se era un uomo di grande fede e spiritualità e molte persone si recavano nel suo eremo per chiedere preghiere e grazie.
Charbel era un monaco orientale e un eremita, seguiva la tradizione dei Padri del deserto e come tale rifiutava il contatto con la gente per stare nella solitudine e quindi si potrebbe dire che non aveva, in pratica, l’occasione di compiere miracoli.
Tuttavia vogliamo, ricordare un episodio prodigioso del quale sono stati testimoni i suoi confratelli e avvenuto prima di ritirarsi nel suo eremo.
Una sera Charbel tardò a rientrare in convento e per questo non aveva fatto in tempo a farsi consegnare l’olio per la sua lampada; il frate dispensiere per punirlo di questa mancanza, si rifiutò di fare la consegna dopo l’orario prescritto.
Il Padre Charbel rientrò nella sua cella e casualmente il dispensiere notò che nonostante l’ora tarda la finestra era illuminata. Chiamò quindi il Superiore e con questi si recò dal Santo che con la lanterna accesa stava leggendo il breviario. Il Superiore rimproverò Charbel per l’infrazione alla Regola chiedendogli: « Perché tenete la lanterna accesa a quell’ora? Non avete fatto il voto di povertà? ». Padre Charbel si prostrò in ginocchio, chiese perdono al Superiore e rispose che durante la giornata non avuto tempo di leggere l’Uffizio e che quindi lo faceva ora.
A questo punto il dispensiere disse che lui non gli aveva dato l’olio e il Superiore interrogò Charbel in proposito per sapere dove si fosse procurato il combustibile. Questi dopo molte insistenze disse che vi aveva messo un po’ d’acqua.
Il Superiore che credeva soltanto ai propri occhi prese in mano la lanterna che immediatamente si spense. L’aprì, versò il contenuto sul pavimento, e alla luce di una candela constatò che era acqua! Il Superiore rimase interdetto e uscendo dalla cella fra lo sgomento gli disse: « Pregate per me ».
Contrariamente a quanto accade di solito, la fama di santità di Charbel si manifestò pienamente dopo la sua morte. La sua salma fu sepolta nel cimitero di Anaya, dove riposa tuttora e qui è stato anche edificato un santuario in suo onore. Alcune persone dalle case vicine cominciarono e vedere una luce che usciva dal luogo di sepoltura di San Charbel. La notizia iniziò a diffondersi e con essa le prime affermazioni della santità, finché il Superiore si recò di persona nelle case vicine al cimitero dove constatò l’esistenza di questa luce misteriosa.
A questo punto i frati decisero di aprire la tomba; trovarono il corpo di Charbel leggermente coperto di muffa ma sostanzialmente integro nonostante fossero trascorsi circa quattro mesi dalla morte e dallo stesso usciva una sostanza biancastra mista a sangue che nessun medico anche in epoche successive è riuscito a spiegare e a catalogare. Tale fenomeno è presente anche ai nostri giorni.
Poiché la fama di santità di Charbel si era notevolmente diffusa e anche per timore che il corpo potesse essere trafugato, cosa frequente a quell’epoca, i monaci decisero di trasferire la salma in un luogo più sicuro e segreto anche per evitare che fosse oggetto di devozione da parte dei fedeli.
È noto che per la Chiesa simili manifestazioni di per sé sono insufficienti a stabilire la santità, perché essa si basa sulle opere che il Santo ha fatto in vita e se queste possono essere un valido esempio per le generazioni future. Vista comunque la crescente fama di Santità di padre Charbel e i numerosi miracoli che gli venivano attribuiti, nel 1926 il Patriarca Maronita presentò a Roma la documentazione necessaria per iniziare una causa di beatificazione.
I miracoli validi per la beatificazione riguardano la guarigione prodigiosa di Suor Marie-Abel Kamari della congregazione del Sacro Cuore affetta da una gravissima forma di ulcera che guarì istantaneamente il 12 luglio 1950 mentre stava pregando sulla tomba del Santo e l’altro riguarda un certo Iskandar Nalm Obeid, de Baabdate che nel 1937 aveva perso l’uso di un occhio,e ora stava perdendo anche l’altro, riacquistò la vista mentre stava pregando a Anaya sulla tomba di Charbel.
Per la santificazione fu presentata la prodigiosa guarigione di Myriam Aouad, de Mammana affetta da un incurabile cancro alla gola fu guarita nel 1967. Numerosi sono i miracoli, le grazie e i fatti prodigiosi attribuiti all’intercessione di Charbel. Nell’apposito registro conservato nel convento di Annaya sono raccolti centinaia di racconti e le migliaia di lettere provenienti da tutto il mondo che testimoniano le grazie ricevute dai fedeli e non solo cristiani ma anche musulmani.
Di tutti questi ne vogliamo ricordare soltanto uno che ci sembra particolarmente significato perché « autenticato » dalla setta musulmana dei Drusi. Un ragazza, certa Hosn Mohair era nata con una gamba di 5 o 6 centimetri più corta dell’altra, questa imperfezione la faceva zoppicare vistosamente. Un giorno si recò ad Anaya e ritornò portando a casa dell’acqua benedetta e della terra che aveva raccolto presso la tomba del Santo e con questo impasto cominciò a massaggiare la gamba difettosa. I familiari, non vedendo per diversi giorni alcun esito da questa cura cercavano di dissuaderla, ma la ragazza spinta da una fede incrollabile continuò, finché la gamba difettosa raggiunse la stessa lunghezza dell’altra; cosa che gli permise di camminare normalmente. I notabili del villaggio, drusi, che la conoscevano personalmente, rilasciarono nel 1950 delle dichiarazioni giurate attestanti il fatto prodigioso.
Le virtù
In occidente l’apostolato viene fatto principalmente attraverso l’azione e i Santi si distinguono oltre che per la loro intensa spiritualità anche per mezzo delle opere di misericordia, come curare gli infermi, educare la gioventù, alleviare i bisogni della povera gente.
Diversa è la tradizione orientale dove si raggiunge la perfezione non con le opere, ma per mezzo di un continua e costante ricerca interiore di Dio seguendo il concetto che salvando la propria anima si salva il mondo.
Il monaco in oriente non ha doveri pastorali, ma dà il suo esempio con la vocazione, la vita ascetica, le preghiere, le penitenze e con la pratica eroica della virtù. Il monaco quindi deve restare accanto al popolo cristiano, non materialmente, bensì spiritualmente per insegnare il cammino verso la perfezione per mezzo della quale si può raggiungere il Padre Celeste.
Non è quindi l’asceta che va verso il mondo, ma sono gli uomini che vanno verso di lui per riceverne consigli, esempi, migliorarsi, edificarsi, per ottenere benefici materiali e spirituali grazie ai doni divini che possiede soltanto chi è veramente consacrato a Dio. L’ eremita vive completamente distaccato dal mondo perché le passioni, i peccati e le imperfezioni degli uomini possono intralciare l’asceta nella sua assoluta ricerca di perfezione. Quindi la solitudine diventa il mezzo attraverso il quale l’asceta in fuga dal mondo trova la pace interiore e la perfetta unione con Dio.
Ma nella sua vita Charbel non si è limitato a fare tutto questo, egli ha vissuto in modo eroico i voti che aveva pronunciato fin dal primo momento della sua ordinazione.
Certamente anche lui avrà sentito il richiamo dei sensi e avrà combattuto per conservare la sua purezza. I Padri del deserto dicevano a proposito dei pensieri impuri: « se non hai pensieri di tal natura sei un uomo senza speranza; infatti se non hai pensieri di tal natura è segno che tu compi delle azioni ».
Non possiamo certamente sapere se Charbel abbia subito delle violente tentazioni, ma sappiamo che egli faceva di tutto per evitarle. Si rifiutava di parlare con le donne e fra queste erano escluse anche i membri della sua famiglia e non solo evitava perfino di incontrarle sul cammino. Le donne che vivevano intorno al convento Annaya sapevano che il Santo non gradiva la loro presenza e anche loro collaboravano cercando di non incontrarlo oppure nascondendosi al suo apparire.
Anche nella povertà di Charbel era molto rigido, egli non possedeva assolutamente nulla e niente chiedeva, non voleva nemmeno toccare il denaro e quando qualcuno gli lasciava una elemosina, chiamava un suo confratello affinché prendesse i soldi e li consegnasse al Superiore. Si racconta che un giorno il Superiore vedendolo con il saio logoro e malandato gli disse di andare dal fratello sarto per farsene cucire uno nuovo, ma Charbel rispose che quell’abito per lui andava bene mentre era praticamente inservibile, e per far indossare a Charbel un nuovo vestito il Superiore fu costretto a ordinarglielo.
L’obbedienza fu certo la virtù eroica più eclatante del Santo, egli obbediva senza discutere a qualsiasi ordine ricevuto e non solo dai suoi superiori, ma anche dai confratelli e dagli stessi operai del monastero. Tutti potevano comandare padre Charbel. Egli anche quando era un monaco anziano, e poteva non svolgere determinate mansioni, non solo non chiedeva di essere dispensato, ma sceglieva i lavori più umili e fastidiosi. Quindi padre Charbel lavava i piatti, puliva i pavimenti, aiutava gli inservienti del monastero nei lavori meno gratificanti.
Tutto questo dimostra anche l’umiltà del Santo, che nonostante fosse una persona dotta e intelligente in molte occasioni aveva rifiutato importanti incarichi che il suo Ordine gli voleva conferire, dicendo sempre che esistevano persone migliori di Lui per svolgere tali mansioni.
Il Cardinale Paolo Pietro Méouchi, Patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente scrisse a Mons. Salvatore Garofano, Rettore Magnifico della Pontificia Università Urbaniana « De Propaganda Fide » e autore della biografia del Santo redatta in lingua italiana (« Il profumo del Libano » Roma 1977), questa lettera che sintetizza mirabilmente la spiritualità e le virtù del Santo:
Nel dramma dove, attraverso la storia, il mondo si dibatte, i Santi conservano i riflessi di Colui che è nominato « La luce del mondo », Gesù Cristo.
Nell’ultima decade del IXX secolo dove il vento del razionalismo soffia spesso, sul Libano, una sentinella, il monaco Charbel Makhlouf monta la guardia sulla Santa montagna, per affermare nella semplicità del credente e con la presenza di Dio di un anima innamorata che il dramma che scuote l’umanità, nel suo pellegrinaggio terrestre, non trova la sua soluzione che nel ritorno verso le regioni profonde dell’anima dove abita la Santissima Trinità.
Sempre, nella storia della spiritualità orientale si sono opposte la gnosi dei sapienti e la fede dei semplici. Gli gnostici che cercano di mettere Dio nei limiti della ragione trovano davanti a loro delle anime che preferiscono ritrovare il Creatore sulla via del cuore e dell’esperienza, la via, senza esclusione della dotta ignoranza, che si nutre alle grandi fonti della Sacra Scrittura, dei Padri del deserto e della teologia morale. Così faceva San Charbel Makhlouf.
In una spogliazione totale del mondo e soprattutto della propria mente, questo monaco semplice e generoso, ha preferito la pienezza di Dio all’illusione delle ricchezze del mondo. Egli ha messo in pratica che l’avere non è niente e che l’essere è tutto. Dio, la semplicità stessa, non ha niente, ma è l’Assoluto. Così nella fuga dal mondo – questa è d’altronde una delle caratteristiche della spiritualità orientale – Charbel ha voluto stabilire con i suoi prediletti il dialogo della fiducia, della presenza e dell’amore. Egli si sentiva costantemente chiamato dal Cristo Salvatore a ritirarsi nella profondità, e i suoi occhi che si chiudono al mondo, si aprono a delle ricchezze insondabili e divine, che nessun occhio ha visto e nessun orecchio ha sentito. (I Cor. 2,9).
Bisogna credere allora che il nostro monaco abbia vissuto la sua gioia crocefisso da un anima tesa costantemente a convertirsi e a fare penitenza in unione con la croce vittoriosa, nell’egoismo di colui che fissato sull’Assoluto, non ha più cura dei miserabili che vivono sulla terra le loro strane avventure? Ma no! Charbel ritrova la Chiesa nel suo pellegrinaggio spirituale. Che cosa hanno valso delle mortificazioni eroiche, incomprensibili a volte, talmente esse erano eccessive, se esse non erano per riparare se non dei peccati personali come dicevano i Padri della Chiesa, ma i peccati degli altri, di cui si è solidali per l’edificazione delle stesso ed unico Corpo Mistico di Gesù Cristo?
Questo bene, queste strade della profondità che ha praticato Charbel Makhlouf nella sua esistenza, dimentico del mondo, ma che Dio doveva glorificare con dei prodigi inauditi e senza nome, giacché i valori di questa terra si sono lacerati e la fede ha lasciato il posto alla visione.
http://gesu.altervista.org/doc/sbrigida/santabrigida.html
23 LUGLIO: SANTA BRIGIDA DI SVEZIA
BIOGRAFIA
23 luglio (f): Santa Brigida di Svezia (1302-1373)
Bella come le principesse delle saghe nordiche, questa bionda donna svedese fu una bambina felice, una ragazza brillante e una padrona di casa oculata. Crebbe otto figli, tra cui una femmina che fu canonizzata; fondò un ordine monastico oggi diffuso in tre continenti; viaggiò moltissimo e, in particolare, fu «il Portavoce, l’Araldo di Dio» in una Chiesa ferita, in un secolo tormentato come il nostro, quello della Guerra dei Cent’anni. Colei che venne chiamata «la mistica del Nord», oggi conosciuta soprattutto grazie alle Quindici orazioni di Nostro Signore, fu celebre a suo tempo per le Rivelazioni celesti e per il ruolo di primo piano svolto presso papi e dirigenti politici svedesi ed europei in genere.
L’infanzia: 1302
Brigida nacque il 14 giugno 1302 nel Castello di Finsta, sulle sponde di un lago nella provincia di Uppland di cui il padre era siniscalco. Era la figlia maggiore nata dal secondo matrimonio fra Birger Persson, uno dei personaggi più importanti della Svezia, e Ingeborg Bengsdotter, imparentata con i re goti attraverso la famiglia regnante dei Folkung. Brigida crebbe in questo paese dove gli inverni sono lunghi, le primavere rapide e le notti estive miti, un paese molto poetico che risuona di leggende di foreste e laghi. Sebbene il nome Brigida significhi «altissima» in celtico e «brillante» in sassone, nei primi tre anni di vita la bambina non brillò affatto; era ritenuta muta, ma quando la lingua le si sciolse, la piccola parlò come un’adulta, segno di un carattere riflessivo e molto temprato. Leggere, scrivere, filare, ricamare, assistere alla messa mattutina nella cappella signorile, ascoltare i racconti della madre sui santi evangelizzatori della Svezia – in particolare Sant’Anskar di Piccardia -, correre nei boschi e sui prati, e raccogliersi fra le rocce di Finsta, nella «grotta della preghiera di Santa Brigida»: fu questa la vita della bambina fino alla morte della madre, avvenuta nel 1314. Ma Brigida non aveva ancora compiuto dieci anni quando, una notte, la Vergine le apparve tenendo in mano una corona e le chiese: «La vuoi?» Poi giunse la promessa celeste. La mamma di Brigida, venuta a conoscenza della cosa, favorì la devozione della bambina lasciando che ascoltasse delle belle prediche. Una di queste diede alla piccola una tale idea delle sofferenze di Cristo, che una sera Brigida non riuscì a prendere sonno; all’improvviso, Brigida ebbe una visione così vivida della croce su cui Gesù sembrava essere stato inchiodato da poco, avvolta da un immensa luce, che la bambina gridò: «Signore, chi ti ha fatto questo?». La risposta divina fu: «Chi disprezza e dimentica il mio amore!». Da allora la Passione di Gesù alimentò in Brigida un amore così profondo, che ella non poteva ricordarsene senza piangere. Non a caso la Croce sarà l’elemento centrale di tutte le sue meditazioni, e il giorno in cui Brigida manifesterà la grande vocazione che c’è in lei, seguirà le tracce del suo Salvatore. Alla morte della madre, Brigida ha dodici anni e viene affidata alla zia Caterina, castellana d’Aspenas, la quale una notte trova la nipote inginocchiata ai piedi del letto. Disobbedienza? Capriccio? La verga sollevata per punire la giovane si spezza. Allora, la donna spaventata domanda: «Cosa fai lì?». Brigida risponde: «Ringraziavo colui che mi aiuta sempre». «Chi è?». «L’uomo che ho visto in croce». La zia resta perplessa. Poco tempo dopo, Brigida, intenta a ricamare un disegno difficile nel salone del castello, invoca addolorata l’aiuto della Vergine Maria. Allora donna Caterina vede, china sul lavoro, una giovane donna dalla bellezza straordinaria, che scompare lasciando meravigliosi fiori e frutti disegnati e adorni di colori. Domande e stupore! Brigida non ha visto nessuno, ma questa volta la zia custodisce la reliquia. Dei miracoli per questa bambina!… Sempre a quel tempo, una visione del diavolo, creatura informe con un numero infinito di piedi e di mani, terrorizza la bambina. Brigida cerca rifugio nella sua camera, ai piedi del crocifisso, ed è confortata dalla certezza che sotto la protezione della croce non avrà mai nulla da temere. Così giovane, ha già il riflesso dei grandi combattenti spirituali.
Moglie, madre e consigliera di Corte: 131
(Brigida è ormai un’adolescente: bellezza nordica, intelligente, straordinariamente istruita per l’epoca, vivace, intraprendente, gentile con tutti e molto generosa. Perfetta? No: orgogliosa, indipendente, amante di un’esistenza piena di lussi, difetti di una natura piena di energia e di vita che Brigida, cosciente, combatte soprattutto con l’obbedienza. Nel 1316, il padre la dà in moglie a Ulf Gudmarson d’Ulfasa che ha cinque anni più di lei ed è figlio di un lagman della Vatergotland. Brigida, che preferirebbe cento volte la morte ma non desidera neppure il convento, si piega alla decisione paterna. Il matrimonio sarà benedetto e i due coniugi avranno quattro figli e quattro figlie: Màrta, la maggiore, si sposerà giovane e avrà una vita mondana e orgogliosa che preoccuperà la madre; Karl, un ragazzo bravo ma leggèro; Birger, che morirà durante una Crociata; Gudmar e Bengt, morti in tenera età; Caterina, la gioia di Brigida, che diventerà santa; Ingeborg, entrata nell’ordine cistercense e scomparsa giovane; e, infine, la piccola Cecilia, la quinta su otto a raggiungere l’età adulta. Ulf insegna alla sua Brigida l’obbedienza verso il marito e il senso di responsabilità. È molto cristiano ed è stato cresciuto presso i cistercensi d’Alvastra; Brigida è ancora più ardente di lui ed è animata da una devozione contemplativa, è ancora più attenta a tutti i suoi doveri ufficiali. Insieme pregano tre volte al giorno, si confessano e fanno la comunione ogni settimana. Prima di ogni pasto, Brigida serve dodici poveri, lava loro i piedi il giovedì e dà prova di una splendida ospitalità, mai rifiutata a nessun viandante, ricco o povero. La giovane castellana è allegra e incantevole: il tempo trascorre fra la caccia e la pesca e fra i canti e i balli al suono del liuto la sera. Questa felicità dura due anni. Quando Ulf parte per la guerra, la devozione di Brigida ha libero corso: un duro pagliericcio, digiuni, penitenze, come ai tempi dell’infanzia, scandiscono le giornate, e tornano le estasi in una profonda unione con Dio. Al rientro di Ulf, la vita attiva e caritatevole riprende più vigorosa che mai: i coniugi vanno insieme a cavallo o in barca, si occupano del dissodamento delle foreste, dello sfruttamento minerario, della coltivazione delle terre. Strada facendo, rendono giustizia e fanno l’elemosina. Poiché il numero dei figli cresce, viene ricostruita la dimora di Ulfase. Brigida studia i piani e dirige i lavori: ama comandare. Il castello viene arredato riccamente e una sera, davanti al suo letto sontuoso, Brigida sente la frase: «Sulla croce, la mia testa non aveva dove riposare». Da allora, commossa, la donna dormirà per terra ogni volta che potrà. Divenuta terziaria francescana con il marito, impara, non senza difficoltà per una donna indipendente e audace come lei, il costo dell’obbedienza, sottomettendosi con umiltà alle istruzioni dei superiori. I due sposi amano Dio, lo servono, si amano l’un l’altra, fanno del bene. Ma Dio chiede di più ai suoi amici. Ulf è diventato siniscalco e principe di Nericie. Il re ha regalato loro il bel castello di Vadstena; qui Brigida avrà la visione dell’Ordine che dovrà fondare, trasformando il palazzo in un monastero, affinché, secondo le parole stesse di Cristo «questa casa, costruita con il sudore dei poveri e per l’orgoglio dei ricchi, divenga l’abitazione degli indigenti che si serviranno degli oggetti, dei frutti dell’abbondanza e dell’orgoglio, unicamente per ricondurre gioiosamente i ricchi all’umiltà»; proprio come accadrà all’orgogliosa Brigida che dovrà rinunciare a tutti i suoi impegni. Vanitosa e attaccata alla ricchezza, lascerà il castello e i suoi beni. Nel 1335, il giovane re Magnus, sposatosi di recente con Bianca di Namur, invita a corte la siniscalca di Nericie, affinché diventi la gran dama di Palazzo. Dopo aver sistemato i figli, Brigida parte per Stoccolma, dove l’attendono due giovani sovrani frivoli. Affascina e stupisce la giovane regina e si guadagna l’amore e il rispetto di quanti la circondano… ma non ne ascoltano i saggi consigli. Su richiesta di Magnus, Brigida dà al re delle regole precise per regnare bene. Ma è una fatica inutile: il sovrano si imbarca in una guerra ingiusta e disastrosa, che lo obbliga a imporre pesanti tasse ai sudditi. Brigida, stanca, chiede di potersi allontanare per qualche tempo dalla corte e nel 1341 si reca in pellegrinaggio a Compostela con Ulf. Durante il viaggio attraverso l’Europa, i due visitano tutti i luoghi santi del tempo: Colonia, Aquisgrana, Tarascona, Sainte-Beaume. A Marsiglia si imbarcano per le coste spagnole dove, con l’aiuto di un bastone da viandanti, giungono a piedi a Compostela. Al ritorno attraversano la Francia messa a ferro e fuoco dalla guerra. Ad Arras, Ulf, gravemente ammalato, guarisce grazie alle preghiere della moglie e dopo aver fatto il voto di entrare in un ordine religioso qualora riveda la sua terra. Egli trascorre gli ultimi tre anni di vita ad Alvastra, presso i monaci cistercensi, dove muore nel 1344 in odore di santità. È menzionato nel menologio di Citeaux del 12 febbraio.
Sposa di Cristo
Nel 1339, cinque anni prima della morte del marito, Brigida visita la tomba di San Botvid, uno degli evangelizzatori della Svezia, che le appare in visione e le dice: «Io ed altri santi abbiamo ottenuto da Dio la grazia che tu possa udire, vedere e conoscere le cose dello spirito, e lo Spirito di Dio avvamperà nella tua anima». Pare sia giunto il tempo della profezia. Dolente, dopo la morte di Ulf, ma decisamente distaccata (si era tolta l’anello ricevuto dal marito sul letto di morte perché la legava come «una catena» al mondo), Brigida distribuisce i suoi beni agli eredi e ai poveri, e si trasferisce ad Alvastra dove conduce una vita austera e semplicissima, in una piccola casa a nord della cinta del monastero. Qui il Signore inizia le sue conversazioni con Brigida che desidera avere tutta per sé; inizialmente si tratta di incontri di formazione, poi arrivano le rivelazioni, sempre più precise e profonde, sulla sua missione di profetessa e predicatrice: «Sei mia, e per questo farò di te ciò che voglio. Non amare niente nel modo in cui ami me». Il sottopriore Petrus Olavi, che dubita di queste visioni, riceve una severa ramanzina divina che lo lascia paralizzato fin quando non decide di seguire l’appello divino, che lo vuole segretario, confessore e amico della Santa. E lui che, quando non lo fa Brigida, redige le Rivelazioni celesti e le traduce in latino. La Vergine Maria conduce Brigida da suo Figlio perché egli la riempia di grazie. Una notte di Natale, la donna avverte una gioia sublime e intensa, ed ha un sussulto al cuore, strano e diverso dai normali battiti, come se in lei vivesse un bambino. Maria le rivela che è stato così l’arrivo del Figlio nel suo seno, e Gesù le confermerà che lo Spirito Santo abita nel suo cuore e lo anima. In quest’occasione, la Vergine le insegna che ci sono due modi per raggiungere il cuore di Dio – l’umiltà e la vera contrizione e la contemplazione delle sofferenze del Figlio -’ e che questo non significa ripiegarsi su di sé, né comporta pietismo, bensì il superamento di se stessi all’ascolto di colui che le insegna: «Contempla la mia bellezza attraverso la bellezza degli elementi… Guardami. Sono il più bello sul Tabor, ma il più insultato sulla Croce, dove non avevo né forma né bellezza. Guardami e medita… Correggi i tuoi errori! Ascolta la voce con cui ti ho gridato ‘Ho sete di te!’». Brigida trascorre questi anni fra Alvastra, la corte svedese e Vadstena, che poco a poco si trasforma in convento. La regola che vige a Vadstena, dettata da Cristo stesso, inizia così: «Voglio istituire quest’Ordine in onore di mia Madre…»; seguono trenta capitoli sui tre voti di povertà, castità, obbedienza, sui precetti e sulle regole, la cui originalità ricorda quella dell’Abbazia di Fontevreau: la badessa ha autorità sulle monache di clausura, sessanta al massimo, tredici sacerdoti, quattro diaconi (come gli evangelisti) e otto laici, che aiuteranno i preti nelle attività quotidiane. Questo numero corrisponde ai dodici apostoli e ai settantadue discepoli. Monaci e monache di clausura hanno un loro recinto su entrambi i lati della chiesa dove si raccolgono a pregare. I compiti dei monaci sono unicamente di carattere spirituale. La badessa presenta il monastero di cui è sovrana alla Vergine Maria, Regina degli apostoli e dei discepoli dopo l’Ascensione. Tuttavia la Regola deve essere approvata da Roma e nel corso di un viaggio a cavallo fra Alvastra e Vadnesta, Brigida avrà una lunga visione raccontata nel Libro delle domande (cinquantotto rivelazioni) che la spingerà a partire. In un primo tempo infatti la sua benefica influenza a corte si traduce in diverse iniziative politiche per la pace fra i re di Francia e d’Inghilterra, e l’arbitrato in questa vicenda di papa Clemente VI, che a quei tempi risiede ad Avignone; ma in seguito Brigida diventa oggetto di critiche e scherno ogni giorno più palesi; nel 1348, inoltre, il Papa annuncia un «giubileo» per il 1350, affinché la preghiera fermi la guerra e la peste che sconvolge l’Europa. Tutto, dunque, sembra spingere Brigida a compiere il pellegrinaggio, tanto più che ella ha messo ordine nelle proprie faccende e si rende conto, non senza dover lottare, che la preghiera è la migliore protezione che ella possa dare ai suoi. La confortano le parole di Cristo: «Poiché dimentichi tutto per cercarmi, grazie anche alla tua carità, avrò cura di te e dei tuoi figli». Così Brigida lascia la Svezia che non rivedrà più, e giunge a Roma nel 1349, nella speranza di incontrarvi il Papa. Ma l’aspetta una grande delusione: né Clemente VI né il successore Innocenzo VI risponderanno ai suoi pressanti appelli e moriranno ad Avignone. Nel 1350, la raggiunge a Roma la figlia Caterina. Brigida, che all’età di quarantasette anni si è messa a studiare il latino, in modo da farsi capire e soccorrere gli infelici, fonda un ricovero per i poveri cui si dedicherà assieme alla figlia, moltiplicando i miracoli con la carità. A quest’epoca, sotto la dettatura di un angelo, compone L’inno dell’angelo o Sermo angelicus, per il futuro convento di Vadstena; si tratta di ventun Lettere, da leggere ogni giorno della settimana durante le messe mattutine, in onore della Vergine Maria. Quando Brigida non scrive le Lettere e le Rivelazioni, o non studia, visita con Caterina le catacombe e le chiese di Roma per pregare. Presso la chiesa di San Paolo fuori le mura va in estasi davanti a uno stupendo crocifisso, che si può ancora ammirare e venerare, e ha un dialogo appassionato, raccolto nelle quindici Orazioni della Passione, la cui devozione avrà grande diffusione. La sua sete di Dio la spinge negli altri santuari italiani e per due anni la Santa gira per la penisola, da Assisi a Napoli, passando per Montecassino. Vive con i poveri, pellegrina fra i pellegrini, senza disdegnare di fare la questua con loro. Di ritorno a Roma, dove l’ha preceduta la fama dei suoi scritti e dei suoi miracoli, Brigida si prodiga per la conversione dei principi con le sue lettere severe e le sue predizioni intimidatorie, che purtroppo si riveleranno fondate, e attende il ritorno del Papa a Roma, attesa che durerà diciotto anni. È solo nel 1367 infatti che si avvera la profezia, e Brigida vede entrare nella città eterna papa Urbano V, il quale, però, vi resta solo tre anni. Un decennio dopo, nel 1377, Santa Caterina da Siena riprenderà la lotta e riporterà definitivamente a Roma Gregorio XI successore di Urbano V. Tuttavia, prima di questo trionfo, Brigida, sull’orlo dello scoraggiamento e del dubbio, riceve dalla Vergine l’approvazione degli sforzi che sta compiendo: chi lavora all’evangelizzazione e alla conversione degli altri «anche se converte pochi o nessuno, riceverà una ricompensa pari alla conversione di tutti». La figlia Caterina, divenuta a sua volta vedova in seguito alla morte del giovane marito rimasto in Svezia, deve alla tenerezza e alla fermezza materna la forza di non cadere nella disperazione, e di continuare la sua opera. All’ombra di Brigida, cresce e matura in santità che, grazie all’umile abnegazione della ragazza e alla sua purezza, ne fanno una delle sante più affascinanti della Svezia. Nel 1370, la Regola del Santo Salvatore, assimilata a quella di Sant’Agostino, viene riconosciuta dalla Santa Sede, con l’esclusione però della presenza dei monaci nel monastero. Brigida è ormai settantenne. Spossata dai pellegrinaggi e dalle penitenze, continua a obbedire agli ordini di Cristo: «Preparati al viaggio in Palestina». Al momento di levare l’ancora a Ostia con tre dei suoi figli, Karl, Caterina e Birger, mormora: «Torneremo tutti tranne uno di voi che io amo moltissimo». In effetti, durante lo scalo a Napoli, la bella regina Giovanna si invaghisce di Karl, la cui moglie è rimasta in Svezia e, decisa a fare annullare il suo primo matrimonio, prepara nuove nozze. Brigida, straziata, prega e digiuna, come la Regina Bianca che dice a San Luigi: «Figlio mio, ti preferirei morto ai miei piedi piuttosto che vederti commettere anche un solo peccato mortale». Ed è quello che succede, poiché Karl si ammala gravemente e muore pentendosi dei propri peccati fra le braccia della madre e della sorella. Brigida riprende il mare e, dopo essersi fermata in Sicilia e a Cipro, dove compie molte opere di bene, sbarca in Terra Santa, non senza perdere l’imbarcazione con tutto il suo carico in prossimità delle coste palestinesi. «Rendo grazie a Dio», dice, «per essere giunta povera sulla terra dove il Salvatore ha vissuto in povertà». Percorrendo tutta la Terra Santa, ad ogni tappa Brigida riceve grazie straordinarie, e nelle sue visioni rivede tutta la vita della Vergine e del Salvatore. Il fedele Petrus ne annota i racconti in latino, portando avanti il Libro delle Rivelazioni. Un giorno Brigida, inginocchiata davanti alla tomba di Gesù, ha la rivelazione dell’ingresso in cielo di Karl. Una voce le dice: «Si chiamerà per tutta l’eternità figlio delle tue lacrime». Brigida riprende il mare in uno stato di grande debolezza e di malattia. Sbarca a Napoli, dove imperversa la peste, e qui viene supplicata affinché ponga fine all’epidemia. Così, dopo avere pregato, ella chiede nel nome del Signore che la gente faccia penitenza. La regina Giovanna, di cui ha toccato il cuore, non vuole più lasciarla partire, ma Brigida, sfinita, viene riportata a Roma, dove deperisce, soffrendo molto nell’anima e nel corpo. Ma, alla fine, viene a consolarla Cristo stesso, e i suoi ultimi giorni di vita si trasformano in un’estasi continua. Il 23 luglio del 1373, durante la messa mattutina celebrata nella camera di Brigida, quando il sacerdote solleva l’ostia per la consacrazione, Brigida si protende in avanti e dice: «Fra le tue mani, Signore, rimetto il mio spirito», e cade inerte. Tutta la città si reca a venerare il suo corpo rivestito con l’abito dei terziari francescani e in quell’occasione si compiono miracoli. Brigida venne inizialmente inumata nella basilica di San Lorenzo, poi Caterina la sposta a Vadstena, dove la madre aveva desiderato vivere e morire. Ovunque, lungo il viaggio di ritorno in Svezia, si moltiplicano i miracoli; sembra addirittura che una stella guidi gli svedesi attraverso gli scogli del Baltico, sparendo all’arrivo in patria. Brigida e Caterina tornano a casa dopo un assenza durata venticinque anni! Caterina è santa come la madre; come lei ha visioni e rivelazioni, ma, a differenza di Brigida, profetessa e portavoce di Dio, tace. È lei che realizza i progetti che il Signore ha sull’unico Ordine svédese esistente, e diventa badessa di Vadstena. Brigida viene canonizzata da Bonifacio IX nel 1391 e la veridicità delle sue rivelazioni viene riconosciuta dal Concilio di Costanza nel 1415. Nel 1482, anche Caterina assurge agli onori dell’altare. Brigida mette laboriosamente per iscritto ogni volontà divina. Ossessionata, al punto di provare dolore, dalla salvezza delle anime, rinnova gli appelli alla conversione; le sue rivelazioni più note raccontano le visioni avute sul Giudizio finale, sul purgatorio, sull’inferno e sulla Passione di Cristo. Attraverso la bocca dell’araldo divino, si intuisce l’insegnamento di Dio: fare uscire le anime dal loro torpore materialista; il purgatorio, l’inferno esistono, Brigida li ha visti, li ha descritti con particolari terrificanti. Questo salutare risveglio operato dal timore è destinato unicamente a spingere l’anima fra le braccia della Misericordia, inchiodate per lei sulla Croce. Per Brigida, la meditazione della Passione è la migliore scuola della santità, il libro più dotto del mondo, la consolazione di tutte le pene. Le anime sono attratte dalle parole di Cristo in croce: «Cos’è il pane che desidero, se non il perfezionamento delle anime e la contrizione del cuore, il sospiro del divino e l’umiltà che brucia d’amore?». Il messaggio di Brigida è contenuto in queste poche parole, che riassumono il desiderio accorato dell’Amore-Creatore per la sua creatura.
Brigitte Baudonnet
Brigida temeva che le parole dei suoi libri, frutto di rivelazioni divine, fossero infirmate e calunniate dagli invidiosi e dai malvagi. Nostro Signore le disse: «Ho due braccia: con uno abbraccio il cielo e tutto quello che contiene; con l’altro la terra e il mare. Apro il primo ai miei eletti, onorandoli e consolandoli in terra e in cielo. Stendo l’altro sulle cattiverie umane, sopportandole con misericordia e ponendo loro un freno affinché non compiano tutto il male desiderato. Dunque non abbiate timore, tanto più che nessuno potrà infirmare le mie parole; esse, anzi, raggiungeranno luoghi e nazioni a me graditi. Ma sappiate che tali parole sono come l’olio, e per questo devono essere meditate, considerate e spiegate, ora dagli invidiosi, ora da chi le vuole conoscere, ora da chi desidera che si prodighino il mio onore e la mia pazienza». Libro VI. 100