Commento su Geremia 23,1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Mc 6,30-34

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Commento su Geremia 23,1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Mc 6,30-34

CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie – famiglie)

XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (22/07/2012)

Tre sono i temi chiave di questa domenica: il tema della pastoralità che potrebbe essere riassunto con l’espressione « per essere vere guide occorre essere veri pastori » (prima lettura, salmo); il tema, tutto paolino, dell’uomo nuovo autonomo e responsabile al quale non servono più leggi e decreti perché lo Spirito parla attraverso la coscienza del singolo (compito « pedagogico » di un vero pastore è far passare nella comunità questo messaggio) e, infine, il tema del deserto (Evangelo) ai primi due, come vedremo, strettamente collegati. Ma andiamo con ordine.
La prima lettura è tratta dal libro del profeta Geremia. Nato nel 650 avanti Cristo, Geremia – il secondo dei grandi profeti maggiori del Primo Testamento e il cui nome significa « Jahvè esalta » – pronuncia parole durissime nei confronti dei pastori del suo tempo: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore» (Ger 23,1). Il profeta parla in nome di Dio (« Oracolo del Signore ») mentre la sua voce tuona minacciosa nei confronti di questi pastori.
La domanda, collegata a questo primo tema, è: a distanza di 26 secoli, senza cadere in trappole interpretative letteralistiche o fondamentalistiche, possiamo applicare questa invettiva alla condizione ecclesiale odierna? Noi pensiamo di sì. Se infatti la domenica entriamo nelle nostre chiese, vedendole sempre più vuote, soprattutto di famiglie e di giovani, non possiamo non renderci conto della crescente disaffezione delle persone, non tanto nei confronti del fatto religioso che pure gode di un rinnovato interesse (ancorché secondo modelli sincretistici e da « supermercato del sacro »), quanto piuttosto nei confronti della Chiesa, intesa come Istituzione ecclesiale, considerata lontana non soltanto dal pensare comune (cosa di cui peraltro la Chiesa non dovrebbe preoccuparsi, se davvero possedesse uno spirito di profezia) ma anche e soprattutto dalla vita reale e faticosa delle persone. Di questo, sì, occorre preoccuparsi, ed è a nostro avviso uno dei problemi più grossi che la comunità cristiana si trova oggi ad affrontare. Oggi l’immagine della Chiesa non attira più…
In questa disaffezione (che non è, come si sente spesso affermare, causata solo dal processo di secolarizzazione in atto) c’è spesso, come sempre, un’anima profonda di verità: è una condizione – se così si può dire – che il Signore peraltro aveva previsto:«Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno» (Ger 23,3)… Quasi a dire: « Pastori infedeli, non ho più bisogno di voi, voi che vivete in ricchi palazzi con centinaia di camere, mentre la maggior parte del mio popolo vive in misere catapecchie; voi che vi affannate a coprire scandali sessuali; voi che trafficate denaro; voi che avete instaurato modelli di gestione del potere basati su malaffare e corruzione, mentre il mio popolo non trova lavoro, è disperato, e vive l’incubo della terza e della quarta settimana del mese… Voi che parlate di misericordia, ma che, escludendole dall’Eucaristia, non siete capaci di un gesto concreto di comunione con quelle coppie che vivono il dramma di un fallimento matrimoniale… ». Questo sembra dirci il Signore, ed è fuori discussione che queste parole sono rivolte a noi, ad ognuno di noi. Lungi da noi la tentazione di giudicare, perché tutti siamo al tempo stesso un po’ farisei e un po’ pubblicani, tutti soggetti alla fragilità, alla infedeltà e al peccato… Ciò non toglie, però, che ci si allarghi il cuore quando scopriamo che non tutti i pastori sono così. Quanti pastori attraversano nel nascondimento, nella povertà, nell’umiltà la dura fatica dell’esistere, in compagnia dei poveri, degli emarginati dalla società e dalla Chiesa, sempre disposti ad accogliere, a perdonare, a fare comunione con loro, a cogliere nei loro sguardi e nei loro gesti le fatiche del vivere, a fare insomma « pace », secondo quanto Paolo scrive (è il secondo tema), con le sue mani callose, ai cristiani di Efeso, come meditiamo oggi nella seconda lettura . A noi, affaticati, stanchi per la fatica del camminare, Paolo dice che è Cristo la nostra pace, è Lui che ha abbattuto il muro di divisione tra gli uomini, che ha abolito la Legge fatta di prescrizioni e decreti, che ha fatto in modo che nella Chiesa nessuno si debba sentire più né straniero né ospite. Noi siamo Chiesa.
I pastori che noi vogliamo non sono quelli che tengono le distanze nei confronti della povera gente, che circolano con ricche vesti colorate che già da sole costano un patrimonio, e che scandalizzano i poveri, e che parlano con linguaggi da diplomazia, che fanno accordi con i potenti e che frequentano i loro salotti, ma veri pastori, capaci di chinarsi realmente sulle fatiche della povera gente…, pastori capaci di insegnare anche a noi a fare altrettanto. Chi scrive ha conosciuto un missionario in un paese dell’Africa, avanti negli anni e distrutto fisicamente, alla costante ricerca insieme con gli abitanti della sua missione, il più delle volte senza esito, di un po’ di cibo e di un po’ d’acqua sempre più scarsa. Un giorno questo missionario riceve la visita del Nunzio Apostolico che, appena arrivato, gli dice: « Domani mattina, alle otto, fammi trovare il bagno pronto a 37 gradi di temperatura… » … « Mi sono nascosto per piangere », ci diceva sbigottito il missionario… Questi, non gli altri, sono i veri pastori della Chiesa, questi sono strumenti di unità e non di scandalo e di divisione, e questi, non gli altri, sono considerati dal Signore il « germoglio giusto » (Ger 23,6) e il popolo, incontrandoli, incontrerà la salvezza del Signore.
Il terzo tema è quello del deserto. Lo troviamo nell’Evangelo . Come racconta l’evangelista Marco (6,30-34), gli apostoli erano stati inviati da Gesù in missione: una missione positiva perché ora la folla si accalca attorno al Maestro, vuole ascoltare la sua parola. Come sempre, quando gli impegni di evangelizzazione si fanno più pressanti, gli apostoli non hanno neppure più il tempo di mangiare… E Gesù, che è anche un fine psicologo e coglie lo stress di chi è costretto a correre senza sosta da un luogo all’altro, da un impegno all’altro, dice loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Mc 6,31).
Non è, il suo, un invito alla fuga. Non è neppure è l’invito ad una vacanza. Non è l’invito ad andarsene in un hotel a cinque stelle… Venite, dice Gesù, eis èremon, letteralmente in un deserto.
Deserto è una di quelle parole in grado d’esercitare su molti di noi il fascino magico dell’ignoto e dell’esotico. Per questo il soggiorno « nel deserto » viene offerto nei « pacchetti » degli operatori turistici e trova aderenti soprattutto tra quelle persone danarose e annoiate, alla perenne ricerca di emozioni forti. È oggetto addirittura di trasmissioni televisive si pensi a « L’isola dei famosi »). Non diversamente accade in campo spirituale. Sono sempre più frequenti le domande e le offerte di vacanze in monasteri, o in « luoghi dello spirito », dove poter finalmente fare « un po’ di deserto », naturalmente con i canonici e abbondanti tre pasti quotidiani, camera con doccia e collegamenti wi fi e vista sui declivi dolci e pacificanti della campagna circostante. Sì, chi non conosce il deserto e non lo ha mai sperimentato, sia in senso fisico che spirituale, ne è attratto.
Nella bibbia il deserto è luogo infido, desolato, devastato. I secchi arbusti con dolorosissimi aculei, rovi e cardi, dissuadono spesso dall’avventurarvisi a piedi; gufi e civette lo abitano (cf Sal 102,7); ululati solitari (cf Dt 32,10) ne rompono l’angoscioso silenzio. È il luogo insomma della disperazione e dell’aridità, dove è impossibile procurarsi cibo; luogo pericoloso, animato da scorpioni velenosi e serpentelli; di notte è esperienza allucinante: grava su di esso un penoso silenzio, quasi a ricordare il caos delle origini, rotto di tanto in tanto da misteriosi fruscii o, improvvisamente, da un ululato selvaggio. È richiamo, non solo metaforico, dell’insopportabile silenzio e della stessa assenza di Dio.
Ma se è così, perché allora il profeta vuole portare nel deserto Gomer, la sua donna, e perché Gesù vuole portare nel deserto i suoi discepoli? Per una sorta di sadismo? Perché facciano anch’essi un’esperienza sconvolgente e devastante, come ha fatto Lui prima di iniziare la sua missione e come farà al termine, nel Getsemani?
No, assolutamente no. Gesù ci invita nel deserto perché questo è il luogo in cui il Signore ci parla, e qui possiamo ascoltarlo liberi, nel profondo della nostra coscienza. Il modo in cui Gesù ci parla è molto diverso da quello di molti pastori. Il loro è spesso un pensiero unico e assoluto, perché loro sono convinti di possedere quella verità alla quale occorre sottomettersi con una docilità acritica. Il Dio che parla alla nostra coscienza è invece un Signore misericordioso, ma non solo a parole, che alle nostre famiglie proprio non interessano se non sono accompagnate da gesti concreti. Il verbo greco splanchnìzomai usato in questo brano viene applicato solo a Gesù, perché solo lui è capace di essere contemporaneamente e totalmente misericordioso a parole e nei fatti: il sostantivo splanchna corrisponde infatti all’ebraico rehamìm che significa letteralmente viscere, il luogo stesso in cui, secondo la tradizione degli antichi, hanno sede i sentimenti, in particolare l’amore e la tenerezza, gli stessi sentimenti che uniscono la madre e il padre al figlio, tutti gli uomini e le donne al Dio di tutti. Questo è il Dio che parla nel deserto, ed è un Dio che parla singolarmente ad ogni persona, ad ogni sua creatura, senza mediazioni istituzionali, senza distinzioni tra « buoni » e « cattivi », senza giudizi previ, senza considerazione di meriti o demeriti, di retribuzione o di castigo. Dio parla alla nostra coscienza, suggerisce ad ogni persona pensieri nuovi, e parla nel deserto, non nelle adunate oceaniche, non nelle convention, nei family days o nei costosissimi incontri mondiali delle famiglie. Come documenta Giovanni Colombo (La Chiesa di Dior, « Il Margine », 32[2012], n.5), il VII Incontro Mondiale delle famiglie e l’arrivo del Papa è costato più di 10 milioni di euro. Alla faccia delle famiglie che non riescono a tirare avanti e che a Milano non erano certamente presenti. Ma che Dio ama e predilige.
Il Signore che parla alla nostra coscienza non vuole belle parole. Vuole gesti, fatti. La sua è, certo, una pedagogia severa, e spesso per parlarci ci butta con la faccia a terra, ci porta in un deserto faticoso da vivere; però solo addentrandoci in esso impariamo a muoverci, a camminare nel buio e nella notte, ad evitare gli ostacoli sempre più frequenti. E poi, completamente buia la notte non è mai. Non esiste una negatività così profonda dalla quale non derivi una minima filtrazione di senso, una piccola vena d’acqua capace di farsi strada a poco a poco nell’apparentemente irriducibile aridità. Ma questa pedagogia severa ci aiuterà sicuramente a riscoprire tre parole di cui forse nella Chiesa noi oggi abbiamo perduto la memoria: camminare; silenzio, essenzialità. Queste sono le parole che, insieme con i nostri (veri) pastori dobbiamo riprendere a pronunciare. Con coraggio e con parrhesia, con franchezza.

Traccia per la revisione di vita.
- Sappiamo tenere con i nostri pastori un linguaggio franco? Ci accettiamo reciprocamente con le nostre debolezze e le nostre fragilità? Oppure vogliamo apparire migliori di quanto siamo? O ancora vogliamo cambiare l’altro sulla base dei nostri parametri comportamentali?
- Sappiamo perdonare non in modo ostentato, sentendoci e credendoci migliori della persona che abbiamo perdonato, ma umilmente, nel profondo dell’intimità e del cuore? Anche ai nostri pastori?
- Confidiamo nello Spirito che viene in soccorso della nostra fragilità e della nostra aridità?

Luigi Ghia – Direttore della rivista Famiglia Domani

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