Impariamo la tenerezza alla scuola di San Paolo (per la festa di San Pietro e Paolo, domani Pietro)
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Inseguendo l’Agnello
Ritiro:
Impariamo la tenerezza alla scuola di San Paolo
Nel ritiro odierno vogliamo guardare a Paolo come maestro di quegli atteggiamenti interiori che dobbiamo potenziare in noi stessi per essere all’altezza di quella vocazione che abbiamo ricevuto di essere santi e immacolati al cospetto del Padre nell’amore (Ef 1,4). Paolo stesso era consapevole di questa sua missione di maestro: “Fatevi miei imitatori come io lo sono del Cristo” 1Cor 11,1.
Paolo dunque come maestro del nostro rapporto con Dio, cioè come nostro maestro di orazione, di preghiera. Il CCC parla della preghiera cristiana proprio come una relazione, cioè un rapportarsi reciproco:
CCC 2565 Nella Nuova Alleanza la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo. La grazia del Regno è « l’unione della Santa Trinità tutta intera con lo spirito tutto intero » [San Gregorio Nazianzeno]. La vita di preghiera consiste quindi nell’essere abitualmente alla presenza del Dio tre volte Santo e in comunione con lui. Tale comunione di vita è sempre possibile, perché, mediante il Battesimo, siamo diventati un medesimo essere con Cristo [cf Rm 6,5 ]. La preghiera è cristiana in quanto è comunione con Cristo e si dilata nella Chiesa, che è il suo Corpo. Le sue dimensioni sono quelle dell’Amore di Cristo [cf Ef 3,18-21].
Possiamo anche riassumere il tutto così:
La preghiera cristiana è una relazione viva con il Dio vivo e vero (cf CCC 2558. 2565) offertaci dal Padre donandoci suo Figlio, Gesù Cristo, e realizzata nello Spirito Santo.
Tutto parte dall’iniziativa del Padre che attraverso il Figlio bussa alle porte dei nostri cuori e chiede di cenare con noi, gustando la nostra amicizia, bevendo il nostro amore:
Ap 3,20 Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.
CCC 2560. « Se tu conoscessi il dono di Dio! » (Gv 4,10). La meraviglia della preghiera si rivela proprio là, presso i pozzi dove andiamo a cercare la nostra acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete; la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui [S. Agostino].
CCC 2561. « Tu gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva » (Gv 4,10). La nostra preghiera di domanda è paradossalmente una risposta. Risposta al lamento del Dio vivente: « Essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate » (Ger 2,13), risposta di fede alla promessa gratuita della salvezza, [cf Gv 7,37-39; 2561 Is 12,3; Is 51,1] risposta d’amore alla sete del Figlio unigenito [cf Gv 19,28; Zc 12,10; Zc 13,1].
L’iniziativa della preghiera è dunque di Dio, è Lui che desidera entrare in una relazione viva e personale di conoscenza reciproca e di amore con noi.
Vediamo questo come si è realizzato nella storia di Paolo.
L’evento di Damasco
Di questo evento ne parlano diffusamente tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore), At 22,6-11 (autodifesa di Paolo nell’arresto a Gerusalemme), At 26,12-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa). Paolo, poi, ne accennerà in diverse lettere (cf 1Cor 9,1; 15,8; Gal 1,15ss). Riportiamo di seguito l’autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa:
At 26 …[9]Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, [10]come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. [11]In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere. [12]In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno [13]vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. [14]Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. [15]E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. [16]Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. [17]Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando [18]ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me.
La conversione di Paolo avviene sulla via di Damasco come rivelazione: il Padre gli rivela il volto del suo Figlio (cf Gal 1,15) e questa rivelazione gli manifesta pienamente se stesso come uno che aveva sbagliato tutto. Paolo su quella benedetta via entra nel conoscimento vero di sé, capisce chi è lui e lo capisce perché Dio gli ha mostrato il suo volto in Gesù, vedendo Gesù, vede se stesso nella verità e capisce che ha sbagliato tutto: «Ho sbagliato tutto!».
L’evento della via di Damasco pone Paolo nell’umiltà. Non umiltà frutto dell’esercizio di una virtù e neanche come decisione di uniformarsi ad una verità conosciuta con l’intelletto, ma come un qualcosa di subito che gli frantuma il cuore nella consapevolezza di aver sbagliato tutto: tutti i suoi pensieri e idee su Dio erano sbagliate, tutti i suoi giudizi erano sbagliati, tutte le sue convinzioni erano sbagliati, tutte le cose a cui lui dava importanza erano sbagliate, si scopre così bestemmiatore, prepotente e violento:
1Tm 1: [12]Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: [13]io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento.
Sulla via di Damasco Paolo ha la grazia, nella rivelazione del volto di Gesù, di scoprirsi peccatore, profondamente peccatore. È uno shock tremendo! Lui che si credeva giusto, integerrimo, perfetto e santo:
Fil 3 [4]Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: [5]circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; [6]quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Comprende se stesso nella verità, tremenda verità che gli fa gridare che ha sbagliato tutto, ma…:
1Tm 1: [13]… Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; [14]così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Lì, su quella via di Damasco, Paolo si scopre profondamente e immeritatamente amato e prima ancora che possa riprendersi dallo stupore, Gesù lo manda alle genti: è sconvolgente per Paolo che nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «Hai sbagliato tutto!», gli dice: «Tutto ti affido!», «Ti mando!». Il Dio del Vangelo e della misericordia è Colui che nell’istante in cui mi fa capire che ho sbagliato tutto su di Lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la Parola.
Quest’esperienza immerge Paolo nell’umiltà per cui può farci da maestro nel nostro rapporto con Dio che può elevarsi solo da un fondo di umiltà. Il violento e prepotente lì su quella via divenne umile:
1Tm 1: [15]Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. [16]Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. [17]Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Quest’esperienza immerge Paolo nell’amore. Innanzi tutto nell’amore per il suo Gesù che lo aveva amato e per lui aveva dato Se Stesso (cf Gal 2,20). Su quella benedetta via di Damasco avviene lo spogliamento di Paolo per amore di Gesù, in un certo senso, a imitazione di quello spogliamento del Verbo, da lui tanto ammirato, che aveva spogliato Se Stesso della propria divinità per farsi simile a noi (Fi. 2,6-7), ora Paolo deve spogliare se stesso di tutto quel sovrappiù di cui si ritrova vestito per essere simile a Gesù e se ne disfa senz’altro:
Fil 3 [3]… [7]Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. [8]Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
Questa esperienza immerge Paolo nella tenerezza: lui, il violento e prepotente, si trasformerà in un pastore tenerissimo che sapeva costruire con le persone profonde relazioni di affetto e di amore:
– … Essere padri significa saper incontrare le persone facendo attenzione a ciascuna. Certamente, non per tutti potremo avere lo stesso tempo e la stessa possibilità di rapporto. Ma quanto è importante che ciascuno di quelli che ci incontrano possa avere la sensazione di essere stato accolto, stimato, guardato con amore. Dobbiamo essere Pastori dal cuore grande, sullo stile di Paolo che ai Tessalonicesi scriveva: « Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari » (1Ts 2,7-8). È, questo, il vocabolario della carità, direi anzi, della tenerezza. Paolo, che pur conosce, quando è necessario, il piglio vigoroso della fortezza e della severità, lo sa bilanciare con questo straordinario registro di umanità, di sensibilità, di delicatezza. Al Vescovo si richiede un dono di sé compiuto con pienezza di umanità. E questo ovviamente verso tutti. […]. –
Omelia del card. Giovanni Battista Re del 6/10/2000 in occasione del Giubileo dei Vescovi
La tenerezza: cos’è?
La tenerezza è la modalità dell’amore con cui la persona si relaziona con gli altri facendo loro percepire che li ama e che desidera essere ricambiata. La tenerezza è l’espressione adulta dell’amore, essa infatti richiede, per essere vissuta, aver raggiunto la maturità affettiva, cioè un cuore talmente forte che è capace di rischiare di essere ferito, un cuore senza difese, perché chi ama si mette nelle mani dell’altro con fiducia, rischiando di essere ferito e solo un cuore sovrabbondante di amore accetta con serenità questa possibilità.
Un anonimo autore dei nostri tempi così parla della tenerezza:
– … si tratta di sfumature come un sorriso, il tono delle parole, la capacità di farci piccoli con i piccoli, l’umiltà nell’accettare minuscoli doni; amare con amore di tenerezza richiede un lungo lavorio interiore che, sulla scia di quella divina, è accettazione del vicino con tutti i suoi limiti e difetti: è così che Dio ci ama. Bisognerebbe vedere i difetti dell’altro come uno specchio delle proprie manchevolezze; ciò presuppone il riconoscimento della nostra personale debolezza, riconoscimento che possiamo raggiungere solo con una lunga frequentazione del Signore nella profondità del nostro cuore, là dove la creatura incontra il Creatore, scopre la sua totale fragilità insieme con il suo destino divino».
E il teologo Carlo Rocchetta così magistralmente afferma:
– La tenerezza come stupore si collega alla tenerezza come forza dell’umile amore, intendendo in questa dizione l’umiltà di accettare sé e i propri limiti, facendosi teneri con se stessi; e l’umiltà di accettare gli altri per quello che sono, con bontà di cuore e generosità, facendosi teneri verso di loro. La tenerezza come «forza dell’umile amore» è un viaggio verso un amore che sa trasfigurare tutto e si lascia portare dall’amore come su ali d’aquila, sapendo che ogni tenerezza non è che un raggio dell’unica Tenerezza. […] La tenerezza viene descritta in modo mirabile dal monaco russo Stàrets Zòsima, ne I fratelli Karamazov: «[…] alcuni pensieri, specialmente alla vista del peccato umano, ti rendono perplesso, e ti domando: “Devo ricorrere alla forza o all’umile amore?”. Decidi sempre: ricorrerò all’umile amore. Se prenderai una volta per tutte questa decisione, potrai soggiogare il mondo intero. L’amore umile è una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n’è un’altra» – Carlo Rocchetta, Teologia della Tenerezza, 40ss.
• La tenerezza: da dove nasce?
Un cuore capace di amare di tenerezza nasce dalla frantumazione del proprio cuore di pietra, si tratta di quel cuore di carne di cui parla Ezechiele (11,19 e 36,26) e tale frantumazione e tale nascita è concomitante all’esperienza della misericordia di Dio su di se stessi. Solo chi, come Paolo, ha avuto la sua via di Damasco, è capace di amare con tenerezza (non semplicemente qualcuno da cui è legato da particolare amicizia e affetto, ma tutti, cioè capace di amare tutti con tenerezza). Solo chi ha esperimentato e gustato la tenerezza di Dio su di sé, è capace poi di amare così, perché la tenerezza con cui si amano gli altri, altro non è che il traboccare della misericordia divina dal nostro cuore ferito appunto da questa ineffabile tenerezza con cui essa ci ha investiti, avvolti e sommersi in Gesù Cristo. Il testo di 1Tm 1,12-17, sopra citato, riassume l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e ci fa entrare nel mistero della tenerezza che sgorgò dal suo cuore: è dunque la consapevolezza che in lui la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato che gli permetterà di avere quel cuore di carne capace di amare con tenerezza, perché consapevole di essere stato immeritamente e ineffabilmente amato da Gesù Cristo “il Figlio di Dio, che lo ha amato e ha dato se stesso per lui” (Gal 2,20).
Tale è il pensiero anche di s. Caterina da Siena
– Per lo quale cognoscimento della somma bontà, quando l’anima si trova annegata in tanto abisso d’amore, quanto vede che Dio ha in lei; dilagarsi il cuore e l’affetto; onde l’occhio del cognoscimento apre a intendere, la memoria a ritenere, e la volontà si distende ad amare quello che egli ama. E dice e grida l’anima: « O dolce Dio, che ami tu più? ». Risponde il dolce Dio nostro: « Ragguarda in te, e troverai quello ch’io amo ». Allora ragguardate in voi, figliuoli miei carissimi, e troverete e vedrete che con quella medesima bontà e ineffabile amore che troverete che Dio ama voi, con quello medesimo amore ama tutte le creature che hanno in loro ragione. Onde l’anima come innamorata si levi e distendasi ad amare quello che Dio ama: ciò sono i dolci fratelli nostri. E levasi con tanto desiderio e concepe tanto amore, che volentieri darebbe la vita per la salute loro, e per restituirli alla vita della Grazia. Sicché diventano mangiatori e gustatori delle anime; e fanno come l’aquila che sempre ragguarda la rota del sole e va in alto. E poi ragguarda la terra, e prendendo il cibo, del quale si debbe notricare, il mangia in alto. –
S. Caterina da Siena, Lettera 134 (cf anche Dialogo della Divina Provvidenza, 89).
A completamento di questo discorso sulla tenerezza, occorre precisare che di per sé non è necessaria l’esperienza del peccato per poter gustare la sovrabbondanza della tenerezza di Dio che ci rende capace di relazionarmi con tenerezza di amore verso tutti. La Vergine Santa, infatti, ha esperimentato l’ineffabile tenerezza divina e gustato la sua infinita misericordia senza esser mai stata sfiorata neppure dall’ombra del peccato né originale né personale.
E questo lo ha potuto fare radicandosi e fondandosi nella sua umiltà, nel conoscimento di sé, direbbe s. Caterina da Siena. Consapevole del suo essere niente e nulla da sé, osservava stupita e grata quanto Lui operava in Lei a gloria Sua e lo magnificava commossa (cf Lc 2,46ss) e riconoscente per tanto amore che sentiva assolutamente non meritare. Questo sia in riferimento al dono della sua vita di essere creato dal nulla dall’amore del Padre, sia in riferimento al dono di essere preservata dal peccato originale e ricolma di ogni dono di grazia dello Spirito Santo, in previsione della passione e morte del Figlio di Dio e Figlio suo.
E questa è stata anche l’esperienza di quei Santi che, per grazia di Dio, hanno conservato l’innocenza battesimale e hanno saputo amare teneramente tutti come ad esempio s. Teresina di Lisieux e altri.
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