Isaia 56,1.6-7
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Isaia 56,1.6-7
1 Così dice il Signore: « Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché prossima a venire è la mia salvezza; la mia giustizia sta per rivelarsi. 6 Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, 7 li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera.
I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli ».
COMMENTO
Isaia 56,1.6-7
Una casa di preghiera per tutte le nazioni
La terza parte del libro di Isaia (cc. 56-66), chiamata comunemente Terzo (o Trito) Isaia, contiene una raccolta di oracoli che si differenziano da quelli che compongono non solo la prima, ma anche la seconda parte del libro. In essi infatti il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia in Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo. Più che un’opera unitaria, il libretto sembra una raccolta di piccole collezioni preesistenti, all’interno delle quali si riscontra una certa unità tematica. I temi principali sono l’universalismo della salvezza (56,1-9), la fedeltà a JHWH (56,10-59,21), la rinascita di Gerusalemme (cc. 60-62), prospettive escatologiche (cc. 63-66).
Nel brano iniziale si affronta il tema dell’appartenenza al popolo di io, che viene aperta anche a due categorie di persone, gli stranieri e gli eunuchi, le quali, per ragioni sociali e religiose, erano escluse da esso. Il testo liturgico riporta l’esortazione iniziale (v. 1) e la parte riguardante gli stranieri: le condizioni a cui sono ammessi nella comunità (v. 6) e i vantaggi che ne otterranno (v. 7).
Nell’oracolo iniziale JHWH esorta i giudei a osservare il diritto e a praticare la giustizia (v. 1a): il «diritto» (mishpath) e la «giustizia» (zedaqah) sono due sinonimi che designano un comportamento conforme all’alleanza israelitica e ai comandamenti su cui essa si basa; dal contesto appare che si tratta in modo speciale dei comandamenti contenuti nel decalogo. Il motivo di questa esortazione è l’imminente venuta della salvezza e la rivelazione della giustizia di Dio (v. 1b): dall’evidente parallelismo dei due membri della frase appare chiaro che la «salvezza» (jeshû’ah) e la «giustizia» (zedaqah) di Dio sono sinonimi: essi indicano la modalità essenziale dell’azione divina in favore del suo popolo, cioè la fedeltà agli impegni presi nei suoi confronti. Il profeta non pensa dunque a un intervento punitivo da parte di Dio verso coloro che trasgrediscono i suoi comandamenti, ma del suo favore che sta per manifestare in modo pieno: la speranza che era balenata al momento del ritorno dall’esilio sta ora per attuarsi pienamente. Nel versetto successivo coloro che fanno ciò, cioè che praticano la giustizia e per di più osservano il sabato ed evitano ogni azione malvagia, sono detti beati. Nei vv. 3-5 gli stranieri e gli eunuchi vengono esortati a non disperare, perché anche per loro c’è un posto nel popolo di Dio.
Subito dopo viene affrontato il caso degli stranieri. Nell’antico Israele lo straniero residente (ger, forestiero) era assimilato, pur con certe preclusioni (cfr. Dt 23,4-9) alla popolazione israelitica (cfr. Lv 19,33-34); dopo l’esilio egli era ammesso nella comunità del popolo di Dio, purché si sottoponesse alla circoncisione (cfr. Es 12,48). Lo straniero non residente (nekar) era invece considerato come un potenziale nemico, e come tale era oggetto di avversione e di discriminazioni di vario tipo (cfr. Dt 15,3; 23,21). Al ritorno dall’esilio i giudei vengono a contatto diretto con stranieri appartenenti alle popolazioni locali; con essi i rapporti sono dapprima cordiali e vengono anche stipulati matrimoni, ma poi, dopo la condanna di Neemia e di Esdra (cfr. Ne 13,23-28; Esd 9-10; Mal 2,11), diventa forte la tendenza a separarsi completamente da loro (cfr. Ne 9,2).
L’ammissione degli stranieri al popolo eletto viene ammessa a queste tre condizioni: che aderiscano a JHWH per servirlo, per amare il suo nome e diventare suoi servi, che osservino il sabato evitandone la profanazione, e che restino fermi nella sua alleanza (v. 6). Il Terzo Isaia parla di stranieri in senso proprio (benê hannekar). Per essi l’ammissione al popolo eletto non è semplicemente un passo di carattere sociologico, ma presuppone l’adesione di fede a JHWH, che comporta da una parte l’«amore» (‘ahabah) nei suoi confronti (il nome rappresenta la persona) (cfr. Dt 6,5; 10,12) e dall’altra la decisione di diventare suoi servi (saretîm, ‘abadîm), cioè di prestargli quel culto che egli richiede dai membri del suo popolo. La seconda condizione è l’osservanza del sabato. Questa pratica era diventata particolarmente importante durante l’esilio e comportava il riposo, la partecipazione all’assemblea della comunità, la lettura delle Scritture e la preghiera comune. Lo straniero che aderisce a JHWH si caratterizza dunque per l’osservanza del sabato e di riflesso per la sua astensione da tutto quello che poteva contaminarlo. Infine lo straniero che vuole entrare nel popolo di Dio deve restare fermo nella sua «alleanza» (berît), facendo proprio stabilmente quel vincolo unico che unisce inscindibilmente gli israeliti a JHWH (cfr. Es 19,1-6). L’osservanza di queste condizioni fanno dello straniero un membro a tutti gli effetti della comunità israelitica.
Gli stranieri che assolvono a queste condizioni saranno condotti da Dio sul suo monte santo e saranno ricolmati di gioia nella sua casa di preghiera (v. 7a). Sullo sfondo di questa promessa si intravede l’idea, molto cara al Terzo Isaia, del pellegrinaggio escatologico di tutte le nazioni al monte del tempio (cfr. Is 2,1-5; Is 60). Anche gli stranieri che hanno aderito a JHWH potranno così gustare la gioia delle festività israelitiche, che prelude alla gioia escatologica. Inoltre il profeta li rassicura che i loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi a Dio sul suo altare, perché il suo tempio si chiamerà casa di preghiera per tutte le nazioni (v. 7b). Dio gradirà dunque le offerte e i sacrifici di tutti coloro che sinceramente aderiscono a lui: questa apertura universale viene sottolineata mediante il nuovo appellativo dato al tempio di Gerusalemme: «casa di preghiera per tutte le nazioni». L’apertura universalistica viene presentata così come una caratteristica essenziale della religione israelitica: anche se ciò si attuerà pienamente solo alla fine, il popolo israelitico deve mettersi fin d’ora in questa prosepttiva.
Linee interpretative
La visione di un momento futuro in cui il tempio, centro religioso e politico del popolo d’Israele, sarà aperto a tutte le nazioni, mette in luce non un pensiero marginale, ma piuttosto una caratteristica essenziale della religione ebraica. La storia biblica inizia infatti non con la nascita di Israele, ma con la creazione dell’Uomo (Adam) che Dio plasma a sua immagine e somiglianza e unisce a sé in un vincolo indissolubile di grazia e di amore. Il racconto del primo peccato mette in luce non tanto la separazione dell’umanità da Dio, quanto piuttosto la continuità di questo rapporto nonostante il peccato che contamina la specie umana. È solo in questo contesto che si comprende una storia che riguarda un popolo particolare, ma che sfocia, secondo le promesse profetiche, in una salvezza universale. Questa impostazione però non elimina il rischio del particolarismo, in base al quale l’alleanza viene considerata come un privilegio discriminatorio a favore di un unico popolo. Nella dialettica tra universalismo e particolarismo il Terzo Isaia pone l’accento sul primo, ricordando ai rimpatriati che le difficoltà da essi incontrate con le popolazioni circonvicine non devono far perdere questa dimensione fondamentale della loro fede. È chiaro però che non si tratta di un vero e proprio universalismo della salvezza, ma di una semplice estensione dello statuto di Israele agli stranieri disponibili. Esso può sfociare tutt’al più, come si è verificato dopo l’esilio, in un impegno missionario e proselitistico.
Nel nuovo contesto interreligioso tipico dei tempi moderni e alla luce del significato che Gesù ha dato a questo testo (cfr. Mc 11,17), esso deve essere letto, come tanti altri passi della Bibbia, all’interno di quella che è l’intuizione fondamentale su cui si basa tutto l’impianto teologico del libro. Mediante la creazione Dio ha messo la salvezza a disposizione di tutti. Dopo la caduta di Adamo questa non è stata abbandonata da Dio, il quale al contrario le è rimasto vicino nonostante il peccato, che rappresenta la parte oscura dell’umanità di tutti i tempi. Ciò è confermato dalla storia di Noè, mediante il quale Dio ha stabilito un’alleanza perenne con tutta l’umanità (cfr. Gen 9,1-17). Interpretando dunque correttamente le categorie bibliche, la salvezza non è un bene che un giorno Dio darà a tutti i popoli, ma è già presente e disponibile per tutti. Il popolo di Israele, come d’altronde la chiesa, non può ritenersi l’unico depositario di una salvezza che attraverso di esso si riversa su tutti, ma deve considerarsi come un testimone che tiene vivo nel seno dell’umanità il pensiero di Dio e di una salvezza che tutti possono acquistare, non in un altra vita ma in questo mondo.
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