Archive pour mai, 2012

LE VICENDE DELLE PRIME COMUNITA’ CRISTIANE (2008)

http://www.katciu-martel.it/prime_comunita.htm

(Roma il 29 e 30 marzo 2008 per ricordare Giuseppe Barbaglio)

Introduzione…

Come sapete, il sito http://www.koinonia-online.it è quello dei domenicani di Pistoia (Convento di S. Domenico, tel. 0573/22046). In occasione di un convegno tenutosi in Roma il 29 e 30 marzo 2008 per ricordare Giuseppe Barbaglio, il sito ne ha messo in rete, fra l’altro, il testo che trascriviamo. Vi si espone sinteticamente il confronto delle prime comunità cristiane con le culture e i popoli non giudaici: un confronto difficile e controverso, risolto alfine da Paolo – scrive l’A. – nel senso della “salvezza” accessibile a tutti: «al giudeo restando giudeo, al gentile restando gentile, al barbaro restando barbaro, al greco restando greco». Generalizzando molto, e saltando due millenni, se ne può trarre ancora oggi l’importante “lezione” che, certo, il confronto tra religioni, culture, tradizioni, società diverse non è affatto facile, ma può dar luogo, sulla base di una comune “buona volontà”, a esiti universalmente fecondi.

LE VICENDE DELLE PRIME COMUNITA’ CRISTIANE
Come hanno vissuto il confronto con la pluralità delle culture e dei popoli?

Le comunità palestinesi
Un primo aspetto, anche da un punto di vista cronologico, è che le comunità palestinesi erano monoculturali, monoetniche, parlavano aramaico, ed erano composte da circoncisi e da giudei che appartenevano all’ ‘am. Esse si ponevano di fronte ai gentili, ma vivevano all’interno del mondo giudaico. Non avevano neppure sinagoghe distinte, erano una setta in senso tecnico. Di fronte ai gôîm avevano un atteggiamento passivo e cioè stavano ad aspettare che i pagani venissero a Gerusalemme. Interpretavano le Scritture di Isaia e del Deuteroisaia dell’attesa dei tempi ultimi come realizzate in Gesù. Era perciò venuta l’ora del pellegrinaggio dei popoli, dei gentili a Gerusalemme per accettare la parola di Dio e poi il Vangelo. La clausola richiesta era che i gentili dovessero circoncidersi. Quelle comunità cristiane non avevano rinunciato alla identità etnica giudaica. Perciò i gentili potevano recarsi a ricevere la salvezza, entrando a far parte della comunità, previa giudaizzazione. L’incirconciso doveva diventare circonciso. L’identità della prima comunità cristiana non è data solo dall’elemento transculturale della fede, ma anche dalla circoncisione, cioè dall’eredità giudaica. E’ una soluzione universalistica, ma in linea con la tradizione giudaica.

Il gruppo di Stefano
Questo quadro iniziale si modifica con il gruppo di Stefano costituito da giudei convertiti al cristianesimo, di lingua greca, residenti a Gerusalemme. Per un pio giudeo della diaspora, infatti, era molto importante morire a Gerusalemme. Negli Atti degli Apostoli, al cap.7, si parla di una semplice baruffa, perché Luca, che è un uomo di pace, non vuole dare l’impressione che i cristiani litigassero. In verità c’è stato un duro confronto. Luca dice che, poiché le vedove giudeo-cristiane di lingua greca erano trascurate, sono stati eletti i diaconi perché si occupassero del problema. In realtà si sono costituite due comunità: i giudei di lingua greca, ellenisti culturalmente, si sono staccati dai giudeo-cristiani barbari. Hanno in comune l’elemento religioso, ma si differenziano dal punto di vista culturale linguistico. A Gerusalemme ci sono quindi due comunità, quella apostolica di lingua aramaica, monoculturale, e l’altra di lingua greca. Questa seconda comunità della diaspora considerava di minore importanza le ritualità alimentari, rispettate in modo molto rigoroso dagli altri. Nella diaspora si è verificato, infatti, un processo di eticizzazione della esperienza religiosa, cioè quello che è importante è la fedeltà morale ai comandamenti di Dio, mentre in secondo piano passa l’elemento ritualistico. Il gruppo di Stefano subisce la persecuzione di Erode Antipa e poi di Erode Agrippa, mentre la comunità monoculturale degli apostoli procede più tranquillamente per la propria strada. E’ la sinagoga a non riconoscere più questo gruppo liberale. Stefano subisce il martirio ed i suoi seguaci scappano.
Alcuni vanno ad Antiochia di Siria, che dista da Gerusalemme circa 300 Km., e qui si rivolgono ai pagani. Cominciano la missione e consentono ai pagani che credono in Cristo di entrare nella comunità, ma senza imporre la circoncisione. I gentili restano gentili, e a loro si domanda solo l’adesione di fede che è un elemento transculturale. Questa novità si trova in 1 Tessalonicesi 1, 9-10, dato che Paolo si inserisce in questo gruppo di Stefano. Paolo dice: « raccontano come ci avete accolti quando noi (Paolo, Sila, Timoteo) siamo venuti in mezzo a voi come voi vi siete allontanati dai falsi dei per servire il Dio vivo e vero e per aspettare dai cieli il Figlio suo, colui che egli ha risuscitato dai morti, Gesù che ci salverà ». L’identità cristiana in questo testo è Gesù di Nazareth risuscitato, anzi in primo piano vi è l’ « aspettare dai cieli il Gesù venturo », cioè l’elemento determinante dell’identità cristiana è la speranza. La fede è sottintesa perché Gesù è il venturo in quanto è il risuscitato. La fede cristiana è nata come fede nel risorto e si è subito colorata di speranza nel venturo perché c’era la grande attesa della parusia, della fine del mondo vicina. Quindi il gruppo di Stefano introduce due grandi novità, la missione e l’immissione degli incirconcisi a pari condizioni nella comunità dei circoncisi: nasce la comunità mista la cui unica identità è la fede e la speranza. La salvezza, che Dio persegue in Cristo, di tutti i popoli, avviene per mezzo della evangelizzazione. La comunità cristiana ha un aspetto fondamentale ed essenziale di tipo missionario perché la salvezza possa arrivare a tutti; questo elemento nuovissimo è strutturale e soprattutto non richiede mutamento culturale: vengono accolti i diversi come diversi.

Contrasti e concilio di Gerusalemme
Questa novità di Antiochia ha suscitato grandi reazioni dando luogo al terzo momento. Sorgono discussioni e contrasti perché la comunità aramaica di Gerusalemme aveva buoni motivi per dire che questa prassi era sbagliata dato che Gesù era un circonciso. Inoltre c’era il peso della tradizione; per i cristiani di Gerusalemme fede monoteistica, circoncisione e norme alimentari formavano un blocco unico. La teologia era fortissima: la circoncisione era il segno dell’alleanza. La prassi della chiesa di Antiochia viene così messa sotto processo. Nel frattempo ad Antiochia era arrivato Paolo, invitato da Barnaba, un giudeo cristiano di Cipro di lingua greca. La comunità di Antiochia manda una sua delegazione a Gerusalemme a giustificarsi, a legittimare la propria prassi missionaria e sceglie come delegati Paolo e Barnaba. Paolo non ha inaugurato la nuova prassi, ma ne è stato il teorico riuscendo a giustificarla sul piano teologico, contrastando la teologia tradizionale della chiesa di Gerusalemme. Il concilio è giunto a noi in due versioni, una negli Atti degli Apostoli al cap.15 e una in Paolo, con qualche diversità. La conclusione è che la chiesa di Gerusalemme accetta che i pagani entrino nella comunità senza farsi circoncidere. Il problema sembra risolto.

Problemi della comunità mista di Antiochia
C’è però un quarto momento in un tempo successivo. Mentre a Gerusalemme la comunità è di tipo monoculturale, ad Antiochia, invece, nasce un nuovo tipo di comunità mista e sorgono problemi di coesistenza, come, per esempio, il mangiare a tavola. I gentili mangiano di tutto, gli ebrei non possono. Nel frattempo Pietro era giunto ad Antiochia ed un gruppo di integralisti di Gerusalemme, che pure si trovavano ad Antiochia, avevano messo sotto accusa Pietro perché, pur essendo giudeo, si era messo a mangiare di tutto a motivo della commensalità. Pietro non seppe rispondere alle argomentazioni e si ritirò pian piano « ipocritamente », come dice Paolo, non partecipando più alla tavola comune. Paolo si infuria perché vede in questo atteggiamento una violazione di libertà, una suddivisione fra cristiani di serie A e di serie B. La soluzione proposta da Barnaba di non mangiare alcuni cibi con una astensione rispettosa delle regole dei tradizionalisti, e quindi una mediazione pragmatica, non soddisfa Paolo che insiste sulla libertà. Paolo vedeva le cose dal punto di vista dei principi, Barnaba e Pietro si preoccupavano di non disturbare i giudei osservanti. Paolo ha perduto la battaglia e ha dovuto andarsene da Antiochia che si era schierata sulla soluzione intermedia della pacifica coesistenza. Questa era anche la soluzione di Giacomo che era diventato il capo.

Le comunità fondate da Paolo
L’ultimo passaggio è opera di Paolo che rompe con tutti gli altri e fonda una comunità prima in Galazia, formata da soli gentili, da celti, che non parlavano greco, poi a Tessalonica che era colonia romana, quindi a Berea e a Corinto, tutte comunità in prevalenza costituite da pagani. Con Paolo è andata avanti una prassi missionaria di libertà, di accettazione. Le comunità da lui fondate sono costituite da proseliti monoteisti che restavano incirconcisi e che osservavano i comandamenti della legge generale, i comandamenti di Noè, prima del Sinai. I gentili che hanno costituito la maggioranza delle comunità paoline erano una nuova configurazione, la cui cultura era greca. Il contributo più alto di Paolo è sul piano teologico. Paolo ha detto che davanti al Dio di Gesù Cristo, rivelazione escatologica, avviene una parificazione di tutti i popoli, di tutti gli uomini. Restano le differenze culturali, ma davanti a Dio tutte le diversità sono depotenziate, non sono l’elemento qualificante dell’uomo di fronte alla salvezza, perché Dio è imparziale. Paolo aveva una capacità incredibile perché riusciva a cogliere elementi a favore della sua tesi anche nell’Antico Testamento e nella tradizione ebraica. Paolo diceva: noi abbiamo sempre detto che Dio è un giusto giudice, che rende il bene a chi ha fatto il bene e il castigo a chi ha fatto il male. Questo elemento centrale nella teologia giudaica viene da Paolo modificato. Dio è imparziale non nel senso del giudizio, ma nel senso della salvezza. Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini imparzialmente, sul piede di parità, cioè non c’è nessun privilegiato e non c’è nessun handicappato. Tutte le diversità fra gli uomini non sono elemento qualificante della salvezza; l’unico è la fede, che è possibile al giudeo restando giudeo, al gentile restando gentile, al barbaro restando barbaro e al greco restando greco.

Giuseppe Barbaglio

IL VERO « PERCHÉ » DAL QUALE MUOVE L’ARTE SACRA

http://www.zenit.org/article-30640?l=italian

IL VERO « PERCHÉ » DAL QUALE MUOVE L’ARTE SACRA

« Lo statuto dell’arte sacra è di fatto il Simbolo di fede », scrive Rodolfo Papa

di Rodolfo Papa*
ROMA, lunedì, 14 maggio 2012 (ZENIT.org).- L’arte nella contemporaneità ha gradualmente assunto la prospettiva dell’inquietudine come modalità d’indagine del reale. Un certo cinismo, mescolato ad una disincantata visione post-idealista, si è impossessato dei pigmenti degli artisti, che non hanno più la forza di affermare qualcosa. La vera cifra della post-modernità è la negazione, figlia ormai matura del dubbio che ha mosso gli animi della modernità. Alla radice delle varie riflessioni che pongono le varie poetiche di molte delle più affermate correnti artistiche odierne c’è una domanda, la domanda che assilla tutta l’umanità fin dal più profondo delle sue radici liberali, che esprime nei confronti di ogni realtà ontologica, un dubbio che la mette in questione.
Per secoli si è affermato che questo dubbio è positivo, che ha in sé tutta la potenza dinamica del conoscere e che solo dal dubbio si può giungere ad un sapere superiore. Ma nell’arte la dinamica è diversa, ogni realizzazione pittorica o scultorea non è di per se una domanda ma si pone come una affermazione, pur mantenendo la forma dubitativa che l’ha originata, acquista una dimensione propositiva, affermativa. E’ accaduto però che, paradossalmente, tante affermazioni di opere centrate sul dubbio, altro non facciano che indurre al dubbio –unica affermazione accettata- piuttosto che spronare a superarlo con una affermazione.
Per esempio, il dubbio che Gauguin pone in un suo autoritratto, incapace di scegliere tra le divinità polinesiane e il Crocifisso, non appare scioglibile e quindi di fatto si presenta come una negazione dell’appartenenza cristiana, come l’affermazione di un dubbio che non si limita a dubitare ma afferma la negazione. Da qui molti altri artisti moderni hanno mostrato la loro dubbiosa adesione ad un cliché compositivo, che di fatto nega ciò che apparentemente sembra solo interrogare. Pian piano si è fatta largo una concezione dell’opera d’arte come luogo del filosofico dubbio, con premesse inesatte o insufficienti e quindi incapace di portare a compimento il processo del ragionamento. Tutto rimane sospeso, oppure si strugge in un romantico arrovellamento inautentico e banalmente retorico, tanto caro all’adolescenza. Un certo giovanilismo adolescenziale, segno di una irrequietezza a-morale, si è impadronito delle poetiche artistiche ed è divenuto incapace di affermazioni compiute, proprie dell’età adulta.
Sembra quasi che un certo numero di artisti sia eternamente sospeso tra i desideri fanciulleschi di una libertà impunita e le domande fatte non per aver risposta, ma per interrogare in maniera irriverente senza spostar mai lo sguardo sulla realtà delle cose, ma tenerlo fisso sulle ipotesi conoscitive.
Il sogno, l’oscurità, l’errore, l’illusione sono alcuni dei temi affrontati già tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, prolungandosi poi in vere e proprie correnti e movimenti per giungere poi alle più accattivanti idee di progresso delle avanguardie, concepite come avamposti ma traghettanti cose vecchie e sorpassate dalla storia come la superstizione e gli idoli. Di fatto da Goya a Max Ernst, da Salvator Rosa a Joseph Beuys un certo esoterismo tribale si fa largo prepotentemente nelle opere d’arte fino ad aderire più o meno consapevolmente a culti neo-pagani. Del resto lo stesso Beuys aderisce esplicitamente all’antroposofia di Rudolf Steiner entrando definitivamente nel mondo dell’occulto.
Su di un altro fronte, ma non troppo lontano per intenti e per finalità, incontriamo Allan Kaprow che nel 1959 a New York propone il primo happening: sorta di messa in scena teatrale formata da diversi elementi alogici mescolati in un impasto anch’esso privo di alcuna sequenza logica, con lo scopo di spostare l’attenzione dall’oggetto artistico all’azione performante, ma rigorosamente nonsense. In ultimo poi si possono citare nel medesimo spirito di indagine che non conduce da nessuna parte ma che rotea attorno a se stessa, imprigionando più che liberando la conoscenza, le esperienze artistiche tautologiche di René Magritte, di Francis Picabia e di Josef Kosuth che con le sue catene di segni intersemiotici di fatto ci dice ciò che la sintassi e la grammatica già conoscono e ciò che la pittura sa di se stessa da sempre.
Sembra, quindi, che all’interno di un determinato procedimento culturale l’artista per essere veramente tale, e per essere considerato tale dai critici e dal pubblico, debba rimuginare più che pensare, debba teoreticamente mettere in dubbio più che spingersi realmente oltre i confini dei saperi, rimanendo di fatto invischiato in piccoli giochi di parole che non si spostano dalla tautologia e dal nonsense. Il fatto che tra la pipa reale e quella dipinta ci sia una differenza ontologica non è necessario che ce lo dica Magritte con un suo famosissimo dipinto, tutto ciò lo sappiamo da sempre, ma il fatto che questo ci impedisca di dipingere, questa è la strana conclusione a cui giunge la modernità prima e la post-modernità poi, con esiti devastanti per l’arte della pittura, e per l’arte sacra in particolare.
Infatti molti, affascinati da queste tautologiche affermazioni teoretiche, hanno pensato che l’arte della pittura non potesse più coesistere con la modernità; che la pittura fosse superata e arcaica, teoreticamente insufficiente a battersi con affinati strumenti semiotici messi in campo dal pensiero laico e che la povera pittura non superasse il confronto con il pensiero debole, minimalista o nichilista, comunque relativista della contemporaneità. Il fatto però è che la teoria della pittura comprenda fin da subito questi elementi come giochi linguistici eccentrici e abbia la forza morale di relegarli in un piccolo angolo innocuo come divertimenti e scherzi. Per secoli gli artisti e i loro committenti si sono divertiti con giochi illusionistici e scherzi linguistici raffinatissimi, al confronto dei quali i nostri contemporanei Kosuth o Magritte risultano perfino infantili.
L’arroganza della modernità, che ha poi finito col cadere nella devastazione post-moderna della “fine dell’arte”, ha di fatto avuto un solo risultato: quello di impedire alla pittura di continuare a dire la realtà del mondo e del creato. Si è costretto gli artisti a rinunciare al realismo filosofico per far loro intraprendere forzosamente -seguendo mode e avanguardie- percorsi irreali, illogici, surreali, magici ed occulti, impedendo loro un approccio conoscitivo e costruttivo dell’arte.
Il dubbio, dunque, non è stato il movente dal quale partire per giungere alla realtà delle cose, ma al contrario l’esito al quale approdare: un “perché” che è seguito da altri infiniti perché in un circolo vizioso privo di uscita, capace solo di far rinunciare a dire il vero.
Ma per l’arte sacra c’è bisogno di ben altro, il primo perché, che la precede nel moto spirituale dell’artista che si muove verso l’opera da realizzare, è fatto dell’adesione piena alla fede in Cristo. Lo statuto dell’arte sacra è di fatto il Simbolo di fede, che ogni cristiano recita la domenica in Chiesa insieme a tutta la comunità. Alla domanda profonda “perché l’arte sacra?” non si risponde con i dubbi delle teorie riduzioniste e tautologiche, altrimenti non è possibile affermare tutte le sfumature delle realtà di fede rivelate alla Chiesa da Nostro Signore Gesù Cristo.

* Rodolfo Papa è docente di Storia delle Teorie estetiche presso la Pontificia Università Urbaniana

Publié dans:ARTE |on 14 mai, 2012 |Pas de commentaires »

The three persons of the Trinity. Right is a Greek Orthodox New Testament Trinity from the ceiling of the entrance Vatopedion Monastery at Agion Oros (Mount Athos)

The three persons of the Trinity. Right is a Greek Orthodox New Testament Trinity from the ceiling of the entrance Vatopedion Monastery at Agion Oros (Mount Athos) dans immagini sacre a-the-holy-trinity-an-orthodox-wall-painted-icon-at-the-ceiling-of-the-entrance-cf80cf81cf8ccf83cf84cf89cebfcebd-vatopedion-monastery-at-agion-oros-mount-athos-greece

http://thewayofbeauty.org/2010/09/should-we-paint-god-the-father/

Publié dans:immagini sacre |on 11 mai, 2012 |Pas de commentaires »

Commento su At 10,25-27.34-35.44-48 – VI Domenica di Pasqua (Anno B)

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=25443

Commento su At 10,25-27.34-35.44-48

don Luciano Cantini 

VI Domenica di Pasqua (Anno B) (13/05/2012)

Brano biblico: At 10,25-27.34-35.44-48  

In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone
Israele aveva la convinzione, giusta, di essere il popolo eletto. Dio lo ha scelto per essere, nella storia, il luogo dell’alleanza con l’umanità, segno per tutti i popoli chiamati al grande banchetto universale. L’uomo nella sua semplicità vive l’elezione come un fatto personale ed esclusivo, è capitato al popolo d’Israele così come è capitato per la Chiesa. Talmente privilegiato è il rapporto con Dio che sembra impossibile che Dio abbia altri percorsi, utilizzi altre strade o che possa comunicare la salvezza in qualche altro modo. Storicamente si è arrivati ad affermare: « extra ecclesia nulla salus » e per chiesa si intendeva la struttura ecclesiastica ben conformata ed organizzata.
L’amore che Dio ci propone sembra, ai nostri occhi, qualcosa di esclusivo, rimanere nel suo amore pare una sorta di privilegio, una sorta di Grazia che quasi ci separi dal mondo; sembra offrirci una tale sicurezza che non possiamo contaminare perché rimanga la sua integrità.
L’amore di Dio viene così quasi bloccato e si perde di vista il vero destinatario che è il lontano, il diverso, l’impuro, il ripudiato. Si perde di vista il mistero dell’incarnazione che precipita giù raggiungendo l’abisso dell’umanità.
L’amore che l’uomo sperimenta cerca il simile, il bello, il completamento, il valore, l’amicizia… ma l’amore che Gesù ci racconta è quello verso i nemici, quelli che ci odiano, che fanno del male, quelli che maledicono. Dio è imprevedibile e sconcerta l’uomo anche nella sua fede.
L’episodio di Cornelio doveva sembrare agli occhi dello stesso Pietro come qualcosa di scioccante, inusitato, impossibile.
«Àlzati: anche io sono un uomo!»
Cornelio desidera fare un omaggio a questo uomo di Dio; Pietro invece dice di condividere con Cornelio l’umanità, questa affermazione sposta l’attenzione da sé e gli permette di vedere quanto grande e libera sia l’opera di Dio. L’azione dello Spirito sembra più forte quando viene dall’uomo talmente diverso che non riflette le nostre attese. A volte ci rendiamo conto che certe strutture quando diventano autoreferenziali e assumono forme di rigidità perdono la sensibilità alla leggerezza dello Spirito.
E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo
Dio opera e agisce proprio là dove meno lo aspettiamo ed attraverso coloro che meno sembrano essere adatti, non guarda ai meriti di ciascuno, o perlomeno usa altre scale di valori. Lo Spirito ha la libertà di parlare attraverso qualsiasi bocca e qualsiasi storia e come Chiesa abbiamo la necessità di mettersi in ascolto di questo Spirito che viene da lontano, che usa linguaggi inusitati, mostra armonie altre, ci indica sommessamente altre vie.
Chi vive il rapporto con la marginalità da tempo ha scoperto quanto sia sublime e delicato il lavoro che Dio compie nell’uomo, nonostante l’uomo. Pietro lo ha scoperto ma ha dovuto varcare la soglia della casa del pagano Cornelio, rompere con i pregiudizi e gli stereotipi, superare i limiti della propria cultura e della propria tradizione religiosa.

Omelia (13-05-2012): Chiamati ad amare come Cristo

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/25504.html

Omelia (13-05-2012)

padre Ermes Ronchi

Chiamati ad amare come Cristo

Una pagina di Giovan­ni in cui pare custo­dita l’essenza del cri­stianesimo, le cose determi­nanti della nostra fede. C’è un fluire, un fiume grande d’amore che scorre dal cie­lo, dal Padre al Figlio, dal Fi­glio a noi. Come la linfa nel­la vite, come il sangue nelle vene. Il Vangelo mi dà una certezza: l’amore non è un sentimento, qualcosa pro­dotto da me, un mio deside­rio, è una realtà. L’amore è.
Come il Padre ha amato me, io ho amato voi, rimanete in questo amore. Rimanete, di­morate, abitate, non anda­tevene. L’amore è reale co­me un luogo, un continen­te, una tenda, ci puoi vivere dentro. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la vede, ma ha mille segni del­la sua presenza che lo nutre, lo scalda, lo culla: «il nostro problema è che siamo im­mersi in un oceano d’amo­re e non ce ne rendiamo conto» (P. Vannucci). L’amo­re è, ed è cosa da Dio: amo­re unilaterale, amore a pre­scindere, asimmetrico, in­condizionato. Che io sia a­mato dipende da lui, non di­pende da me. Il nostro com­pito è decidere se rimanere o no in questo amore. Ma perché farlo? Gesù rispon­de: perché la vostra gioia sia piena. Il Vangelo è da ascol­tare con attenzione, ne va della nostra gioia. Che poi è un sintomo: ti assicura che stai camminando bene, sul­la via giusta. L’amore è da prendere sul serio, ne va del­la nostra felicità.
Amatevi gli uni gli altri co­me io vi ho amato. Non sem­plicemente: amate. Non ba­sta amare, potrebbe essere solo un fatto consolatorio, una forma di possesso o di potere. Ci sono anche amo­ri violenti e disperati. Ag­giunge: amatevi gli uni gli altri. In un rapporto di co­munione, un faccia a faccia, una reciprocità. Non si ama l’umanità in generale, si a­mano le persone ad una ad una. E poi offre la parola che fa la differenza cristiana: a­matevi come io vi ho amato.
Lo specifico del cristiano non è amare, questo lo fan­no in molte persone, in mol­ti modi. Ma è amare come Cristo, che cinge un asciu­gamano e lava i piedi ai suoi; che non manda mai via nes­suno; che mentre io lo feri­sco, mi guarda e mi ama. Co­me lui si è fatto canale del­l’amore del Padre, così o­gnuno farsi vena non o­struita, canale non intasato, perché l’amore scenda e cir­coli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo. E la prima cosa che muore è la gioia.
Voi siete miei amici. Non più servi, ma amici. Parola dol­ce, musica per il cuore del­l’uomo. L’amicizia che non si impone, non si finge, non si mendica (Michele Do), di­ce gioia e uguaglianza.
Amicizia, umanissimo rito che è teologia, che parla di Dio, e nel farlo conforta la vi­ta, allo stesso modo in cui ne parlava Gesù: amico è un nome di Dio.

DIEDE LA VITA PER SALVARE GLI EBREI

http://www.zenit.org/article-30604?l=italian

DIEDE LA VITA PER SALVARE GLI EBREI

Il Giusto tra le nazioni Odoardo Focherini sarà beato

di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 11 maggio 2012 (ZENIT.org) – Trentasette anni, padre di sette figli, marito esemplare, cattolico fervente, direttore diocesano dell’Azione Cattolica,  amministratore de l’Avvenire d’Italia, salvò 105 ebrei dalla deportazione nazista. Fu preso mentre assisteva un ebreo malato. Internato nel lager di  Hersbruck, morì il 27 dicembre del 1944. Il suo esempio di martire eroico ha stupito tutti quelli che hanno conosciuto la sua storia.
Ieri, 10 maggio, il Santo Padre Benedetto XVI nel corso dell’udienza con il Cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato la Congregazione a promulgare, tra gli altri, il decreto riguardante “il martirio del Servo di Dio Odoardo Focherini, Laico, nato a Carpi (Italia) il 6 giugno 1907 e ucciso, in odio alla Fede a Hersbruck (Germania) il 27 dicembre 1944”.
Il 6 giugno 2007 nel ricordare il centenario della nascita di Focherini, il Pontefice Benedetto XVI scrisse in un messaggio inviato alla diocesi di Carpi, è “un’indimenticabile figura di sposo cristiano, il cui virtuoso esempio continua a parlare alla Chiesa di oggi”,
Il messaggio papale ricorda il centenario della sua nascita (6 giugno 1907).
In quell’occasione il papa auspicò  che “la significativa ricorrenza contribuisca a richiamare il luminoso messaggio e l’intrepida testimonianza evangelica di un laico così generoso che ad imitazione di Cristo si prodigò incessantemente per la salvezza dei fratelli”.
Nel commentare la notizia monsignor Francesco Cavina Vescovo di Carpi ha detto: “Si tratta di un grande evento, sorgente di grazia e di consolazione per la nostra Chiesa locale”.
“Il nuovo beato – ha aggiunto – è segno indiscusso della fecondità della nostra Chiesa locale, ma è anche un forte richiamo a non lasciare inaridire le radici e a ritornare ad una testimonianza coerente, chiara, coraggiosa ed ecclesiale della nostra adesione a Cristo”.
“Infatti, – ha concluso – quanti più sono i doni, tanto più cresce la responsabilità e tanto più verrà chiesto. E’ stata l’ultima fatica di don Claudio Pontiroli che ora più vicino al Servo di Dio, partecipa alla nostra gioia ed insieme intercedono per noi”.
Odoardo  Focherini è un “martire” la cui testimonianza è così ardente da travalicare il tempo passato ed essere ancora oggi un “esempio”  da imitare.
Visse in un  periodo storico tormentato, ma non si lasciò mai prendere dallo sconforto, sempre fiducioso ed ottimista.
Attivissimo nel mondo cattolico a 27 anni era già Presidente dell’Azione Cattolica (ACI). Durante la persecuzione fascista del 1933 Focherini corse tra una sede e l’altra dell’ACI per nascondere le bandiere, trafugare le carte e mettere al sicuro registri e verbali delle riunioni.
Nel 1939 alla vigilia della guerra, Focherini divenne il direttore amministrativo de l’Avvenire d’Italia. Il giornale era allora diretto da Raimondo Manzini, autore di accese polemiche contro il fascismo, e Focherini lo affiancò coraggiosamente.
I fascisti bolognesi, il giorno dell’invasione tedesca del Belgio e dell’Olanda, avevano bruciato e sequestrato l’Avvenire d’Italia perché colpevole di aver pubblicato i telegrammi di Pio XII ai governi ed ai popoli colpiti da questa sventura.   Il gerarca fascista Farinacci aveva definito l’Avvenire come un «pretesco covo di vipere» perché aveva respinto la politica razziale.
Quando arrivarono i nazisti occupando l’Italia, l’Avvenire chiuse e di fronte ai tedeschi che ne chiedevano la riapertura Focherini sostenne che le scorte di carta erano esaurite. Non era vero, ma in questo modo l’Avvenire non si mise mai al servizio dell’occupante. Il 26 settembre del 1943 Bologna subì il primo grosso bombardamento e la sede de l’Avvenire venne distrutta.  Da allora Focherini si mise a capo dell’organizzazione per salvare gli ebrei ed i perseguitati.
Già dal 1942, su richiesta di Raimondo Manzini, a cui il cardinale di Genova Pietro Boetto aveva inviato alcuni ebrei, Focherini si prodigò nel mettere al sicuro dalla persecuzione su un treno della Croce Rossa Internazionale un gruppo di ebrei provenienti dalla Polonia,    
Dopo l’8 settembre 1943, con l’inasprimento delle leggi antigiudaiche, con I’inizio delle deportazioni razziali, Odoardo Focherini con don Dante Sala, la signora Ferrarini delle Concerie Donati di Modena e pochi altri, organizzò una rete efficace per I’espatrio verso la Svizzera di oltre un centinaio di ebrei.
Odoardo era I’anima dell’organizzazione. Contattava le famiglie, si procurava i documenti dalle sinagoghe, cercava i finanziamenti,  forniva i documenti falsi: un amico compiacente gli aveva procurato delle carte di identità che egli abilmente compilava con i nomi di comuni del sud già in mano agli alleati. (Carpi diventava così Capri). Una volta organizzato un gruppetto lo affidava a Don Dante Sala che li accompagnava fino a Cernobbio, dove grazie alla complicità di due coraggiosi cattolici che stazionavano sul confine li facevano passare in Svizzera.
L’11 marzo 1944 Focherini fu preso all’ospedale mentre si prodigava per un ebreo malato. Fu trasferito al Comando delle SS di Bologna e da qui alle carceri di San Giovanni in Monte. Durante una visita il cognato Bruno Marchesi gli disse: « sta attento, forse ti stai esponendo troppo, non pensi ai tuoi figli?» e Odoardo rispose «Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, cosa fanno patire agli ebrei, non rimpiangeresti se non aver fatto abbastanza per loro, se non di averne salvati un numero maggiore».
Trasferito al campo di concentramento di Gries (Bolzano), vi rimase fino al 5 settembre 1944.  Poi fu inviato al lager di  Flossenburg e in seguito al lavoro nel sottocampo di Hersbruck. L’8 ottobre 1943 dettò all’amico Olivelli le due ultime lettere ai familiari, Olivelli le scrisse in tedesco per non avere problemi con la censura del campo e Odoardo le siglò con la sua firma. Sono I’ultima testimonianza diretta che Odoardo era ancora vivo. La famiglia scrisse più volte, ma non ricevette più notizie. Odoardo si spense nell’infermeria del campo di Hersbruck il 27 dicembre 1944.  
Ecco le parole affidate all’amico di prigionia: « l miei sette figli…vorrei  vederli prima di morire…tuttavia, accetta, o Signore, anche questo sacrificio e custodiscili tu, insieme a mia moglie, ai mie genitori, a tutti i miei cari. Dichiaro di morire nella più pura fede cattolica apostolica romana e nella piena sottomissione alla volontà di Dio, offrendo la mia vita in olocausto per la mia Diocesi, per I’Azione Cattolica, per il Papa e per il ritorno della pace nel mondo. Vi prego riferire a mia moglie che le sono sempre rimasto fedele, I’ho sempre pensata, e sempre intensamente amata».
Tra le molteplici e autorevoli testimonianze di gratitudine all’opera di Focherini spicca quella di una signora ebrea di Ferrara che disse alla vedova di Odoardo: «Ho perduto quattordici dei miei, m’è rimasto solo questo figliolo, ma ho trovato la forza di salvarmi e di sopravvivere per quello che mi ha detto suo marito: “Avrei già fatto il mio dovere se pensassi solo ai miei sette figlioli, ma sento che non posso abbandonarvi, che Dio non me lo permette”.
Odoardo Focherini ha ricevuto la Medaglia d’oro delle Comunità Israelitiche italiane (Milano, 1955), il titolo di Giusto fra le nazioni (Gerusalemme, 1969), la Medaglia d’oro della Repubblica Italiana al Merito Civile alla memoria (2007).
Il processo di beatificazione è iniziato nel 1996.
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Silas first appears in Acts (15:22-29) with Barnabas, after the Council of Jerusalem, as carrying a letter with the council’s decision, to Antioch

Silas first appears in Acts (15:22-29) with Barnabas, after the Council of Jerusalem, as carrying a letter with the council's decision, to Antioch dans immagini sacre image012

http://www.oration.com/~mm9n/articles/Paul/Paul6.htm

Publié dans:immagini sacre |on 10 mai, 2012 |Pas de commentaires »
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