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IL PRIGIONIERO DI CRISTO GESÙ» (Ef. 3,1)

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IL PRIGIONIERO DI CRISTO GESÙ» (Ef. 3,1)

Lucien Cerfaux *

Lucien Cerfaux, nato in Belgio nel 1883, si è dedicato all’insegnamento della Sacra Scrittura e ha avuto l’unica ambizione di mettere tutta la sua vita al servizio della Parola di Dio. La sua ricerca esegetica, fondata su una fede incrollabile, è caratterizzata dalla preoccupazione di ritrovare il senso originale dei testi, specie del Nuovo Testamento, fino a raggiungere quasi una connaturalità con gli autori sacri. Egli ha comunicato i frutti dei suoi studi attraverso numerosi articoli, notevoli per rigore scientifico: ma la sua prima grande opera su san Paolo l’ha pubblicata solo a 60 anni. Morto a 85 anni, ha lasciato una splendida testimonianza di vita sacerdotale e apostolica.

Paolo, vedendosi prigioniero, si è resoconto che ormai si avvicina il termine della sua corsa. Ha varcato la soglia della vecchiaia. Con coraggio conclude il suo viaggio apostolico cominciato sulla via di Damasco… Le catene lo tengono avvinto a Gesù Cristo, l’identificano a lui, lo consacrano. Per la Chiesa, corpo di Cristo, completa nella sua carne quel che manca alle sofferenze di Gesù (cfr. Col. 1,24). Egli sta al posto del «Servo sofferente»; non ha corso invano, non ha «lavorato invano».
E’ anche consacrato, come quei grandi sacerdoti-profeti che si collocano nella linea di Samuele e hanno l’incarico di offrire sacrifici e manifestare i segreti di Dio. In questo senso Paolo è stato scelto, perché rivelasse ai pagani la chiamata a Cristo, perché li offrisse a Dio quale sacrificio di odore soave.
Egli vuole che i suoi cristiani, come le vittime senza difetto che venivano scelte per i sacrifici, siano puri e irreprensibili, figli di Dio senza macchia in mezzo a una generazione traviata e perversa…, per custodire la parola di vita (Fil. 2, 15-16). Sul sacrificio liturgico offerto dalla loro fede, egli versa la libazione della sua sofferenza in una gioia santa, che vuole condividere con loro.
Nella liturgia spirituale che è ogni vita cristiana e specialmente quella di Paolo, sacerdote e vittima nella sua I corsa apostolica, consacrato in virtù della sua prigionia, egli rivolge a Dio una preghiera solenne per i suoi cristiani venuti dal paganesimo: Perciò, io Paolo, prigioniero di Cristo per voi, che eravate pagani… piego le ginocchia davanti al Padre (Ef. 3, 1, 14). Oggetto della sua ininterrotta preghiera sarà la gratitudine per l’ingresso dei pagani nella Chiesa dei santi, per il loro radicarsi nella carità, per la comprensione dell’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, a cui si aggiunge la supplica: che essi siano colmati in tutto della pienezza di Dio (cfr. Ef. 3, 19).
L’attività dell’apostolo si conclude nel suo restare immobile alla presenza di Dio. Così ai profeti dell’Antico Testamento non incombeva più l’obbligo del pellegrinaggio al tempio e dell’adorazione rituale per trovarsi «davanti al volto di Dio». In fondo la loro stessa missione era uno sperimentare la Presenza: «Viva Dio al cui cospetto io sto». Come loro, Paolo aveva ricevuto la sua vocazione in una visione inaugurale che aveva proiettato luce su tutta la sua vita apostolica, che era andata progressivamente trasformandolo in Cristo, di cui aveva contemplato il volto, immagine del volto di Dio. La preghiera che s’innalza dalla sua prigione costituisce il culmine del mistero del suo apostolato.

* L’itinéraire spirituel de saint Paul, Le Cerf, Parigi 1966 pp. 178-180.

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In cammino verso un martirologio comune – Se l’ecumenismo riparte dai martiri (2009)

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=1031

01/03/2009  

In cammino verso un martirologio comune

Se l’ecumenismo riparte dai martiri

di Gerolamo Fazzini
Come riappropriarsi di una memoria condivisa dei testimoni della fede? Rappresentanti di tutte le Chiese ne hanno discusso insieme a Bose

«LA COMMEMORAZIONE ecumenica dei martiri? L’argomento non è mai stato approfondito. Forse l’idea stessa di un martirologio comune è troppo avanzata allo stato attuale, viste le differenze di opinione. Tuttavia esistono molte altre opportunità». In queste parole del liturgista Keith Pecklers è sintetizzato il cammino – promettente benché irto di difficoltà – che un drappello di esponenti di varie Chiese cristiane, da tempo va compiendo con l’obiettivo di valorizzare in chiave ecumenica le testimonianze dei martiri. Un cammino particolarmente significativo in un momento come l’attuale, in cui l’ecumenismo ufficiale segna il passo. Basti pensare alle controversie in seno alla Chiesa cattolica sulla scomunica revocata ai vescovi lefebvriani, alla complessa transizione che sta vivendo la Chiesa ortodossa russa, ora affidata alla guida del patriarca Kirill dopo la lunga stagione di Alessio II, alle tensioni interne alle Chiese protestanti….
«Ripartire dai martiri», dunque, come profeticamente chiese Giovanni Paolo II nella celebrazione ecumenica del 7 maggio 2000. Recuperare una memoria condivisa, «purificata». Tornare ad attingere a un patrimonio di fede vissuta genuinamente nel segno del Vangelo, al di là e prima delle distinzioni confessionali. Con questi obiettivi, una quarantina di esperti – in rappresentanza delle diverse confessioni, provenienti da tutt’Europa e non solo (Brasile, Corea, Sudafrica..) – si sono radunati a Bose, a fine ottobre-inizio novembre, su iniziativa del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) e della comunità monastica guidata da Enzo Bianchi.
Il titolo dell’incontro, «Una nube di testimoni», esprime la scelta precisa degli organizzatori di concentrare l’attenzione sul martire in un significato «originario e più ampio», come colui che «semplicemente, come Cristo, testimonia la verità del Vangelo fino alla fine». In questo senso, si legge nel Messaggio finale indirizzato alle Chiese, «coloro che possono essere definiti “eroi della fede”, coloro che hanno testimoniato Cristo con la loro vita anche senza andare incontro a morte violenta sono anch’essi certamente inclusi nella “grande nube” – la comunione dei santi – sia che i loro nomi siano noti o ignoti».
L’intuizione di fondo del simposio si colloca sulla scia di una riflessione avviata a Bangalore nel lontano 1979 dalla Commissione Fede e Costituzione del Cec, volta a redigere un elenco di santi e martiri che fosse ecumenico, ossia condiviso dalle diverse Chiese. Un’idea tanto pionieristica e profetica quanto poco coltivata negli anni successivi, tanto che Mary Tanner, autorevole esponente della Chiesa anglicana, ha definito «quasi frustrante» il tentativo di tracciare un bilancio di quell’intuizione guardando ai documenti prodotti nell’arco dell’ultimo trentennio dal Cec.
Eppure oggi «cresce la consapevolezza che molti testimoni contemporanei della fede cristiana non appartengono solo a singoli gruppi confessionali ma, come nei primi secoli del cristianesimo, sono fonte di ispirazione per tutte le Chiese. E che rilevanti testimonianze di fede del passato non appartengono più in via esclusiva alla confessione nella quale si erano formate, ma costituiscono l’eredità comune dell’unica Chiesa di Cristo».
Del resto, come ha sottolineato il priore di Bose, Enzo Bianchi, il fascino dei martiri rimane intatto. Perché rimanda alla radicalità propria della scelta autenticamente evangelica: «Il martirio e la morte violenta sono il sigillo per eccellenza della missione profetica». Già, perché il valore della testimonianza del martire non è legato alla violenza subìta («ciò che rende martiri non è il supplizio, ma la causa della morte», ha ricordato Bianchi citando Agostino), ma al dono totale di sé, sulle orme del Cristo.

ANCHE IL PRIMATE anglicano Rowan Williams, nel messaggio inviato, ha spiegato come – al di là delle diversità confessionali – si possa identificare un riferimento comune quando si parla di santità. «La persona che le Chiese riconoscono come un santo sarà colui che mostra ciò che è vero per tutti i cristiani, colui che offre una definizione particolare di ciò che la vita battesimale può significare».
Nel caso dei sei membri della Melanesian Brotherwood (una fraternità missionaria anglicana), uccisi nella primavera del 2003 nelle Isole Salomone, perseguire la «santità» ha voluto dire servire la popolazione locale e lavorare per la pace. Come ha raccontato a Bose un loro confratello, Richard Carter: «La comunità era vista molto bene; pensavamo che non ci potesse succedere nulla. La popolazione si rifugiava da noi per sfuggire alla violenza. E invece scoprimmo che tutti eravamo mortali».
Ma che significa «memoria dei santi» in una Chiesa divisa? Ancora Williams: «Se un cattolico guarda a un santo del mondo cristiano orientale, potrebbe pensare che la testimonianza di quel santo è in qualche modo indebolita o compromessa dalla sua separazione o addirittura ostilità nei confronti della comunione con la sede romana. Anglicani e protestanti non possono non rendersi conto che i santi della Chiesa cattolica successivi alla Riforma sono appartenuti a un corpo che considerava la loro testimonianza cristiana riformata come imperfetta e deviata».
C’è, dunque, una memoria da purificare, per costruirne una condivisa. Ma rileggere il passato può significare riaprire vecchie ferite, mai del tutto cicatrizzate, esplorare situazioni storiche che hanno visto i cristiani perseguitare i loro fratelli. Helmut Harder, segretario generale della Conferenza dei Mennoniti del Canada, ha ripercorso il lungo e articolato cammino di riconciliazione fra la sua Chiesa e la cattolica. Un cammino i cui protagonisti hanno dovuto misurarsi con le reciproche diffidenze e con il peso della storia. «Una ricerca condotta in ambito protestante stima che 1500 mennoniti (discendenti degli anabattisti) furono perseguitati dentro i territori cattolici». Sottolinea Harder: «Nel corso dei dialoghi, ci siamo resi conto che tanto noi quanto i nostri interlocutori dovevano entrambi impegnarci in un’autocritica: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo”: entrambi siamo peccatori».
Tanto in Occidente come in Oriente – è stato ricordato – «ci sono coloro che hanno patito tormenti e la morte per mano di altri cristiani e che vengono considerati martiri. Cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti sono stati tutti coinvolti. Come si può celebrare la memoria di qualcuno che è morto per nostra stessa mano?».
E che dire quando addirittura i carnefici di preti, suore e laici si proclamano cattolici? Daniel Bruno, pastore metodista di Buenos Aires, ha lanciato la sua provocazione alla luce dell’esperienza dolorosa della Chiesa latinoamericana. «Rispetto alla maggior parte dei casi nella storia, in America latina i carnefici dei cattolici rivendicavano il loro essere veri cristiani. Era normale vedere rosari e crocefissi nelle sale di tortura». Ancora: «La persecuzione non era esercitata contro i cristiani in quanto credenti in una dottrina, ma contro la prassi da loro adottata. Come Gesù, i martiri dell’America Latina hanno dato la vita in nome del Regno, uccisi dalla forze dell’anti-Regno».
Tutti d’accordo sulla possibilità di estendere i «confini» del martirio, ai fini di una condivisione ecumenica. Fino a che punto? Se lo è chiesto William T. Cavanaugh, docente negli Usa, aggiungendo che già oggi il caso di Maria Goretti fa capire che l’odium fidei non può essere l’unico criterio. Dopo aver puntualizzato criticamente le tesi di Bravo – «Il potere ecclesiastico non deve essere opposto alla base profetica; anche all’interno del vertice ci sono stati profeti (come nel caso di Romero)» – Cavanaugh ha rilevato: «I dittatori latinoamericani sapevano benissimo che “il sangue dei martiri è seme dei cristiani”, come diceva Tertulliano. Perciò la strategia è stata quella di atomizzare la Chiesa, occultando martiri: i loro corpi avrebbero dato visibilità al corpo di Cristo».
Dal simposio di Bose i partecipanti sono ripartiti con la speranza di ridare slancio al cammino ecumenico riaffermando l’eredità comune dei testimoni della fede, donne e uomini delle Beatitudini. «Anche se durante il simposio ci si è confrontati (pure) sulle modalità per individuare santi e martiri, il nostro intento non era certo quello di “forzare” i criteri attuali o pretendere di istituire un meta-criterio», spiega Guido Dotti, della comunità di Bose e organizzatore dell’incontro. «Più semplicemente, usciamo dai lavori convinti – una volta di più – di dover rendere maggiormente consapevoli le rispettive Chiese del tesoro di fede comune. È un cammino avviato, esempi positivi non mancano, ma c’è ancora molta strada da percorrere»

Dove la memoria  è gia ecumenica
Dove già oggi si esercita una «memoria ecumenica» dei martiri? Il caso più emblematico e noto è quello della Basilica di San Bartolomeo a Roma, che ospita il memoriale dei “nuovi martiri”. Presso quella chiesa, per due anni, in preparazione al Giubileo del 2000, lavorò una commissione istituita da Papa Wojtyla per indagare sui martiri cristiani del Ventesimo secolo. Vennero raccolti circa 12.000 dossier relativi a testimoni della fede di tutto il mondo. Giovanni Paolo II volle che la memoria dei martiri del Novecento rimanesse anche oltre il Giubileo. Il 12 ottobre 2002, con una solenne celebrazione ecumenica, l’icona dei Testimoni della fede del XX secolo fu posta sull’altare maggiore della Basilica di San Bartolomeo e benedetta. Furono anche collocate croci e memorie cristiane nelle sei cappelle laterali, dedicate ai diversi contesti storici (nazismo e comunismo) e geografici in cui i testimoni della fede hanno vissuto.
In altre parti d’Europa non mancano esempi di condivisione della memoria dei «testimoni della fede». Nella cattedrale protestante di Utrecht c’è una cappella per i martiri di tutte le confessioni. Anche a Canterbury una cappella propone figure di «testimoni universali», quali il missionario Charles de Foucauld, il pastore protestante Martin Luther King, l’arcivescovo Oscar Romero e altri cristiani di tutte le confessioni.  G.F.

Il Cantico dei Cantici

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http://www.artbible.net/1T/Son0101_6songs_love/index_8.htm

Publié dans:immagini sacre |on 15 mai, 2012 |Pas de commentaires »

IL CANTICO DEI CANTICI: UNA POESIA EROTICA O UNA METAFORA RELIGIOSA?

http://www.zenit.org/article-30585?l=italian

IL CANTICO DEI CANTICI: UNA POESIA EROTICA O UNA METAFORA RELIGIOSA?

Saluto del Rettore della PUL all’incontro su « Aprimi, mia amica » (Ct 5,2)

di Enrico dal Covolo

Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense
ROMA, lunedì 14 maggio 2012 (ZENIT.org).- Saluto cordialmente tutti i presenti, ma in modo speciale i benemeriti Responsabili della “Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio”.
A nome dell’intera Università Lateranense, desidero esprimere ancora una volta la riconoscenza e il sincero apprezzamento per le iniziative che la “Cattedra” continua ad assumere, con metodo e contenuti degni di ogni lode.
Ho seguito da ultimo, con grande soddisfazione, il ciclo di lezioni dedicato alle sei “strutture dell’essere cristiano” delineate da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, a partire dalla sua indimenticabile Introduzione al cristianesimo.
1. L’evento che questa sera inauguriamo si apre con un interrogativo. In realtà esso coglie uno dei problemi principali del Cantico dei Cantici nella storia della sua interpretazione: vi si tratta di una poesia erotica, o di una metafora religiosa?
In effetti, il Cantico è l’unico dei cinque meghillot o rotoli (gli altri quattro sono Rut, Qohelet, Lamentazioni ed Ester), che nella Scrittura ebraica e cristiana non accenna alle relazioni tra il Signore e Israele, né anticipa quelle tra Cristo e la Chiesa nella Scrittura cristiana.
Nondimeno questo Cantico – che è il più bello di tutti e cinque, composto in ambiente palestinese per descrivere l’amore tra il re e la Sunnamita – è stato inserito sia nel canone ebraico sia in quello cristiano delle Scritture Sacre, perché è stato sempre interpretato, allo stesso tempo, come espressione di un amore fisico e di un amore spirituale.
Per la tradizione biblica, sulla scia del Cantico si pongono lo stupendo Libro di Osea, il profeta chiamato dal Signore a prendere in moglie una donna di prostituzione, per veicolare l’amore fedele del Signore, nonostante quello infedele del suo popolo (“La condurrò nel deserto, e parlerò al suo cuore…”: 2,16); e la visione di Ezechiele, che libera Gerusalemme dalle sue impurità, per renderla sua sposa nella fedeltà (cfr. Ezechiele 16).
Nella tradizione cristiana il Cantico sublime rinvia, a seconda dei casi, all’amore tra Cristo e la Chiesa, tra Maria e il Signore, tra il Signore e l’anima credente.
2. Origene, nel III secolo, si è dedicato a più riprese al Cantico dei cantici. Ma del testo originale, in lingua greca, del suo commento sono pervenuti solo alcuni frammenti. Ci è giunta invece la traduzione latina – benché parziale e approssimativa – di Rufino.
Anche delle due omelie di Origene sul Cantico possediamo scarsi frammenti, ma qui ci soccorre la traduzione latina di Girolamo, che (a differenza di Rufino) traduce – a suo stesso dire – fideliter.
Nel complesso, l’interpretazione origeniana del Cantico è cristologica e ecclesiologica insieme: “Bella è la Chiesa, quando è vicina a Cristo e lo imita”, leggiamo per esempio nella seconda omelia. “La Sposa, finché sarà rimasta lontana dallo sposo, non è bella; allora diventa bella, quando si unisce alla Parola di Dio” (Seconda omelia sul Cantico 4).
Da parte sua, Girolamo attesta: “Se Origene ha superato tutti nell’interpretazione di altri libri della Scrittura, sul Cantico dei Cantici egli ha superato se stesso”.
Fra l’altro, nella Prima omelia origeniana incontriamo uno dei rari passaggi nei quali un autore tenta di descrivere la propria esperienza mistica. E’ là, dove Origene confessa: “Molte volte – Dio me ne è testimone – ho sentito che lo Sposo si accostava a me in massimo grado; dopo egli se ne andava all’improvviso, e io non potei trovare quello che cercavo. Nuovamente mi prende il desiderio della sua venuta, e talvolta egli torna, e quando mi è apparso, quando lo tengo tra le mani, ecco che ancora mi sfugge, e una volta che è svanito mi metto ancora a cercarlo…” (7).
3. Seguono i commenti di Gregorio di Nissa, di Filone di Carpasia e di Teodoro di Cirro per la tradizione orientale, tra il IV e il V secolo. Per la tradizione occidentale, il Cantico occupa un ruolo privilegiato nelle omelie di sant’Ambrogio di Milano, che definisce “bella la Chiesa nelle anime”. Guglielmo di Saint-Thierry ne comporrà gli Excerpta ex libri beati Ambrosii super Cantica Canticorum.
4. Con le omelie di Papa Gregorio Magno il Cantico inizia ad essere commentato nella tradizione monastica. Così in epoca medievale proseguono i commenti di Beda il Venerabile (VIII sec.), di Pascasio Radberto (IX sec.), di Ruperto di Deutz, di Bernardo di Clairvaux, di Guglielmo di Saint-Thierry, di Goffredo di Auxerre e di Onorio di Autun. Onorio commenta il cantico nel suo Sigillum Beatae Mariae, con cui s’impone l’interpretazione mariana della Sposa.
5. Fra questi autori, che ho appena citato, mi fermo solo un momento su Bernardo di Clairvaux, all’estrema conclusione, ormai, dell’età patristica in Occidente.
Nel suo commento al Cantico dei Cantici l’abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima, se non è condito con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù. Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù. Gesù, miele nella bocca, canto nell’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilus)” (Sermone sul Cantico dei Cantici 15,6).
Come si giustifica questo inno appassionato del santo abate? La verità è che Bernardo resta affascinato da una profonda certezza di fede. Grazie al sacrificio di Cristo, egli si sente raggiunto dalla santità di Dio: “Quello che io non posso ottenere da me stesso”, cioè la santità, scrive in un altro Sermone sul Cantico dei Cantici, “io me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore” (Sermone sul Cantico dei Cantici 61,4-5).
6. L’ultimo grande filone sul Cantico è quello della mistica spagnola, a cui si riconducono santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce. Per loro, la vita contemplativa è relazione sponsale tra Cristo e l’anima credente.
Così la grande Teresa commenta il Cantico dei Cantici 1,4 nel suo Castello interiore: “Ora l’orazione di cui parlo è appunto la cella vinaria, nella quale è il Signore a introdurci, ma quando e come vuole lui. Da noi, con i nostri sforzi, non vi possiamo entrare: bisogna che ci introduca Lui. Ed Egli lo fa, quando entra nel centro dell’anima nostra”.
***
Pertanto il più bel canto d’amore della Scrittura, composto con altissimo lirismo per raccontare l’amore sponsale tra l’amato e l’amata, si dilata all’infinito nei suoi vari riferimenti all’amore tra Cristo e la Chiesa, tra la Madre di Gesù e il Signore, tra ogni credente e Dio.
Come ha ben evidenziato Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est, l’agape non è una forma di amore disincarnato, ma coinvolge la dimensione fisica dell’eros e quella reciproca della philia, elevandole alla gratuità del dono di sé.
La bellezza dell’amata (di Israele, di Gerusalemme, della Chiesa, di Maria e dell’anima credente) non è artificialmente autoindotta, ma è l’esito della ricerca inesausta dell’Amato, di Cristo Signore, lo Sposo della teologia giovannea (cfr. Gv 3,29).

Salmo 103 (104) Inno a Dio creatore

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/salmo103.htm

Salmo 103 (104) Inno a Dio creatore  

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,

avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda,

costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,

fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.

Egli fondò la terra sulle sue basi:
non potrà mai vacillare.

Tu l’hai coperta con l’oceano come una veste;
al di sopra dei monti stavano le acque.

Al tuo rimprovero esse fuggirono,
al fragore del tuo tuono si ritrassero atterrite.

Salirono sui monti, discesero nelle valli,
verso il luogo che avevi loro assegnato;

hai fissato loro un confine da non oltrepassare,
perché non tornino a coprire la terra.

Tu mandi nelle valli acque sorgive
perché scorrano tra i monti,

dissetino tutte le bestie dei campi
e gli asini selvatici estinguano la loro sete.

In alto abitano gli uccelli del cielo
e cantano tra le fronde.

Dalle tue dimore tu irrighi i monti,
e con il frutto delle tue opere si sazia la terra.

Tu fai crescere l’erba per il bestiame
e le piante che l’uomo coltiva
per trarre cibo dalla terra,

vino che allieta il cuore dell’uomo,
olio che fa brillare il suo volto
e pane che sostiene il suo cuore.

Sono sazi gli alberi del Signore,
i cedri del Libano da lui piantati.

Là gli uccelli fanno il loro nido
e sui cipressi la cicogna ha la sua casa;

le alte montagne per le capre selvatiche,
le rocce rifugio per gli iràci.
Hai fatto la luna per segnare i tempi
e il sole che sa l’ora del tramonto.

Stendi le tenebre e viene la notte:
in essa si aggirano tutte le bestie della foresta;

ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda
e chiedono a Dio il loro cibo.

Sorge il sole: si ritirano
e si accovacciano nelle loro tane.

Allora l’uomo esce per il suo lavoro,
per la sua fatica fino a sera.

Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi;

lo solcano le navi
e il Leviatàn che tu hai plasmato
per giocare con lui.

Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.

Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.

Nascondi il tuo volto: li assale il terrore;
togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.

Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.

Egli guarda la terra ed essa trema,
tocca i monti ed essi fumano.

Voglio cantare al Signore finché ho vita,
cantare inni al mio Dio finché esisto.

A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Scompaiano i peccatori dalla terra
e i malvagi non esistano più.
Benedici il Signore, anima mia.
Alleluia.

Commento

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.
Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo.
Egli ha separato la luce dalla notte e con l’albeggiare stende il cielo “come una tenda”; cioè stende la calotta azzurra del cielo. Così, pure, stende le tenebre della notte: “Stendi le tenebre e viene la notte”. Sovrano del cielo e della terra, pone la sua dimora di re sulle acque, cioè sulle nuvole alte e bianche, là dove nessuno può fare una dimora. Sovrano difende i suoi sudditi fedeli dai nemici, facendo delle nuvole basse e buie il suo carro da guerra trainato dal vento visto come un essere alato: “Costruisci sulle acque le tue alte dimore, fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento”. I venti annunziano il suo arrivo nella tempesta, mentre le folgori presentano la sua potenza sulla terra: “Fai dei venti i tuoi messaggeri e dei fulmini i tuoi ministri”.
Il salmo, che segue l’ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un’immagine tratta dalle congetture dell’uomo.
L’onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva…”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell’ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un’immagine rivolta a presentare come all’inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L’uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l’uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l’autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell’assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l’alito delle narici “togli loro il respiro”. Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all’origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell’amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.

San Mattia Apostolo

San Mattia Apostolo dans immagini sacre 212_Trier

http://cyberbrethren.com/2012/02/24/st-matthias-apostle/

Publié dans:immagini sacre |on 14 mai, 2012 |Pas de commentaires »

Lunedì 14 Maggio 2012 – S. MATTIA, Apostolo e martire (festa)

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=saintfeast&localdate=20120514&id=172&fd=0

Lunedì 14 Maggio 2012 – S. MATTIA, Apostolo e martire (festa)

Mattia è l’unico dei “12” a non essere stato chiamato da Gesù, ma dagli altri apostoli, secondo quanto è scritto negli Atti (1,15-26) :

« In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli (il numero delle persone radunate era circa centoventi) e disse:
“Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù. Egli era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua Akeldamà, cioè Campo di sangue. Infatti sta scritto nel libro dei Salmi: La sua dimora diventi deserta, e nessuno vi abiti, il suo incarico lo prenda un altro. Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione”. Ne furono proposti due, Giuseppe detto Barsabba, che era soprannominato Giusto, e Mattia. Allora essi pregarono dicendo: “Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci quale di questi due hai designato a prendere il posto in questo ministero e apostolato che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto da lui scelto”.
Gettarono quindi le sorti su di loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli. »
Mattia pur non avendo ricevuto direttamente la chiamata da Gesù, è stato, tuttavia, con Lui dall’inizio alla fine della sua vita pubblica, diventando poi testimone della sua morte e risurrezione. Il nome di Mattia compare soltanto nei versetti 23 e 26 del primo capitolo degli Atti. Poi, non si sa più nulla di certo: ci sono solo racconti tradizionali, privi di qualsiasi supporto storico, che parlano della sua predicazione e della sua morte per la fede in Gesù Cristo, ma con totale discordanza sui luoghi: chi dice in Giudea, chi invece in Etiopia.
Lo storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea (ca. 265 – ca. 340), nella sua Storia ecclesiastica, rileva che non esiste alcun elenco dei settanta discepoli di Gesù (distinti dagli apostoli) e aggiunge: “Si racconta anche che Mattia, che fu aggregato al gruppo degli apostoli al posto di Giuda, ed anche il suo compagno che ebbe l’onore di simile candidatura, furono giudicati degni della stessa scelta tra i settanta” (1,12). Dunque Mattia dovrebbe aver fatto parte di quella spedizione di 72 discepoli che Gesù mandò a due a due davanti a sé per predicare in ogni città e luogo dove stava per recarsi, e che tornarono entusiasti dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Lc 10,17).
Tutte le ulteriori informazioni concernenti la vita e la morte di Mattia sono vaghe e contraddittorie.
Secondo Niceforo, egli predicò prima in Giudea e poi in Etiopia e quindi fu crocifisso.
La Sinossi di Doroteo contiene questa tradizione: « Mattia predicò il Vangelo all’interno dell’Etiopia, dove è porto sul mare di Hyssus ed il fiume Phasis, agli uomini barbari e carnivori. Poi morto a Sebastopoli, ed è sepolto qui presso il tempio del Sole »
Sempre un’altra tradizione ci tramanda che Mattia fu lapidato a Gerusalemme dai giudei, e poi decapitato.
È stato detto che sant’Elena Imperatrice portò le reliquie di S. Mattia a Roma : queste sono nell’urna di porfido dell’altare maggiore nella Basilica di S. Maria Maggiore; il capo è conservato negli armadi, con cancelletti di bronzo dorato, ordinati da Benedetto XIV. Altre reliquie sono riposte nella cattedrale di Treviri (Colonia) dove S. Mattia è venerato come Patrono.
Sebbene le tradizioni parlino di Mattia evangelizzatore in Medio Oriente ed in Africa, il suo nome aveva raggiunto, già nei primissimi secoli, l’Europa settentrionale.

Significato del nome Mattia : “uomo di Dio” (ebraico).

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 14 mai, 2012 |Pas de commentaires »
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