Archive pour mai, 2012

In quel Volto, sfigurato dal dolore, Veronica riconosce il Volto trasfigurato dalla gloria; nel sembiante del Servo sofferente, ella vede il Bellissimo tra i figli dell’uomo.

In quel Volto, sfigurato dal dolore, Veronica riconosce il Volto trasfigurato dalla gloria; nel sembiante del Servo sofferente, ella vede il Bellissimo tra i figli dell’uomo. dans immagini sacre veronica%2Be%2Bges%25C3%25B9

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IN MEMORIA DI MONSIGNOR LUIGI PADOVESE

http://www.zenit.org/article-30882?l=italian

IN MEMORIA DI MONSIGNOR LUIGI PADOVESE

Due eventi, a Roma, ricordano il frate cappuccino ucciso in Turchia nel 2010

ROMA, martedì, 29 aprile 2012 (ZENIT.org) – Il 3 giugno 2010 fu ucciso in Turchia – secondo modalità che possono essere defintie in odium fidei – il frate cappuccino, professore e vescovo monsignor Luigi Padovese, Vicario Apostolico dell’Anatolia. A due anni dalla scomparsa la ricorrenza sarà ricordata in diversi luoghi con celebrazioni e incontri.
Venerdì 1 giugno, presso il Monastero S. Chiara di Camerino, nel programma in preparazione alla solennità di santa Camilla Battista Varano, sarà ricordato mediante una santa messa alle ore 18.00, ricordando la lettera che inviò alla stessa comunità di clarisse – quasi un Testamento – poco prima della morte.
Domenica 3 giugno, anniversario della morte – che « casualmente » coincide con lo stesso giorno del decesso del beato Giovanni XXIII anche lui vescovo in Turchia per un decennio – presso il Santuario Antoniano dei Protomartiri Francescani di Terni sarà celebrata una santa messa da p. Paolo Martinelli, ofmCap confratello e collaboratore e successore di monsignor Luigi Padovese e autore del libro Mons. Luigi Padovese. Uomo di comunione (Editrice Velar, Gorle 2011).
In occasione del 2° anniversario della morte di mons. Luigi Padovese, l’Istituto Francescano di Spiritualità (IFS) propone per giorno martedì 5 giugno 2012 due momenti significativi:
- Presso la Pontificia Università Antonianum, nell’Aula A, alle ore 16.30, si svolgerà la presentazione del volume di Mons. Luigi Padovese, La Verità nell’amore. Omelie e scritti pastorali (2004-2010), con la prefazione del cardinale Angelo Scola (Edizioni Terra Santa, Milano 2012).
Interverranno: Prof. Priamo Etzi, OFM, Rettore magnifico della PUA; Fr. Raffaele della Torre, OFMCap, Ministro Provinciale dei Frati Minori Cappuccini della Lombardia; Prof. Paolo Martinelli, OFMCap, Preside IFS; S.Ecc.Prof. Kenan Gürsoy, Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede; Prof. Romano Penna, Pontificia Università Lateranense e Francesca Cocchini, docente presso l’Università « La Sapienza ». Modera: la prof.ssa Maria Grazia Mara, dell’Università « La Sapienza ».
- Presso la Chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, alle 19.30, si terrà la Santa Messa  presieduta da fr. Mauro Jöhri, Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
In questa occasione verrà offerto alla chiesa, dedicata al martiri del nostro tempo, un oggetto-simbolo, appartenuto a mons. Luigi Padovese, in ricordo del suo impegno per la diffusione del Vangelo e per il dialogo tra popoli e religioni.

L’Antico Testamento che ci manca

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=355

(lo posto per oggi, allora non ci avevo pensato purtroppo)

L’Antico Testamento che ci manca

di Giorgio Bernardelli | 14 marzo 2011

Di fronte alle immagini del Giappone devastato ripetiamo la parola Apocalisse. Ma non abbiamo più lo sguardo dei Salmi sulle catastrofi naturali

«… e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Quando rileggo la prima pagina delle Genesi di solito è la parte su cui scivolo via più facilmente. L’ho sempre considerata un retaggio di un vecchio tipo di descrizione scientifica del mondo. Ma ora che guardo alla televisione le immagini che da due giorni ormai ci arrivano dal Giappone sono proprio queste parole le prime che mi vengono alla mente. Insieme alle altre del libro di Qoelet: «Vanità delle vanità: tutto è vanità». O alla constatazione estremamente cruda del salmo 61: «Sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti gli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio».

Da che mondo è mondo le catastrofi naturali hanno sempre fatto affiorare nel cuore dell’uomo le grandi domande. E quindi non mi sento particolarmente originale scrivendo queste cose, né ho la pretesa di addentrarmi in un dibattito teologico sul senso dell’ora terribile che il Giappone sta vivendo. Mi colpisce, però, un aspetto: questo terremoto di inizio Quaresima sembrerebbe fatto apposta per scuotere tante nostre certezze. Perché il Giappone è il Paese antisismico per eccellenza; per cui stavolta non c’è neanche uno straccio di polemica a cui aggrapparci sugli allarmi che non hanno funzionato (come nello tsunami in Sri Lanka) o sulla «casa dello studente» costruita male (come nel nostro terremoto all’Aquila). Certo, adesso stiamo un po’ provando a deviare il discorso sulla questione delle centrali nucleari. Ma ugualmente non si scappa: stavolta è proprio con il tema della nostra umana finitezza che questa catastrofe naturale ci chiede di fare i conti. Ed è un tema che ci mette profondamente a disagio.
Tutti noi in queste ore ricorriamo fondamentalmente a due surrogati. Da una parte l’overdose informativa, scandita dalle immagini ad effetto (ho appena sentito il Tg1 dire che a chi vuole le manderanno anche sulla posta elettronica). E dall’altra la solidarietà, ovviamente preziosa per dare una mano a chi ha perso tutto. Ma queste due risposte bastano davvero? E – da sole – non rischiano di diventare un modo per riportare tutto molto in fretta alla normalità di uno schema che siamo in grado di controllare?
Sono domande aperte. A cui io so dare solo uno sprazzo di mia risposta personale. E torno, dunque, all’immagine da cui sono partito: se penso a come leggere un fatto del genere alla luce della Parola di Dio i brani che mi vengono in mente sono tutti tratti dall’Antico Testamento. Perché in questi casi ci riempiamo tutti la bocca con la parola Apocalisse (senza peraltro ricordarci che vuole dire « rivelazione » – e quindi verrebbe comunque da chiedere: di che cosa?). Ma nella Scrittura sono altri i libri in cui si parla del rapporto del cristiano con le catastrofi naturali. Ad esempio i Salmi sono pieni di immagini forti in questo senso: carestie, terremoti, uragani… Perché? Possibile che capitassero sempre tutte a loro? E allora mi viene da pensare che ciò che abbiamo perso è la capacità di far diventare sapienza condivisa questa consapevolezza del nostro limite. La cura di non fare scorrere via questi shock emotivi, ma farli diventare una preghiera di tutti. Perché – invece – oggi abbiamo confinato questo tipo di esperienze al formulario della Messa «in tempo di terremoto», che andiamo a rispolverare giusto in queste occasioni?
È una domanda che ho l’impressione porti lontano e sento le mie gambe non sufficientemente forti per affrontare una strada del genere. Di una cosa, però, sono certo: noi cristiani dovremmo guardare con un po’ meno sufficienza l’Antico Testamento. E ricominciare a prenderlo in mano sul serio. Un bel proposito da inizio Quaresima…

Giobbe, chi non era costui?

http://www.morasha.it/zehut/gvl06_giobbe.html

Gavriel Levi

Giobbe, chi non era costui?

Settembre 1998 – Shalom

La storia di Giobbe è conosciuta. Giobbe è un uomo intero, diritto che evita il male. Persino D-o lo porta come modello umano agli Angeli. Il Satàn provoca D-o:  » Se è così giusto, avrà la sua convenienza, perché Tu lo ripaghi benissimo; mettilo alla prova e vedremo se rimane integro verso Te « . D-o consegna Giobbe nelle mani del Satàn, che prima lo riduce in povertà, poi gli fa perdere figli e figlie ed infine lo colpisce gravemente nel corpo. Giobbe urla la sua protesta. I suoi amici tentano di consolarlo e di darsi, tutti assieme, una spiegazione:  » Se ti capitano tutte queste disgrazie, vuol dire che hai fatto qualcosa di male « . Giobbe rifiuta di ammettere una colpa inesistente e tempesta D-o, contestando l’ingiustizia del suo dolore. Arriva a maledire il giorno della sua nascita e poiché ritiene che il male non ha nessuna ragione di esistere, conclude che la vita e la creazione sono senza senso. D-o è costretto a rispondere:  » Dove eri tu, mentre Io creavo l’universo? Chi sei tu per comprendere la completezza delle mie azioni? « . Giobbe non si pronuncia sul contenuto della risposta, ma si accontenta del fatto che D-o gli abbia risposto in prima persona. D-o risarcisce Giobbe di tutti i danni che ha dovuto subire. Da notare: il Satàn non partecipa alla discussione di Giobbe con gli amici, e neppure a quella con D-o.
La trama di questa storia, che è parte fondamentale del Tanàkh, è provocatoria: è proprio vero che praticare la giustizia porta il bene e che praticare l’ingiustizia porta il male? E se fosse vero il contrario? D-o è capace di spiegare, superando le ipocrisie moralistiche degli uomini di troppa fede, il significato del dolore universale e delle catastrofi umane?
Secondo i maestri del midràsh:  » Moshè ha scritto la toràh, la vicenda di Bil’àm (il profeta che voleva maledire gli ebrei) ed il libro di Giobbe  » (TB.BB 15a). Contro la maggioranza dei maestri che ritengono Giobbe un personaggio storico reale, R. Shemuèl bar Nachmàni afferma che  » Giobbe non è mai esistito e tutta la sua storia è un’allegoria  » (TB. BB 15a).
Rabbi Iehudàh haNassì ritiene che:  » Se il libro di Giobbe è stato scritto soltanto per spiegare i fatti della generazione del Diluvio, sarebbe sufficiente  » ( Ber. R 26:18)
Con quale gioco di specchi il Talmud guarda il testo biblico? Le tre ipotesi midrashiche riferite sollevano, se considerate insieme, interrogativi speculari:
a) Moshè non aveva abbastanza da fare con la scrittura (sotto dettatura) della toràh? Per quale motivo si sarebbe messo a scrivere, mantenendosi anonimo, una tragedia su fatti che forse erano accaduti ma che lui non aveva visto o che forse non erano neppure avvenuti? Per quale motivo avrebbe scelto di scrivere proprio la storia di Giobbe? Aveva avuto una profezia o sosteneva, con una sua seconda identità, una protesta contro D-o? Perché la storia di Bil’àm, che è scritta dentro la toràh, viene presentata come una storia a sé, in qualche modo fuori della toràh? Quale rapporto esiste tra la storia di Bil’àm e quella di Giobbe? Di nuovo: perché Moshè viene presentato come uno scrittore free-lance ?
b) Il Talmud, per rafforzare l’ipotesi di R.Shemuèl bar Nachmàni che Giobbe è un personaggio immaginario, fornisce un esempio parallelo. Quando Davìd ha mandato a morire Uriàh e ha sposato Batshèva’, il profeta Natàn per potergli contestare la colpa, ha raccontato a David la storia di un pastore ricco che aveva rubato l’unica pecora di un pastore povero. Con rabbia, David ha condannato il pastore ricco ed il profeta Natan ha svelato a David che, fuori metafora, stava parlando di lui (Shem. 2°,12:1-8). Il Talmud sostiene che rispetto alla vicenda di David, non ha importanza se la storia dei due pastori è immaginaria o meno. Quale significato ha questa ipotesi talmudica su un parallelismo tra Moshè con il libro di Giobbe da una parte e Natàn con la storia dei due pastori dall’altra? In particolare, dove sta l’equivalente di David nella storia di Giobbe?
c) Rabbi Iehudàh haNassì è il compilatore della Mishnàh, il nucleo del Talmud. In un certo senso Rabbi Iehudàh sta alla Toràh orale come Moshè sta alla Toràh scritta. Percéè proprio Rabbi Iehudàh sostiene che la storia di Giobbe è una interpretazione esistenziale del Diluvio, il prototipo della catastrofe universale? Perché, anche secondo Rabbì Iehudàh, proprio Moshè, il redattore della toràh scritta, avrebbe sentito il bisogno esistenziale di dare la sua interpretazione sui fatti del Diluvio? La correlazione fra Giobbe ed il Diluvio vuol dire che D-o, con il Diluvio, ha consegnato il mondo nelle mani del Satàn? Oppure, più semplicemente, Rabbì Iehudàh mette sulla bocca di Giobbe la propria richiesta categorica di ottenere una spiegazione morale sull’esistenza del male? Ed in quale modo Rabbi Iehudàh collega Moshè con il Diluvio oltre che con Giobbe?
Forse non è possibile fornire una risposta punto per punto a questi interrogativi, ma certamente è necessario considerare la violenza morale di questo processo interpretativo.
I Maestri inquadrano il contesto politico in cui Moshè viene al mondo.  » Tre personaggi hanno partecipato alla decisione del Faraone di far buttare i bambini ebrei nel Nilo: Bil’am, Giobbe e Itrò « (TB Sotàh 11a). Bil’am, che diede l’idea, morì dopo 120 anni combattendo contro gli ebrei; Giobbe, che tacque, dopo 120 anni trovò le sue disgrazie; Itrò, che fuggì perché non voleva farsi complice, dopo 40 anni diventò suocero di Moshè e dopo 80 anni raggiunse il popolo d’Israele sotto il Sinai, suggerendo a Moshè come praticare un sistema giudiziario giusto.
Il concetto è chiaro: Bil’am, Giobbe e Itrò sono tre figure della responsabilità-solidarietà umana: quando la persecuzione è già decisa si può collaborare con i persecutori, oppure tacere, oppure rifiutarsi e fuggire.
Giobbe è il mezzo giusto che tace. Qualunque sia stato il suo cuore, Giobbe ha lasciato capire al Faraone di essere dalla sua parte ed è quindi incluso nella decisione della persecuzione.
Ma il discorso non è finito; Moshè è il bambino che la figlia del Faraone tira fuori dalle acque, spezzando la persecuzione. Nella storia di Moshè la toràh sviluppa un rovesciamento rispetto alla storia del Diluvio: a) la persecuzione è decisa da un tribunale umano; b) la persecuzione viene fermata da un gesto di solidarietà semplice e non eroica; c) Moshè dovrebbe morire imprigionato nella sua piccola culla-arca, se fuori della culla-arca qualcuno non fermasse il Diluvio.
Moshè diventerà un liberatore soltanto perché qualcuno lo ha salvato. La storia di Moshè ribalta la storia di Noach. D-o non salva Moshè e Moshè non si salva da solo. La sopravvivenza di Moshè dimostra che persino un singolo individuo si può costituire come Altro contro la decisione di un popolo di annichilire un altro popolo.
E se Nòach avesse costruito, anche contro D-o, un’Arca per tutta l’umanità? E se Nòach non avesse costruito nessuna Arca e fosse fuggito? Perché Nòach ha taciuto prima e durante il Diluvio?
Torniamo al primo Midrash da cui siamo partiti: Moshè ha scritto la parashà di Bil’am ed il libro di Giobbe per raccontare la sua storia e per interpretare, con la sua esperienza, la storia del Diluvio:
1) Bil’am è il persecutore segreto che consiglia il Faraone come portare il popolo ebraico al suicidio di massa e che, una generazione dopo, cercherà di maledire gli ebrei , fingendo di rispettare il volere di D-o.
2) Itrò è l’uomo che contrasta la persecuzione senza fare nessun gesto eroico; in un certo senso Itrò obbliga D-o a darsi da fare per salvare gli ebrei. Itrò tornerà ad avere un rapporto collettivo con gli ebrei soltanto dopo che D-o li ha salvati tutti, rompendo le acque del Mar Rosso.
3) Giobbe è l’uomo del silenzio che deve imparare ad urlare, quando riesce a comprendere in prima persona l’assurdità del dolore umano. Per il Midràsh il grido di Giobbe dopo lo svelamento della sua personale preistoria non è più un grido individuale; Giobbe ha scoperto che il suo dolore è il dolore di ogni essere umano e che il suo silenzio alla corte di Faraone è, in sostanza, la vera causa del dolore umano.
4) Moshe deve scrivere il libro di Giobbe. Il bambino che è stato salvato per un piccolo gesto di solidarietà umana è il prototipo vivente di come gli uomini possano salvare gli uomini. L’uomo che è stato perseguitato dentro la culla-arca, e che è stato tirato fuori dalle acque, deve dire in qualche modo a D-o che l’Arca di Nòach è stata un campo di sterminio dentro e fuori il Diluvio.
Nel Talmud è detto che Rabbì Iehudàh haNassì è stato piagato nel corpo perché non aveva capito ed aveva banalizzato la sofferenza di una mucca portata al macello. Rabbì Iehudàh ha capito, sulla sua pelle, che il libro di Giobbe collega il dolore dell’umanità con il dolore dei singoli individui, attraverso la presa di coscienza e l’assunzione di una doppia responsabilità.
E’ una coincidenza che non può essere casuale. Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh, contro il principio di mantenere la toràh orale nella sua forma orale, dopo il secondo massacro compiuto dai romani contro gli ebrei. La motivazione con cui Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh è la stessa che lui attribuisce all’autore del libro di Giobbe: protestare contro il Diluvio, annullandolo. Mentre scrive la toràh orale, Rabbì Iehudàh HaNassì continua a far parlare la toràh scritta.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 29 mai, 2012 |Pas de commentaires »

Day 7 Shabbat, the rest of God and man

Day 7 Shabbat, the rest of God and man dans immagini sacre 16%20LUKAS%20CRANACH%20SCHOPFUNGSBILD%20DER%20LUTHERBIBEL

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Publié dans:immagini sacre |on 28 mai, 2012 |Pas de commentaires »

LA PREGHIERA AL SANTO SPIRITO NELLA CHIESA ORTODOSSA

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/sspiritoboulgakov.htm

LA PREGHIERA AL SANTO SPIRITO NELLA CHIESA ORTODOSSA

del padre Sergej Boulgakov

Una differenza fondamentale separa la preghiera al Santo Spirito e la preghiera fatta al Padre o al Figlio. Quando preghiamo il Padre ci volgiamo sempre direttamente verso lui: “Padre nostro”, o “Abbà, Padre!”. Nella preghiera fatta al Figlio, lo invochiamo ugualmente direttamente: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio!”. Mentre esiste un grande numero di preghiere ecclesiali indirizzate al Padre ed al Figlio, solo in circostanze molto particolari e speciali ci rivolgiamo direttamente allo Santo Spirito. È così che lo invochiamo, ad esempio, nella preghiera “Re celeste, Consolatore” (ne daremo un’analisi più avanti). Ma allo stesso tempo, possiamo constatare che invochiamo soprattutto il Padre ed il Figlio per ricevere il dono del Santo Spirito.
Ne consegue che in generale, nelle nostre preghiere ci rivolgiamo al Santo Spirito in persona, meno che quando facciamo preghiere SUL Santo Spirito, perché scenda in noi. Un esempio particolarmente impressionante di quest’orientamento sarebbe quello della preghiera liturgica dell’epiclesi nella Liturgia di san Giovanni Crisostomo. Il sacerdote comincia con questa preghiera segreta: Ancora ti offriamo questo culto spirituale e incruento e t’invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo: Invia il tuo Santo Spirito su noi e sui doni qui presenti. Quindi recita a tre riprese questo tropario dell’Ora Terza: Signore, che alla terza ora hai inviato il tuo Santissimo Spirito sui tuoi apostoli, non ce Lo ritrarre nella tua bontà, ma rinnovacelo, ora che ti imploriamo. Quindi, si passa ad una benedizione distinta del pane e del vino, alla quale si aggiunge una benedizione in comune in queste parole: cambiandoli con il tuo Santo Spirito. Nell’ectenia [= preghiera litanica] che segue immediatamente la consacrazione dei Santi Doni, chiediamo: Affinché il nostro Dio, amico degli uomini, che li ha ricevuti al suo santo altare, celeste ed invisibile, come un profumo di soavità spirituale, ci invii in cambio la grazia divina ed il dono del Santo Spirito, preghiamo il Signore.
A quest’assenza di preghiere particolari direttamente indirizzate al Santo Spirito, nonostante la ricchezza liturgica generale della Chiesa d’Oriente e l’abbondanza delle preghiere di richiesta di ricevere il dono del Santo Spirito, si aggiunge ancora questo notevole fatto liturgico: La Chiesa Ortodossa, diversamente dalla Chiesa di Roma, chiama il secondo giorno di Pentecoste Festa del Santo Spirito. Nella Chiesa di Roma, il corrispondente a questa festa si chiama Festa della Santa Trinità, che è celebrata soltanto la domenica successiva. Questo giorno è in, infatti, il solo che sia dedicato alla terza ipostasi; rappresenta in un certo qual modo un’estensione della Pentecoste. Ma questa festa del Santo Spirito non è comunque sottolineata da un rito particolare, eccetto quello del canone speciale letto al Vespro. Non vediamo qui che una ripetizione dell’ufficio di Pentecoste, senza preghiera speciale al Santo Spirito[1].
Da quest’ufficio emerge un’altra particolare caratteristica, detta della genuflessione. Al vespro il giorno della Pentecoste, sono lette tre lunghe preghiere mentre tutti si inginocchiano, senza che una o l’altra fra esse celi un’invocazione diretta al Santo Spirito, ma soltanto a Dio Padre ed a Dio il Figlio. Questa discrezione espressiva praticata dalla Chiesa testimonia chiaramente che in questa età, nel Regno della Grazia, il volto ipostatico personale del Santo Spirito non ci è ancora rivelato, ma che lo sarà nel Regno della Gloria, che è ancora da venire. E quando preghiamo Dio, la nostra preghiera rappresenta l’attività del Santo Spirito in noi; poiché infatti: “…Iddio mandò lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori il quale grida: «Abbà, padre!»” (Galati 4, 6).
Quest’assenza di ogni invocazione diretta di devozione al Santo Spirito dà allora peso ancora maggiore nell’Ortodossia a una preghiera particolare, il “Re Celeste”. Quest’importanza è duplice; innanzitutto, c’è il fatto che questa preghiera è onnipresente nel ciclo liturgico; in seguito, occorre vedere il suo contenuto dogmatico. In primo luogo, quanto alla sua onnipresenza, diciamo che questa preghiera, ad eccezione del “Padre nostro”, è la più usata e quindi la più importante di tutte le preghiere ortodosse. Si potrebbe anche aggiungere che l’assenza di altre preghiere al Santo Spirito la mette in un contesto molto particolare, cosa che inquadra ancor di più la sua portata[2]. Questa preghiera è inclusa nell’ordo delle preghiere iniziali della mattina e della sera, e di una serie di uffici – le piccole ore, vespri e mattutini, senza dimenticare gli uffici speciali, ecc.
Il “Re Celeste” fa anche parte dell’ufficio celebrato alla Fraternità di Saint-Alban e di Saint-Serge. Sembra ispirare, con la mediazione del Santo Spirito, ogni tipo di devozione e di preghiera. Si attribuisce ancora ulteriore importanza a questa preghiera quando è il sacerdote, in segreto, che la recita prima dell’inizio della Divina Liturgia, quando si invoca il Santo Spirito per la celebrazione del sacramento del Corpo e del Sangue del Signore. In realtà, quest’invocazione costituisce in un certo qual modo un’epiclesi anticipata, anche se l’epiclesi di fatto, nella sua forma interamente sviluppata, si produce dopo la recita delle parole d’istituzione alla Liturgia dei fedeli.
Del resto, l’importanza particolare di questa preghiera è confermata indirettamente non soltanto dal suo uso ma, nello stesso spirito, dalla sua esclusione dal ciclo usuale delle preghiere della Chiesa in momenti precisi, in particolare in occasione della Settimana di Pasqua e nel corso delle settimane che conducono alla Pentecoste. La Chiesa omette allora di indirizzare questa preghiera al Santo Spirito; il tipikòn liturgico la sostituisce con il tropario di Pasqua “Cristo è risorto dai morti…”, tanto in occasione delle preghiere iniziali dei diversi uffici che alla Divina Liturgia. Ovviamente, questa sostituzione conferisce in un certo qual modo un’equivalenza tra l’inno di Pasqua e la preghiera al Santo Spirito, prova evidente del fatto che nel corso della settimana di Pasqua e dei giorni successivi, cioè dopo la Resurrezione di Cristo, siamo, di fatto, passati dal Regno della Grazia al Regno della Gloria, al centro del quale tutto si bagna intrinsecamente nel Santo Spirito, ciò implica che allora non è più necessario fare qualche invocazione speciale al Santo Spirito, perché Dio è tutto, in tutto.
L’assenza di questa preghiera nel corso dei dieci giorni che intercorrono tra l’Ascensione e la Pentecoste ha per parte sua un significato molto diverso. La si omette in questo periodo come privazione, un tipo di digiuno di preghiera, digiuno necessario come preparazione per la discesa del Santo Spirito alla Pentecoste. Così, quando si intona il “Re Celeste” al mattutino ed ai vespri del giorno di Pentecoste, si riveste di una solennità e di un entusiasmo molto speciale. E, a partire dalla Pentecoste la preghiera del “Re Celeste” riprende, nuovamente, il suo posto abituale nell’espressione liturgica della Chiesa.
È ora tempo di osservare questa preghiera nel suo insieme: “Re celeste, Consolatore, Spirito della Verità, che sei ovunque presente e tutto ricolmi, Scrigno dei beni e Dispensatore di vita, vieni, e dimora in noi, e purificaci da ogni macchia, e salva, o Buono, le nostre anime”.
La prima parte della preghiera, ossia l’invocazione “Re Celeste, Consolatore, Spirito della Verità…” racchiude un insegnamento dogmatico sulla Terza Ipostasi come Dio vero (“Re Celeste”). Il Consolatore, nella prospettiva del suo amore ipostatico tra il Padre ed il Figlio[3], il Santo Spirito grazie al quale si raggiunge e si rivela la spiritualità dello Spirito divino tri-ipostatico, è da parte sua lo Spirito di Verità nella sua relazione con la Seconda Ipostasi, che è il Verbo e la Verità. Ma contemporaneamente tutte queste definizioni che riguardano in primo luogo la Santa Trinità in sé, si applicano anche al mondo, poiché per il mondo anche il Santo Spirito è Dio, il Re Celeste, il Consolatore e lo Spirito di verità inviato dal Padre con la mediazione del Figlio.
La seconda parte della preghiera, “…che sei ovunque presente e tutto ricolmi, Scrigno dei beni e Dispensatore di vita”, testimonia in particolare l’attività del Santo Spirito nel mondo. Innanzitutto, la sua onnipresenza: Dio è onnipresente ma ciascuna delle sue ipostasi divine possiede un’immagine speciale di questa presenza iperspaziale. Il Padre è il potere fondamentale della volontà nella creazione del mondo; il Figlio è la sua base o il suo fondamento ideale (“senza di lui nulla è stato fatto”); il Santo Spirito è la forza attiva, che penetra in tutto e che “compie tutto”. È anche Datore di vita; e pertanto il Dio trino stesso è la vita eterna, il Creatore ed il Datore di vita. Mentre la terza Ipostasi, Colui che compie tutto, è la vita della vita nel seno della Santa Trinità, ugualmente è anche la potenza speciale di vita di ogni creatura. Un inno della Chiesa ricorda che “È con il Santo Spirito che ogni anima vive” (Anavathmì del 4° tono). Ogni realtà che accompagna ciascuna di queste vite appartiene al Santo Spirito, poiché è la potenza reale. Se la vita come tale è la più grande benedizione, è il “Tesoro inesauribile di tutti i beni”, cosa che include non soltanto il dono naturale della vita, ma anche i doni della grazia che ci è data dal Santo Spirito e che rappresenta la potenza della vita.
Questa parte della preghiera descrive, si potrebbe dire, l’attività oggettiva del Santo Spirito nel mondo e la presenza in seno al mondo, mentre l’ultima parte della preghiera tratta del settore del soggettivo, in particolare della reazione degli uomini e la loro accettazione del Santo Spirito, per richiedergli la salvezza personale (“vieni, e dimora in noi, e purificaci da ogni macchia, e salva, o Buono, le nostre anime…”). Se la vita cristiana consiste nell’acquisizione del Santo Spirito, secondo le parole di san Serafim di Sarov, e se allo stesso tempo la grazia non forza mai nessuno, allora il desiderio e lo sforzo degli uomini sono egualmente necessari per giungere ad accettare questa grazia e ciò deve riflettersi in primo luogo nella preghiera. Dire “Vieni, e dimora in noi” espone una preghiera in vista di una risposta attiva del Santo Spirito ed un’invocazione del Santo Spirito per l’ottenimento dell’ispirazione che porta frutto nella creatività umana. Il fuoco del Santo Spirito brucia la nostra natura peccatrice e ci purifica da qualsiasi peccato. Quindi la domanda dell’inabitazione del Santo Spirito in noi include anche quest’altra domanda, “purificaci da ogni macchia”, affinché siamo purificati dai nostri peccati. Così, tale inabitazione del Santo Spirito in noi è la nostra salvezza. Questa domanda è l’ultima della preghiera. È inclusiva ed, infatti, rappresenta un riassunto di tutta la preghiera.
Allo stesso modo, questa preghiera al Santo Spirito racchiude un contenuto tanto dogmatico che religioso e pratico. Si mette di solito questa preghiera all’inizio di ogni cosa buona che intraprendiamo, particolarmente gli studi, le relazioni, le riunioni pubbliche ecc. Tuttavia ribadiamo ancora una volta che è soltanto in questa sola preghiera eccezionale che invochiamo direttamente il Santo Spirito, mentre di solito preghiamo il Padre ed il Figlio, chiedendo loro di conferirci l’azione del Santo Spirito. La sola presenza di questa preghiera che si rivolge al Padre ed al Figlio ci costituisce una manifestazione del Santo Spirito, che compie in noi la sua ispirazione divina e che, simultaneamente, rileva la nostra ispirazione umana a livello “divino-umano”.

Sobornost (Fellowship of Saint Alban and Saint Serge), 24 giugno 1934.

Traduzione a cura di Tradizione Cristiana

[1] L’ufficio di Pentecoste in sé non contiene alcuna preghiera né inno particolare che invoca direttamente il Santo Spirito, ma soltanto degli inni indirizzati alla Santa Trinità che, tuttavia, contengono, tra l’altro, un’invocazione del Santo Spirito. Ecco un esempio: “Venite, popoli tutti, adoriamo in Tre persone l’unico Dio, nel Padre, il Figlio con il Santo Spirito, poiché il Padre genera il Figlio fuori del tempo, condividendo lo stesso trono e la stessa eternità, e il Santo Spirito è nel Padre, glorificato con il Figlio, una sola potenza, una sola divinità, un solo essere davanti al quale noi tutti, i fedeli, ci prosterniamo dicendo: Dio santo che tutto hai creato dal Figlio con l’assistenza del Santo Spirito, Dio santo e forte dal quale il Padre ci fu rivelato e dal quale il Santo Spirito è venuto in questo mondo, Dio santo ed immortale, Spirito consolatore che procede dal Padre e riposa nel Figlio, Trinità santa, gloria a te” (Lucernale dei vespri di Pentecoste).
[2] È in questo spirito che si può osservare una grande differenza tra questa preghiera ortodossa, “Re celeste”, e l’inno cattolico corrispondente, Veni Creator Spiritus, che ne è l’analogo. L’inno cattolico è certamente usato in modo limitato nella Chiesa: per la festa di Pentecoste, per la Cresima ed in occasione dell’Ordinazione dei sacerdoti e dei vescovi (gli Anglicani hanno anche conservato quest’ultimo uso). Ma quest’inno è assente dalle preghiere quotidiane ad eccezione del piccolo inno utilizzato nell’Ora Terza “Nunc sancte nobis Spiritus”. Tuttavia, mentre il “Re celeste” è ripetuto diverse volte al giorno, il “Nunc sante nobis Spiritus” viene fatto una volta sola. Questo indica accentuazioni differenti: per l’Ortodossia la presenza dello Spirito è da celebrarsi sempre, in quanto attuale, per il mondo latino, tende ad essere un momento ben preciso da riferirsi strettamente all’Ora di Terza.
[3] L’espressione è chiaramente mutuata dalla teologia agostiniana, tuttavia in questo articolo il padre Boulgakov tende a sfumare (si veda poco più avanti) le sue note posizioni teologiche filo-occidentali, che, sebbene non ne furono la causa principale, contribuirono circa un anno dopo alla duplice condanna del suo pensiero (nota a cura di Tradizione Cristiana).

FIL 2, 6-11: FINO ALLA MORTE DI CROCE

www.xaverianas.com/public/pagine_bibliche/Fil%202,6-11.do

FIL 2, 6-11: FINO ALLA MORTE DI CROCE

1. CONTESTO STORICO E TEOLOGICO  
 Dalla prigione, (cfr. Fil 1,7.13s.30), probabilmente ad Efeso, verso l’anno 56, Paolo scrive alla comunità, da lui fondata verso il 50, che si trova a Filippi, ricca e strategica città della Grecia. Fedele al suo insegnamento, tale comunità era per lui fonte di profonda gioia. Paolo la esorta tuttavia a crescere nell’umiltà e insieme nella fermezza, guardandosi dagli avversari esterni.
 Questo inno stupisce chi ritiene che solo verso l’epoca degli scritti giovannei si è affacciata l’idea della preesistenza di Gesù. In realtà, le diverse comunità cristiane hanno avuto il loro percorso e c’è chi fin da questi primissimi tempi ha sondato il mistero di Cristo andando oltre a ritroso alla sua venuta sulla terra. Alcuni concetti invece non sono evidenziati nell’inno: come quello della « morte per » la remissione dei peccati.  

 2. IL TESTO  
 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù:

 6 il quale, pur essendo di natura divina,
  non considerò un tesoro geloso
 la sua uguaglianza con Dio;

 7 ma spogliò se stesso
 assumendo la condizione di servo
 e divenendo simile agli uomini;

 apparso in forma umana,
 8 umiliò se stesso,
 facendosi obbediente fino alla morte
 e alla morte di croce.

 9 Per questo Dio l’ha esaltato
 e gli ha dato il nome
 che è al di sopra di ogni altro nome,

 10 affinché nel nome di Gesù
 ogni ginocchio si pieghi
 nei cieli, sulla terra e sotto terra;

 11 e ogni lingua proclami
 che Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre.

 3. APPROFONDIMENTO DI ALCUNI TERMINI

 Condizione (morphé) (v. 6a. 7b) 
 Per due volte nell’inno appare il termine morphé, qui tradotto con « condizione »: vv. 6a. 7b.
 Nel mondo greco morphé indicava originariamente forma, figura esteriore; in seguito indicò la persona in quanto è percepibile. La morphé non è un involucro esteriore che si può cambiare restando immutata l’essenza; al contrario, è l’espressione dell’essenza. 
 Nella LXX, la traduzione greca dell’A. T., morphé appare solo 9 volte, traduce diversi vocaboli ebraici e non è mai in riferimento a Dio. Cfr. Is 44,13: il falegname fa « una forma d’uomo »; e Dan 3,19: Nabucodonosor aveva « un aspetto minaccioso ». 
 Nel N.T.: nei Vangeli, il sostantivo morphé appare solo in Mc 16,12 (« apparve…sotto un altro aspetto »), mentre il verbo tras-formare si trova in Mt 17,2 e Mc 9,2 per esprimere la trasfigurazione. Il sostantivo appare due volte nel nostro inno e poi più e anche i rari derivati si trovano in Paolo.
 Con l’espressione di Fil 2,6a (in morphé di Dio), l’esistenza di Cristo prima della sua vita terrena è definita divina: egli la « possedeva » nel passato. Con la sua esistenza terrena, egli « si svuotò »: la « forma di servo » (7b) sostituì la « forma divina ». Il modo di esistere di Cristo si modificò radicalmente. Cristo entrò in una condizione di vita che bisogna considerare « come una prigionia e una schiavitù, sotto il regime del potere cosmico e degli ‘elementi del mondo’ » (Bornkamm). Cristo rinunciò all’esistenza divina preesistente per passare a un’esistenza terrena, caratterizzata dall’essere « esistenza da schiavo ». La continuità del soggetto dice tuttavia che colui che prende l’esistenza di schiavo è colui stesso che « era di condizione divina ». 
 In Fil 3,21 appare un termine derivato: symmòrphon: « Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose ». Si tratta anche qui di un cambiamento radicale nel modo d’essere dell’umile corpo, che diventa corpo glorioso. Non significa diventare simile, ma una vita in Cristo, la cui esistenza ci penetra, senza però annullare la nostra personalità. Questo stesso termine si trova anche in Rm 8,29: « Quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito fra molti fratelli ». Ciò significa che entriamo a far parte del suo stesso essere. Si potrebbe parlare di divinizzazione o di cristificazione. Cristo però resta un punto di confronto: « primogenito fra molti fratelli ». Lo stesso termine, ma nella forma verbale, si trova in Fil 3,10: « …diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti ». Paolo vede, nella propria morte, la morte di Cristo che prende di nuovo forma visibile. Anche se, qui come altrove, Cristo e Paolo restano due persone distinte. Anche in Gal 4,19 appare il verbo morphò?: « Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! ». Così pure in Rm 12,2: « Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto ». Si tratta anche qui di un cambiamento radicale.

 Un tesoro geloso ( harpagmòs) (v. 6b) 
 Il sostantivo harpagmòs viene da un verbo che significa impadronirsi di qualcosa, rapire, e ricorre 14 volte nel N.T. Il sostantivo significa l’atto di rapire o la cosa rapita e nel NT appare solo in Fil 2,6b, nell’espressione « ritenere come un guadagno, un bene di fortuna », nel senso o che si utilizza qualcosa di dato o che non si lascia sfuggire una possibilità. Nella frase si riferisce a un bene inattaccabile che Cristo possiede già, dato che se ne svuota (v. 7): si tratta dell’essere uguale a Dio. Cristo non si aggrappa alla sua condizione divina; Adamo invece, sopraffatto dalla tentazione del serpente: « Diventereste come dei »  (Gen 3,5), aveva voluto impossessarsi di tale dignità.

 La sua uguaglianza con (l’essere uguale – ìsos – a ) Dio (v. 6c) 
 Isos significa uguale, corrispondente. Appare 8 v. nel N.T. e in due passi concerne l’uguaglianza di Cristo con Dio: nel nostro passo e in Gv 5,18: « Chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio ».

 Spogliò (ekén?sen) (v. 7a) 
 Nel mondo greco kenòs significava vuoto, senza contenuto(ad es. un pozzo vuoto, una casa vuota, o riferito a una persona, si diceva « a mani vuote »), e il suo opposto era « pieno ». In senso traslato, il termine può significare una vita priva di contenuto, eticamente negativa, vissuta inutilmente . Il verbo kenò? significa rendere vuoto, annientare.
 Nella LXX, kenòs traduce ben 19 termini: allontanarsi da JHWH è affidarsi al nulla (Is 30,7; Ger 18,15). Frequente in Gb: i discorsi degli amici sono vani (27,12; 21,34); la sua vita affonda nel nulla (7,3.6.16: « i miei giorni sono un nulla »).
 Nel N.T. solo Paolo usa questi termini. Il verbo mette l’accento sul vuoto di contenuto e sull’essere annullato: la fede non può essere annullata dalla giustizia della legge (Rm 4,14), la croce di Cristo non può essere distrutta dalla sapienza del discorso (2 Cor 1,17). Ma che significa « annullò se stesso » di Fil 2,7a? Secondo alcuni autori , Cristo si è privato, cioè ha volontariamente scambiato il suo modo di essere divino e preesistente con quello umano e terreno (cf. 2 Cor 8,9: « …da ricco che era, si è fatto povero per voi… »). Per altri , l’espressione traduce alcune parole del IV Canto del servo di JHWH: « Ha consegnato se stesso (alla morte) » e andrebbe perciò tradotta: « Ha svuotato la sua vita », cioè: ha versato, vuotato se stesso. Il significato sarebbe: ha abbandonato la vita sulla croce. Ma poiché di croce si parla solo al v. 8, sembra preferibile la prima interpretazione.

 Servo (doùlos) (v. 7b) 
 Per i greci, la dignità dell’uomo è nella sua libertà personale. Ora, il doùlos per natura non appartiene a sé, ma ad un altro. Per i greci, è una condizione spregevole.
 Nella LXX doùlos traduce l’ebr. ébed, che porta nel suo significato il ricordo della schiavitù in Egitto. Lo schiavo ebreo era a disposizione solo per il lavoro, la sua persona era intoccabile. Quello pagano, acquistato a circa 10 euro, era proprietà del padrone e considerato meno di un cane. Chi si definisce doùlos, riconosce qualcuno sopra di sé. Rispetto a un grande, era un titolo onorifico. Viene usata anche nei confronti di Dio: Mosè, Davide, i profeti erano chiamati « servi di Dio ».
 Nel N.T., l’uso di doùlos e derivati è assai frequente. Noi eravamo schiavi del peccato (Rm 12,11; ecc.), Paolo è servo di Cristo Gesù (Rm 1,1; ecc.), si è fatto schiavo di tutti (1 Cor 9,9). Il Signore stesso è definito doùlos (Fil 2,7b). Assumendo la condizione di schiavo, Cristo si rende pienamente solidale con l’umanità schiava del peccato, della legge e della morte..

 Divenendo simile (homòi?ma) agli uomini (7c)
 Homòi?ma, somiglianza, è frequente nel NT. Rm 8,3 afferma che Dio ha mandato « il suo Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato » (lett.: « in figura simile alla carne del peccato »). È il mistero dell’incarnazione, che appare anche in Fil 2,7: Cristo ha preso la figura di uomo, è diventato uguale all’uomo. I Doceti ritennero questa somiglianza solo apparente. Come in Rm 8,3, qui si afferma che Cristo ha preso in sé una figura umana, unica nella storia e individua. Così Eb dirà che Cristo doveva rendersi in tutto simile ai fratelli (2,17), provato in ogni cosa a somiglianza di noi (4,15). « Uomini », come anche « uomo » in 7d, non evidenzia l’essere maschio di Cristo, ma la sua umanità. Il termine usato infatti è ànthr?pos, che significa essere umano (uomo/donna).

 Nell’aspetto (schéma) (v. 7d) 
 Il termine schéma viene dal verbo avere (èch?), inteso come stato (presenza) e come attività (comportamento). Il sostantivo appare solo due volte nel NT, in Paolo. In Fil 2,7d, si riferisce alla forma umana concreta di Gesù, così come ognuno la poteva vedere (« trovato »). Il senso che Paolo dà a questo termine appare chiaro in 1 Cor 7,31: « …passa la scena di questo mondo! »: non è la forma o l’aspetto esteriore del mondo a passare, ma la sua sostanza.

 Umiliò (etapèin?sen) (v. 8a) 
 Nella letteratura greca, l’aggettivo tapeinòs originariamente aveva il significato locale di « essere situato in basso », significato presente in tutti i sensi traslati: a) socialmente in basso, povero, privo di potere e di posizione sociale, impotente, insignificante; b) servile, non libero; c) scoraggiato, abbattuto. Il termine ha in genere un carattere negativo, è l’estremo opposto della hybris (orgoglio) e va parimenti evitato. Talvolta ha valore positivo, quando significa modesto, ubbidiente alle leggi degli dei.
 Il verbo relativo tapeinò? ha similmente il significato di abbassare, livellare, umiliare, danneggiare, rendere inferiore, in senso sociale, politico, economico; scoraggiare (il soggetto è spesso la sorte, la vita); indurre a ubbidienza, a modestia; sottomettersi a un ordinamento. La forma riflessiva « abbassarsi, umiliarsi » ha generalmente un significato negativo. Alcuni autori tuttavia esortano a risollevare coloro che si abbattono e parlano del coprirsi il capo davanti agli dei durante il culto per esprimere umiliazione. In generale comunque, nel mondo greco la condizione di inferiorità è una vergogna da evitare. 
 Nella Bibbia invece questa famiglia di vocaboli esprime ciò che permette un adeguato rapporto con Dio e con i propri simili. Nella LXX, il termine traduce soprattutto l’ebraico anàh = essere piegato, abbassato (da cui anawìm).  Il significato prevalente è connesso con la confessione di fede in JHWH: Dio abbatte i superbi e elegge e redime gli umiliati. È il messaggio generale dei profeti (cf. Am 2,7; Is 2,9ss; Sof 2,3, dei racconti della storia d’Israele, dei Salmi (Sal 10; 25; 31; 34; 38; ecc) e dei Sapienziali in genere. In Is 53,8, la LXX traduce interpretando: « Per la sua umiliazione (tapèinosis) è stato tolto (dal Signore, sott.) il giudizio su di lui ». Anche negli scritti dei rabbini l’umiltà aveva un posto di primo piano: ma Gesù polemizzerà contro il loro orgoglio pratico. 
 Nel N.T., questa famiglia di termini appare 34 volte: 4 volte in Mt e il resto in Lc-At e Paolo, Gc e 1Pt. In Mt e Lc l’uso di questi termini è legato all’annuncio dell’irruzione escatologica della signoria regale di Dio. Maria loda la grandezza del Signore, che « ha guardato l’umiltà della sua serva » e « ha innalzato gli umili » (ove « serva » suggerisce il significato di « umiltà »: cf. v. 38). Giovanni Battista chiede che per la venuta del Signore « ogni monte e ogni colle sia abbassato (tapein?thésetai) » ( Lc 3,5), come scritto in  Is 40,3ss. Gesù invita a imparare da lui che è « mite e umile di cuore » (Mt 11,29). In Fil 2,6-11, l’ »umiliò se stesso » del v. 8a è definito dal cammino percorso da Gesù, diventato obbediente fino alla morte e una morte vergognosa come quella di croce, senz’altro sostegno che la promessa della fedeltà di Dio. La sua autoumiliazione fonda e rende possibile la nuova vita (« con tutta umiltà – tapeinophrosyn? : avere pensieri umili – « : 2,3)  . « Umiliò » (v. (8) indica assunzione della « casualità e limitatezza del vivere umano in tutta la sua dipendenza e il suo condizionamento, nella sua provvisorietà e frammentarietà » (Georgi). Così Paolo ha imparato a vivere in umili condizioni (a patire la fame, la povertà, le privazioni, ecc.) ; ha imparato ad « abbassare se stesso » con il lavoro corporale  e descrivendo la sua esistenza, dice: « Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei » (At 20,19). Egli nutre la speranza che il Signore « trasfigurerà il nostro misero corpo (lett. il corpo della nostra tapèinosis) per conformarlo al suo corpo glorioso » (Fil 3,21). La connessione dell’umiltà con la venuta imminente del Regno si affievolisce nei Padri, ove l’umiltà è ridotta a atteggiamento penitenziale.

 Obbediente (hupékoos) (v. 8b)  
 Il verbo hupakòu? è un composto dalla preposizione « sotto » e da ascoltare (akòu?), allo stesso modo del corrispondente latino oboedire: ob-audire, alla lettera: stare sotto l’ascolto. Il significato specifico nel mondo greco è aprire rispondendo a chi domanda il permesso di entrare.
 Nella LXX, il verbo traduce l’ebraico shammàh, che significa ascoltare-obbedire. Per l’ebreo, il vero ascolto mette in moto tutto l’essere, porta a un impegno concreto, all’obbedienza, che diventa piena risposta alla rivelazione. L’obbedienza suppone dunque l’ascolto. Anche Dio ascolta l’uomo e gli obbedisce; cf. Is 65,24: « Prima che mi invochino, io risponderò; mentre ancora stanno parlando, io già li avrò ascoltati ».
 Il N.T. rivela che, grazie all’obbedienza di Gesù, le moltitudini sono giustificate (Rm 5,9). Per Paolo, la fede è obbedienza: Rm 10,16; 2 Ts 1,8. « L’obbedienza non indica primariamente un comportamento morale, ma la nuova condizione del cristiano, un atteggiamento positivo di accoglienza della parola » (B. Marconcini). Anche ai Filippesi è dunque chiesto di essere obbedienti (2,12).

 Sopra-innalzato (hyper-hypsò?) (v. 9a) 
 Ypsò? ha alla sua radice il sostantivo hypsos che significa in origine in greco l’estensione verso l’alto, l’altezza (di cose, non di persone); in senso traslato significa superiorità, elevatezza di una cosa o di una persona; nel caso di persone può avere il senso negativo di « orgoglio ». Il suo opposto è la tapéin?sis. 
 Nei LXX hypsò? appare 150 volte e hyper-hypsò? 50 volte, col significato fondamentale di elevare (Sal 18,49; 27,5.6; 30,2…), innalzare (Es 15,2; Sal 57, 6.12; 108,6…), essere/divenire alto (Sal 89,14). Per l’AT, elevare l’uomo è prerogativa esclusiva di Dio: Dio eleva i giusti, cioè coloro, spesso oppressi, che gridano a lui (problematica sociologica). L’uomo però è esposto al pericolo di montare in superbia, innalzandosi da solo. Così in alcuni passi hypsò? significa essere orgoglioso (Sal 37,20). L’esaltazione di Dio è il rendergli omaggio da parte del singolo e della comunità, professando la sua fede in JHWH Signore del cosmo e della storia. In sostanza, l’A.T. desume il concetto di elevazione dal mondo circostante, ma lo demitizza, così che esso diventa espressione dell’azione salvifica di Dio nella realtà mondana (o, in senso contrario, espressione del peccato dell’uomo) e testimonianza della gratitudine, che si manifesta nella lode e nell’adorazione. Il verbo levare o sollevare può indicare anche il gesto con il quale il padre riconosce il figlio.
 Nel N.T., il verbo hypsò? appare 20 volte e significa render grande, elevare, esaltare . Per sette volte Gesù ne è il destinatario . Nelle prime asserzioni cristologiche, la risurrezione e l’elevazione di Gesù sono ancora considerate come un tutt’uno, secondo il modello della vita del giusto com’era concepita in Israele. Nel nostro inno l’elevazione di Gesù appare come una conseguenza della sua ubbidienza nella sofferenza e consiste nell’investitura della sua funzione di Signore da esercitare non solo nella comunità, ma sul cosmo intero. Cf. Rm 1,4; 1 Tm 3,16 . In quest’elevazione « Gesù viene dimostrato come giusto » (Schweizer).

 Il Nome (hònoma) (v. 9b): Signore (Kyrios) 
 Il Nome per eccellenza per l’ebreo è quello impronunciabile: JHWH. Il titolo di Signore, dato a Dio, diventa anche il nome di Cristo (cf. Ap. 19,16). « L’invocazione liturgica di Gesù come Signore è una delle confessioni più antiche, se non la più antica, della fede cristiana. Con essa, la Chiesa… si sottopone al suo Signore, professando anche il suo dominio sul mondo (cf. … Fil 2,11)… Per la fede giudaica contemporanea, le diverse sfere del mondo, naturali e storiche, sono rette da potenze angeliche. Da quando Gesù è stato innalzato a Kyrios, tutte le potenze devono essere sottomesse a lui e servirlo (Col 2,6-16; Ef 1,20s) » (H. Bietenhard). L’espressione « nel Signore » è frequente in Filippesi (cf. 2,24.29; 3,1; 4,1).

 Ogni lingua confessi (v. 11a) 
 Nel NT il verbo « confessare » significa dichiarare liberamente, professare pubblicamente. La homologhìa è la professione di fede cristiana (2 Cor 9,13). « Ogni lingua » che professa ad una voce richiama la dispersione delle lingue, dopo il tentativo di auto-innalzamento di Babele: « Il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra » (Gen 11,9b). Così, Fil 2,6-11 presenta il tema della riunificazione caro agli inni paolini (cf. Ef 1,10; 2,16; Col 1,20).

 A gloria (dòxa) (v. 11c) 
 Uno dei significati di dòxa nel mondo greco è fama, considerazione. Nella LXX questo termine esprime gloria, magnificenza e indica l’apparizione di una persona, sottolineando l’impressone da essa provocata. Doxa  traduce l’ebraico kabòd, che, riferito a Dio, ne indica non l’essenza, ma il modo di manifestarsi, in tutto il suo splendore, nella creazione, nella storia o nel tempio. In generale, la gloria è una proprietà esclusiva di Dio. Si attende alla fine dei tempi un’ultima apparizione del kabòd, che ha come scopo la salvezza d’Israele e dei pagani (Is 60,1s; Sal 96,3ss). Nel NT, il termine assume maggiormente una prospettiva escatologica: la redenzione consiste in definitiva nel fatto che l’uomo e la creazione saranno partecipi della maniera di essere di Dio.

 4. COMPOSIZIONE
 Fil 2,6-11 
  (5 Abbiate in voi le stesse disposizioni che furono in Cristo Gesù:) 

 6 il quale, essendo nella condizione di Dio,
  non considerò un tesoro geloso
 la sua uguaglianza con Dio; 
 7 ma spogliò se stesso
 assumendo la condizione di servo
 e divenendo simile agli uomini; 
 e trovato nell’aspetto come uomo,
 8 umiliò se stesso,
 divenendo obbediente fino alla morte 
 e alla morte di croce. 
 9 Per questo Dio lo ha sopra-innalzato
 e gli ha donato il nome
 che è sopra ogni nome, 
 10 affinché nel nome di Gesù
 ogni ginocchio si pieghi
 dei celesti, dei terreni e dei sub-terreni, 
 11 e ogni lingua confessi
 che Signore è Gesù Cristo
 a gloria di Dio Padre. 

 Sette brani
 Si può ritrovare nell’inno una composizione settenaria, che richiama il candelabro (la menoràh) che gli ebrei accendevano ogni sera nel tempio ad esprimere la loro speranza nel Dio d’Israele. I sette brani, concentrici, sono a due a due paralleli, con un centro costituito dal v. 8c:

 A: 6: era nella condizione di Dio
    B: 7abc: assunse la condizione di servo
       C: 7d-8ab: sotto l’ascolto fino alla morte
          D: 8c: e alla morte di croce
       C’: 9: Dio lo ha sopra-innalzato
    B’: 10: ogni ginocchio si pieghi nel suo Nome
 A’:11: Signore è Gesù Cristo, a gloria di Dio Padre

 I rapporti fra i brani 
 A-A’: Nel brano iniziale e finale appare « Dio », che alla fine è chiamato anche « Padre ». A « la sua uguaglianza con Dio » (v. 6) corrisponde « Signore » al v. 11b. Cristo Gesù non si arroga come un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (v. 6): e tutti lo riconoscono Signore, a gloria del Padre (v. 11). Tuttavia in A’ c’è in più la presenza di « ogni lingua » e c’è la « gloria » che al Padre è data dall’universale proclamazione di Gesù come Signore. 
 B-B’: Alla condizione di servo (o schiavo), sottomesso al potere degli elementi,  che Cristo Gesù prende (v. 7) corrispondono i ginocchi piegati davanti a lui delle potenze dei cieli, della terra e di sottoterra (v. 10).  
 C-C’: All’abbassamento del suo essere uomo obbediente (lett. « sotto l’ascolto ») fino alla morte (v. 7d-8b), corrisponde un innalzamento fino ad un nome che è sopra ogni altro nome (v. 9). A « umiliò » corrisponde il suo opposto « sopra-innalzato ». 
 D: Il centro è composto in greco da tre parole: « e alla-morte di-croce ». La relazione di questa espressione con l’inizio e la fine dell’inno è di totale opposizione: « l’uguaglianza con Dio » (v. 6c) e « Signore è Gesù Cristo » (v. 11b). Questo punto estremo di lontananza dalla condizione di Dio raggiunto da Gesù ha come esito il convergere delle lingue in un sola confessione di Gesù come Signore: tutto questo è a gloria del Padre: Gesù riunifica le lingue nella lode del Padre: rifà la condizione del mondo uscito dalle mani di Dio. Si spende per Dio « permettendogli » di essere « Padre », si spende per tutti gli essere riportandolo alla loro chiamata iniziale: la lode del Padre. 
 Nei primi tre versetti il soggetto è Cristo Gesù: è lui il protagonista della discesa. Oltre la croce il soggetto è Dio (v. 9), che lo innalza, e « ogni ginocchio » e « ogni lingua » come soggetti secondari (vv.10s).  

 5. IL CONTESTO BIBLICO 
 L’insieme dell’inno richiama la figura del Servo, il cui orecchio è reso ogni mattina attento, e che non oppone resistenza e non si sottrae alla sofferenza (Is 50,4ss). Il suo volto non sarà neppure più d’uomo, sarà tolto di mezzo. JHWH, cui è piaciuto prostrarlo, gli darà in premio le moltitudini (Is 52,13-53,12).
 I vv. 10 e 11 si ispirano a Is 45,23: « Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua ». « Il titolo di ‘Signore’, collegato a questa citazione, va equiparato al nome di Dio nell’Antico Testamento » (Gnilka).
 L’espressione « in voi », del v. 5,  che introduce all’inno, significa non « nel vostro intimo », ma « tra di voi ». Nei versetti precedenti, infatti,  Paolo esorta i Filippesi a una convivenza nella carità, che si manifesta nell’umiltà, in cui si considerino gli altri superiori a se stessi (v. 3), e si obbedisca (cfr. v. 12): termini questi che ricorrono nell’inno, riferiti a Gesù.  Egli appare dunque il modello di vita della comunità, anzi, più di questo. All’espressione « in Cristo Gesù », autorevoli commentatori danno il senso che essa ha generalmente in Paolo, non di imitazione, ma di « vita in », così che la frase potrebbe essere così intesa: « Abbiate gli uni verso gli altri le disposizioni che si hanno, che voi avete, Filippesi, e che dovete sempre più avere nella comunione di Gesù Cristo ». Così, subito dopo l’inno, Paolo richiama i Filippesi all’obbedienza (v. 12). I versetti d’introduzione all’inno (2,1-5) e quelli che lo seguono immediatamente (2,12-18), descrivono nel loro insieme la vita cristiana, nelle sue relazioni comunitarie (1-5), che diventano apostoliche perché segno luminoso nel mondo (12-18). L’apostolo appare, in questo cammino che è di tutti, come colui che è pronto a dare la vita e con gioia, perché, nella comunione con Gesù, tutti abbiano le sue disposizioni.

6. PISTE D’INTERPRETAZIONE
  »… e alla morte di croce » (v. 8c).
Al centro dell’inno c’è Uno morto sulla croce: contemplando lui, Paolo, nel buio della sua prigione, compone il suo inno. Vede il cammino che ha portato Gesù a quel punto e ciò che ne è seguito. Paolo è stato affascinato dal Cristo crocifisso, dal quale ha compreso un fatto  essenziale: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 3,20). Così non può più pensare se stesso se non conformato a lui: « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20a). Vede con gioia il suo cammino d’apostolo configurarsi a quello del Crocifisso; poco oltre il nostro inno afferma: « E anche se il mio sangue deve esser versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi » (Fil 2,17).

  »Assumendo la condizione di servo » (v. 7 b)
Colui che era « uguale a Dio » volontariamente (tutti i verbi sono all’attivo), si spoglia della sua condizione per assumere quella dell’uomo, segnata dalla sottomissione agli elementi: da una conoscenza graduale e limitata, da una vita legata a un tempo e a un luogo, esposta alla fatica, alla malattia, alla morte, vulnerabile insomma. Un testo dei primi tempi della Chiesa dice: « Poiché la sua bontà fece piccola la sua grandezza, egli divenne come io sono » (Od. Sal 7,3s).

  »Umiliò se stesso » (v. 8a)
L’antica tentazione: »Diventerete come dei » è da sempre nell’uomo. Egli cerca di salire: avere di più, contare di più, sapere di più, godere di più, vivere di più. Essere il primo, ricevere onore, essere servito è il suo grande sogno. In un mondo in cui il vecchio Adamo rinasce in ogni uomo, Gesù viene come l’uomo nuovo. Va nel senso opposto. Scende il solo che stava in alto.

  »Fino alla morte » (v. 8b)
« Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a celebrarti?
Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi? » (Sal 88,11-12).
Così pregava l’Ebreo per convincere YHWH a salvarlo da morte. Anche il salmo più tragico, il 22: « Dio mio, Dio mio, perché mi hi abbandonato?  si chiude con un canto di lode perché Dio ha strappato il suo fedele dall’orlo dell’abisso. Per Gesù non è così: egli arriva a varcare l’ultima soglia. E Dio sembra quasi aspettare.

« E noi lo giudicavamo castigato » (Is 53,4)
Non c’era morte più infame, tanto che gli ebrei non la decretavano mai, e i romani la riservavano ai non cittadini e ai ribelli.  Poiché sta scritto: « Maledetto chi pende dal legno » (Dt 21,21), subendo questo supplizio, Gesù « diventa lui stesso maledizione » (Gal 3,13), raggiunge cioè il punto estremo di distanza di una condizione d’uomo da quella di Dio.

  »Diventando obbediente » (v. 8b)
Lo svuotamento e la discesa di Gesù apparentemente non sono spiegati. Il v. 8 però fa intuire la presenza di qualcun’altro in questo percorso: « divenendo obbediente ». Gesù compiendo questo percorso è in ascolto fattivo di qualcuno. Il suo abbassamento è anzitutto interiore, di obbedienza. Gesù ha vissuto la sua discesa in fiducia a Qualcuno, fino all’ultima soglia, quella del non ritorno, quella in cui la vita sfugge irreparabilmente: la morte. Ha saputo dire sì anche quando questo gli strappava l’ultima cosa rimasta, l’ultimo soffio. Nessuno è più sposseduto di colui che è morto. Gesù ha rischiato più dell’orante del salmo 22. 

Discesa ed elevazione
Alla discesa di Gesù fa seguito, come conseguenza, ma con un aspetto anche di successione temporale, la sua elevazione ad opera di Dio. Il Padre attende che Cristo compia per intero il suo percorso di obbedienza e di fiducia e lo costituisce Signore dell’universo. Cristo non recupera semplicemente la situazione iniziale, ma trascina quell’umanità dispersa che andava per le proprie strade (1 Pt 2,25; Gv 11,52) e l’intero universo, perché ad una voce riconoscendolo Signore, dia gloria al Padre (cf. Ef 1,14). La riflessione successiva di Giovanni, ma anche di Luca (9,51) farà intuire che la discesa era in se stessa una salita, perché era l’espressione massima dell’amore di Gesù al Padre e all’umanità.

I sentimenti di Gesù
Questo inno è estremamente sobrio, descrive i fatti e solo quel « diventato obbediente » apre uno squarcio sul mondo interiore di Gesù. Per la Bibbia l’amore non è un sentire, ma una decisione operativa. È in questa decisione la sua stabilità, anche quando il sentimento non viene in aiuto. La discesa di Gesù non fu un percorso facile, né spontaneo: « Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì » (Eb 5,7-8). Paolo ha compreso dalla croce l’amore di Gesù (cf. Gal 3, 20), e questo amore gli preme dentro spingendolo all’apostolato: « L’amore del Cristo (cioè: di Cristo per noi) ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti » (2 Cor 5,14).

7. PISTE DI RIFLESSIONE

1. Rileggi più volte il testo, avendo sotto gli occhi, come Paolo, il Cristo crocifisso.
2. Che cosa vi si dice di Cristo? E di Dio? E di me, di noi?
3. La parola « obbediente » che cosa rivela del mondo interiore di Gesù?
4. Che cos’è l’amore, a partire da questo testo?
5. Questo passo mi richiama altri testi biblici? Quali soprattutto?
6. Che annuncio mi giunge dal passo?
7. Come appare la mia vita alla luce di questa Parola?
8. Che decisione mi chiede?
9. Che fare, concretamente?

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 28 mai, 2012 |Pas de commentaires »
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