Archive pour avril, 2012

San Stanislao: Lettera apostolica di Giovanni Paolo II nel centenario del martirio del santo

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Le Lettere Apostoliche di Giovanni Paolo II: Rutilans agmen

Rutilans agmen

Lettera apostolica nel IX centenario del martirio di San Stanislao

Ai venerabili fratelli Stefano Wyszynski, cardinale di Santa Romana Chiesa, arcivescovo metropolita di Gniezno e Varsavia, Francesco Macharski, arcivescovo metropolita di Cracovia, agli altri Vescovi e a tutta la Chiesa di Polonia: nel compimento del nono secolo dalla morte di san Stanislao, vescovo e martire
1. La fulgida schiera di quanti, per la difesa della fede e delle virtù cristiane, hanno affrontato con coraggio tormenti e morte ha dato abitualmente alla Chiesa, sin dall’inizio e lungo i secoli, meravigliosa vigoria e forza. Giustamente esclama sant’Agostino: « La terra si è impregnata del sangue dei martiri come di un seme, dal quale è spuntata la messe della Chiesa. Parlano di Cristo più i morti che i vivi. Parlano oggi, oggi predicano: tace la lingua ma gridano le gesta » (« Serm ». 286,4; PL 32, 1298). Sembra che siffatti pensieri possano oggi applicarsi, con singolare corrispondenza, alla Chiesa che vive in Polonia: anch’essa è cresciuta dal sangue dei martiri, tra i quali posto eminente occupa san Stanislao, la cui vita e morte pare che parlino con insistenza.
Proprio nell’anno in cui la Chiesa là stabilita celebra il compimento del nono secolo dal martirio dello stesso san Stanislao, Vescovo di Cracovia, non e possibile che manchi la voce del Vescovo di Roma, successore del beato Pietro. Questo giubileo è di estrema importanza e si connette strettamente con la storia della Chiesa e della Nazione Polacca: questo popolo, per più di mille anni ha avuto e coltivato intimi legami con la stessa Chiesa. Quella voce, lo ripetiamo, non può mancare tanto più che colui il quale, ancora poco fa, era successore di san Stanislao nella sede episcopale di Cracovia, per un misterioso disegno di Dio, è stato promosso alla Cattedra di Pietro quale Pastore universale della Chiesa.
E’ davvero straordinaria questa occasione che ci si offre: al nono centenario della morte di san Stanislao pubblichiamo questa lettera che noi stessi avevamo chiesto venisse redatta: prima al nostro grande predecessore Paolo VI, e poi all’immediato suo successore, Giovanni Paolo I, che esercitò il ministero pontificale solo per 33 giorni. Oggi dunque, diamo attuazione non solo a quanto abbiamo chiesto come Arcivescovo di Cracovia ad ambedue i nostri predecessori, ma realizziamo anche un particolare, vivo desiderio dell’animo nostro. Chi mai avrebbe potuto immaginare che, proprio all’approssimarsi delle feste programmate per questo giubileo di san Stanislao, noi stessi avremmo lasciato la sede episcopale di Cracovia, già retta da quel Santo, e per i voti dei Cardinali a Conclave saremmo passati alla sede di Roma? Chi mai avrebbe potuto supporre che noi avremmo festeggiato quei grandi giorni non come « padre nella propria casa », ma in qualità di ospite tornato nelle terre dei padri in qualità di primo Papa Polacco e come primo Pontefice in visita a quelle regioni?
2. Secondo il calendario liturgico della Chiesa di Polonia la festa di san Stanislao viene da secoli celebrata l’8 maggio. Ma a Cracovia la solennità esterna è trasferita alla domenica successiva a quel giorno: allora dalla cattedra, sul colle « Wavel », si snoda la processione verso la chiesa di San Michele in « Rupella », dove, secondo la tradizione, il Vescovo Stanislao, originario del villaggio di Szczepanów, fu martirizzato durante la celebrazione dell’eucaristia da Boleslao l’Ardito.
Quest’anno è stato stabilito che le grandi solennità in onore di san Stanislao, rivestendo il carattere di giubileo, si protraggano dalla domenica successiva all’8 maggio fino al periodo compreso tra le domeniche di Pentecoste e della Santissima Trinità. Della più grande importanza è, infatti, il giorno di Pentecoste, in cui la Chiesa ricorda la sua nascita nel Cenacolo di Gerusalemme: di lì gli Apostoli, radunati prima in preghiera con la Madre di Gesù, Maria (cfr. At 1,14), uscirono pieni di quella forza che era stata infusa nei loro animi come speciale dono dello Spirito Santo. Usciti di lì, si diffusero per il mondo ad eseguire l’ordine di Cristo: « Perciò, andate ad ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato » (Mt 28,19-20). Sicché gli Apostoli uscirono dal Cenacolo dalla Pentecoste: di lì, ugualmente provengono lungo la storia umana i loro successori; di lì, nella sua epoca, uscì anche san Stanislao di Szczepanów a testimoniare, lui che recava in petto il medesimo dono della fortezza, la verità del Vangelo sino alla effusione del sangue.
Ebbene, quella generazione, lontana da noi nove secoli, fu una generazione di nostri antenati: essi, come san Stanislao, loro Vescovo nella sede di Cracovia, sono ossa delle nostre ossa e sangue del sangue nostro.
Il periodo di ministero pastorale fu per lui breve, dall’anno 1072 al 1079, un arco cioè di sette anni: ma il suo frutto ancora perdura, giacché in lui si verificarono davvero le parole di Cristo agli Apostoli: « Vi ho costituiti perché andiate a portar frutto e perché il vostro frutto perduri » (Gv 15,16).
3. Le solennità in onore di san Stanislao, con le quali, a nove secoli dalla sua morte, ci riferiamo in certo qual modo al « Cenacolo di Pentecoste », rivestono un profondissimo significato: infatti dal Cenacolo provengono quanti, secondo la parola di Cristo, sono andati per il mondo intero « ad ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo » (Mt 25,19). E la Nazione Polacca nell’anno 966 ebbe il lavacro battesimale nel nome della Santissima Trinità.
Dunque, or non è molto, si è compiuto un millennio da quell’epoca che segnò in pari tempo l’inizio della storia della Chiesa in Polonia e della stessa Nazione Polacca. Occorre proprio tenere in evidenza la grande efficacia nascosta nel battesimo: nel sacramento, cioè, in forza del quale veniamo sepolti insieme a Cristo (cfr. Col 2,12), per esser partecipi della sua risurrezione, di quella vita che il Figlio di Dio fatto uomo volle fosse vita delle nostre anime; e l’inizio di tale vita è nel battesimo, il quale, perché amministrato in nome della Santissima Trinità, dà agli uomini « il potere di divenir figli di Dio » (Gv 1,12) nello Spirito Santo.
Il millennio di quel battesimo, celebrato nel 1966 in Polonia come anno dedicato alla glorificazione della Santissima Trinità, include anche questo giubileo di san Stanislao: infatti di questo sacramento – dal quale ogni uomo viene consacrato a Dio in maniera particolare (cfr. « Lumen Gentium », 44) – vanno considerati come i frutti più rigogliosi proprio i santi: essi in vita e in morte si son resi « dono eterno » a Dio (III Preghiera Eucaristica).
Perciò, quando nella festa della Santissima Trinità di quest’anno 1979 faremo memoria solenne del martirio di san Stanislao, ricorderemo anche il battesimo, amministrato in nome della Santissima Trinità, dal quale egli spuntò come primo e, certo, maturo frutto di santità. A lui tutta la Nazione ha tanto guardato: in questo Santo, della sua stessa gente, la Polonia, una volta immersa nel salutare lavacro dei cristiani, ha riconosciuto con animo riconoscente il frutto di quella nuova vita di cui egli fu partecipe.
Tutto ciò spinge ad includere con speciale venerazione il nono centenario del martirio di san Stanislao nel Millennio del battesimo ricevuto dai nostri antenati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
E per dar maggiore impulso a tale venerazione stabiliamo – secondo il desiderio dei Vescovi di Polonia – che la memoria di san Stanislao venga elevata al grado di memoria obbligatoria nel calendario liturgico della Chiesa universale.
4. Il culto prestato a san Stanislao per nove secoli ha messo profonde radici in Polonia. Non poco contribuì ad accrescere tale venerazione la canonizzazione con cui l’8 settembre 1253 il nostro predecessore, Papa Innocenzo IV, in Assisi presso il sepolcro di san Francesco, decretò a questo meraviglioso personaggio gli onori dei Santi. Davvero poggia su radici profonde questo culto! Esse pervadono tutta la storia della Chiesa in Polonia, compaiono nella vita stessa della Nazione, sono unite al suo destino. Il culto di san Stanislao è attestato non solo dalle annuali festività, ma anche dalle nostre diocesi, chiese e parrocchie dedicate a lui in quella terra e fuori: dovunque, infatti, arrivavano, i figli della Polonia introducevano il culto di questo grande patrono. Per molti secoli san Stanislao era stato il principale patrono della Polonia; ma, per concessione di Giovanni XXIII, nostro predecessore, egli condivide la protezione della Nazione con la beata Vergine Maria, Regina della Polonia e con san Wojciech (Adalberto). Per cui, volgendo il nono centenario del martirio di san Stanislao, tale solenne commemorazione riguarda non solo la sede di Cracovia, ma anche Gniezno e Montechiaro. Infatti per quasi mille anni accanto a san Stanislao, Presule di Cracovia, veniva posto san Wojciech (Adalberto), il cui corpo. martoriato sotto il re Boleslao il Grande soprannominato Chrobry. fu sepolto a Gniezno. Quindi l’uno e l’altro santo, Stanislao e Adalberto, ed insieme la beata Vergine Maria, Regina della Polonia e Madre della Chiesa, difendono la patria.
I luoghi relativi alla vita e alla morte di san Stanislao sono religiosamente onorati: egli è particolarmente venerato nella Chiesa cattedrale di Cracovia sul colle « Wavel », dove si trova il suo sepolcro, nonché nel tempio del villaggio « Rupella » e nel suo villaggio natale Szczepanów, che ora si trova nel territorio della diocesi di Tarnów. Vengono venerate le sue reliquie, specialmente quella del capo, che ancor oggi reca segni evidenti delle ferite mortali inferte nove secoli fa. Intorno a queste reliquie del capo si raccolgono ogni anno abitanti della città regale e pii pellegrini da tutta la Polonia, per onorarle con grandiosa processione per le vie di Cracovia. E proprio a questa processione partecipavano nei secoli passati i re di Polonia successori di Boleslao l’Ardito, il quale, come s’e detto, nel 1079 aveva ucciso san Stanislao ma, secondo la tradizione, era morto fuori della patria e riconciliato con Dio.
Non ha, proprio quest’ultimo fatto, un particolare significato? Non è forse la prova che san Stanislao e stato nei secoli per i suoi concittadini, autorità e sudditi, il fautore della riconciliazione con Dio? Non svela forse quel particolare legame spirituale, di cui tutti grazie al suo martirio sono stati e sono tuttora partecipi? Questo certo è effetto di una morte la quale in forza del mistero battesimale è stata profondamente innestata nella Risurrezione di Cristo, nella sua verità, nel suo amore: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dar la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
5. San Stanislao patrono dei Polacchi! Con quanta commozione il Pontefice Romano pronunzia queste parole! egli per tanti anni della sua vita e del suo ministero episcopale si è sentito unito a questo patrono e a tutta la tradizione a lui relativa. Egli ha avuto a cuore tutti gli studi che nel secolo passato e nel nostro hanno avuto per oggetto i fatti di nove secoli or sono e i moventi che portarono a quel crimine. Tali studi provano che il fatto in sé, affidato alla storia, e lo stesso illustre protagonista sono ancora fonte di attività, di ricerca e precisazione del vero: tutto ciò possa sempre aver vitalità e importanza per la vita dell uomo, della Nazione e della Chiesa.
Pertanto, a motivo di questa singolare « vitalità » di san Stanislao, patrono della Polonia, occorre che noi, nel nono centenario della sua testimonianza resa in vita e in morte, offriamo a Dio Uno e Trino, attraverso la Madre di Cristo e della Chiesa, tutte le realtà che hanno costituito e costituiscono tuttora quella ricca eredità che la storia della salvezza in Polonia connette con l’anno 1079. E’ un’eredità di fede, di speranza, di carità, che dà piena e convincente spiegazione della vita umana e sociale. E’ un’eredità di sollecitudine per la salvezza e il bene spirituale e materiale del prossimo, cioè dei cittadini della stessa Nazione e di tutti coloro ai quali dobbiamo servire con stabile perseveranza. E’ anche un’eredità di libertà, la quale è manifestata dallo stesso servizio e dalla donazione, attuati per amore. E’, infine, una meravigliosa tradizione di solidale unità, per la cui realizzazione nella storia dei Polacchi san Stanislao, la sua morte, il suo culto e soprattutto la sua canonizzazione han dato grande apporto come provano i fatti.
La Chiesa di Polonia ogni anno onora tale eredità; ogni anno si volge alla nobile tradizione di san Stanislao, la quale è divenuta un singolare patrimonio dell’animo Polacco. In questo anno del Signore, 1979, la Chiesa di Polonia, in circostanze particolari, desidera volgersi alla stessa tradizione: si augura di scrutarla più profondamente e di trarne risultati per la vita pratica di ogni giorno; desidera riceverne aiuto nella lotta contro le debolezze, i vizi, i peccati, specialmente contro quelli che più si oppongono al bene dei Polacchi e della Polonia; cerca di rafforzare con una nuova difesa sia la fede e la speranza del premio futuro, in forza delle quali adempiere la propria missione, sia la fiducia nel servizio da prestare per la salvezza di ciascuno e di tutti.
A tali desideri, a simili ardenti richieste dei cuori, che giungono sino a noi dalla patria, noi, Giovanni Paolo II, Polacco, ci associamo intimamente. E mentre la nostra mente è presa dalla grande importanza di questo giubileo, impartiamo con grande affetto la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, agli altri Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli della Polonia.

Vaticano, 8 maggio 1979

Omelia del card. Scola nella Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore

http://www.zenit.org/article-30236?l=italian

« LA CHIESA, COMUNITÀ DI REDENTI GENERATA DALLA PASQUA »

Omelia del card. Scola nella Domenica di Pasqua nella Risurrezione del Signore

MILANO, domenica, 8 aprile 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata oggi dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, durante la Messa del giorno nella Pasqua di Risurrezione.
***
1. «Questo è il giorno che ha fatto il Signore; rallegriamoci e in esso esultiamo» (Sal 117): così, col ritornello del Salmo responsoriale, la Chiesa nostra Madre ci ha invitato alla gioia. Perché? Ce lo dirà con forza ineguagliabile un passaggio sconvolgente e paradossale del Prefazio: «beata mors, quae nodos mortis exsolvit», beata, cioè eternamente felice -la beatitudine, infatti, dice la felicità eterna, quella che non passerà più-, la morte [del nostro Redentore] perché ha sciolto per sempre i lacci della morte.
Come si può parlare di una morte beata? Da dove viene alla Chiesa, e quindi a ciascuno di noi, la certezza circa una tale possibilità? Come mai, dopo il giorno di Pasqua, i discepoli poterono ritornare sui tragici eventi del Venerdì Santo e scoprire in essi quanto annunciato dalle Scritture? Forse siamo così distratti dall’abitudine che non ci rendiamo conto della assoluta singolarità dell’avvenimento della Risurrezione, di come ogni cosa dipenda dalla verità del suo annuncio.
2.Per poter rispondere alle domande poste è necessario contemplare quanto accadde ai discepoli «nei quaranta giorni» dopo la Pasqua (cf. Lettura, At 1,3). Le letture bibliche appena ascoltate. mettono in evidenza la reale presenza di Gesù risorto dopo la morte, testimoniata in modo autorevole da coloro che l’hanno visto e incontrato. Le apparizioni del Crocifisso Risorto sono la porta di accesso alla sconvolgente novità della Pasqua.
È questo l’annuncio esplicito di Paolo: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (Epistola, 1Cor 15,3-5).Paolo si considera apostolo in forza della medesima esperienza che egli condivide con gli altri apostoli: aver incontrato Gesù risorto vivo. In effetti è questa l’esperienza fondante e probante la verità dell’annuncio cristiano: l’evento è la morte redentrice di Gesù, certificata nel suo significato di salvezza dalla risurrezione. Lo mostrano le Scritture lette alla luce del fatto accertato delle apparizioni.
3. Anche l’inizio degli Atti degli Apostoli ci racconta di questo singolare momento in cui Gesù «si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove» (Lettura, At 1,3).
Che cosa fa il Signore Risorto dandosi a vedere dai Suoi? Li introduce nel rapporto nuovo inaugurato appunto dalla Sua Risurrezione. Infatti, «durante quaranta giorni» (Lettura, At 1,3) – il numero biblico indica sempre un tempo propedeutico: alla alleanza dopo il diluvio; alla rivelazione di Dio sul Sinai per Mosè, all’entrata nella Terra Promessa per il popolo, al ministero pubblico per Gesù, ecc. – il Risorto si accompagna a loro perché possano accertare la verità della nuova vita di Gesù e abituarsi, quindi, alla nuova modalità della Sua presenza; Gesù, inoltre, li istruisce sulle cose riguardanti il Regno di Dio, perché possano re-imparare alla luce della Risurrezione quello che avevano già da Lui ascoltato; il Risorto, infine, li prepara ad attendere il dono dello Spirito – «tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (Lettura, At 1,5) – che consente a tutti coloro che lo seguiranno di «aver parte» diretta con Lui.
Questi tre elementi – la novità della presenza del Risorto, la comprensione del disegno salvifico del Padre e il dono dello Spirito – descrivono l’esperienza del nuovo rapporto con Gesù. Non solo di quella dei primi, ma anche della nostra.
Chiediamoci: si può ancora sostenere che una simile forma di esperienza, l’esperienza cristiana, sia ragionevole? La sua rivendicazione della verità poggia su solide basi? Pensiamo, ad esempio, alla obiezione di quanti, a partire dalle strabilianti scoperte della scienza, sostengono che tutto è solo Natura (“naturalismo biologico”). Ebbene noi possiamo, come credenti, accettare tutti i risultati comprovati delle scienze naturali – sottolineo tutti i risultati, non tutte le loro interpretazioni e non ogni loro uso – integrandoli con l’esistenza di un Dio Creatore e Redentore dell’universo. Non sono pochi gli scienziati credenti a testimoniarlo.
Qualcuno di loro ha coniato l’espressione “naturalismo teista” (Peacocke). L’esperienza cristiana è ragionevole anche per il sofisticato uomo del terzo millennio.
4. Il racconto evangelico approfondisce poi la natura dell’esperienza cristiana a partire dal rapporto con il Crocifisso Risorto, vivo in mezzo a noi.
Maria di Magdala è la prima a cui il Risorto si manifesta. Il fatto, del tutto sorprendente – ci si aspetterebbe che apparisse prima agli apostoli – è la registrazione di quello che davvero è avvenuto (nessun “falsificatore” avrebbe fatto una scelta così clamorosamente “scorretta”).
Con grande delicatezza ci viene indicato che il riconoscimento di Gesù Risorto è primariamente una questione di conoscenza amorosa. «Donna, perché piangi? Chi cerchi? (…) Signore se l’hai portato via tu… Maria!… Maestro» (Vangelo, Gv 20,15-16).
L’identificazione del Risorto chiede, tuttavia, a Maria un cambiamento: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli» (Vangelo, Gv 20,17). Non si può riconoscere il Risorto senza cambiare. Ecco perché, come ci ha ricordato il Santo Padre nell’omelia della Messa Crismale, «resta chiaro che la conformazione a Cristo» – che esige cambiamento personale e comunitario -«è il presupposto e la base di ogni rinnovamento» nella Chiesa, dell’autentica missione.
Le apparizioni di Gesù, a cominciare da quelle a Maria di Magdala, hanno lo scopo di abituare i discepoli alla sua nuova condizione divino-umana. Essa è riconoscibile nella Chiesa, sacramento universale di salvezza (cfr. LG 48) a partire dalla tracce del Risorto nella vita della comunità cristiana. Ne sono frutti: il perdono, la pace, la letizia, la carità – «per l’oppressione del misero ed il gemito del povero… Io risorgerò» (ci ha fatto pregare la Chiesa nel Sabato Santo) (Ufficio delle Letture, Ant. 5)» -, la missione fino alla consegna della propria vita nel martirio.
Così il Risorto si dà a vedere perché al riconoscimento segua il lieto annuncio che la vita nuova è accessibile a tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi. Le apparizioni del Risorto hanno come scopo di testimoniare la verità della risurrezione del Salvatore. Infatti, Maria rende testimonianza dicendo: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18).
5. Veramente oggi con la liturgia ambrosiana possiamo esclamare: «O mysterium gratia plenum, O ineffabile divini muneris sacramentum, O sollemnitatum omnium honoranda sollemnitas» O mistero ricco di grazia, O ineffabile sacramento del dono divino. O festa che dà origine a tutte le feste (Prefazio). Poiché oggi è il giorno della liberazione, il giorno in cui la morte beata del Signore ci ha donato per sempre la grazia della libertà.
La libertà, infatti, è lo splendore della Pasqua che brilla sul volto degli uomini che Lo riconoscono. Ormai niente più, neanche il rumore sordo della morte che accompagna quotidianamente la nostra esistenza, può farci schiavi. Siamo stati acquistati a caro prezzo: il sangue dell’Agnello immolato, dell’Autore della vita. Noi uomini e donne del nostro tempo siamo così assetati di libertà! Al di là di tutte le contraddizioni e fragilità di noi cristiani, la Chiesa, comunità di redenti generata dalla Pasqua, è veramente la dimora della libertà, perché attraverso la testimonianza dei cristiani è possibile scoprire che «Dio – come ha scritto von Balthasar – non è una fortezza rinchiusa che noi con le nostre macchine da guerra (ascesi, introspezione mistica, ecc.) dobbiamo espugnare, è invece una casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati ad entrare».
Buona Pasqua di risurrezione!

Vangelo di oggi: “Donna dimmi perché piangi….chi cerchi?

Vangelo di oggi: “Donna dimmi perché piangi….chi cerchi? dans immagini sacre noli-me-tangereg

http://www.diocesipadova.it/pls/s2ewdiocesipadova/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=4184

Publié dans:immagini sacre |on 10 avril, 2012 |Pas de commentaires »

LA CHIESA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL FORO BOARIO

http://www.zenit.org/article-30226?l=italian

LA CHIESA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL FORO BOARIO

ho scelto delle immagini e spiegazione:
http://www.romaspqr.it/roma/CHIESE/Chiese_Medievali/S_Maria_Cosmedin.htm

La cultura greca nella Roma primordiale

di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 7 aprile 2012 (ZENIT.org).- Quella che oggi rappresenta una delle più antiche e caratteristiche aree storico-artistiche ed archeologiche della capitale, nota con il nome di Foro Boario (Forum Boarium o Bovarium, l’antico mercato del bestiame), sei secoli prima di Cristo non era altro che una zona paludosa che venne interamente bonificata con la costruzione della Cloaca Maxima, il grande collettore per la raccolta delle ‘acque scure’ che scaricava all’altezza dell’Isola Tiberina.
Pochi sono a conoscenza del fatto che siamo in presenza di uno dei più antichi contesti archeologici della città. Qui infatti sono state ritrovate prove inconfutabili della presenza della cultura greca ancor prima della fondazione di Roma che la tradizione attribuisce a Romolo e avvenuta il 21 aprile del 753 a.C. Da allora l’area ha sempre avuto una destinazione mercantile, soprattutto grazie alla costruzione del primo porto usato dai mercanti greci, noto come Porto Tiberino. Anche quando l’area portuale venne meno, questa venne inglobata in un grande contesto comprendente, tra l’altro, l’area ludica del Circo Massimo. La sua destinazione cultuale è caratterizzata dalla presenza di tre strutture, due delle quali ancora interamente visibili: il tempio di Portunus, il tempio di Ercole Olivario (spesso erroneamente attribuito a Vesta) e l’Ara Massima di Ercole.
Se i due templi rappresentano un unicum nel panorama edilizio cultuale di epoca repubblicana a Roma, ormai celebri e conosciuti attraverso le molte immagini nelle cartoline e nei libri di storia, l’Ara di Ercole è praticamente sconosciuta. Questa rappresenta il primo centro cultuale costruito e dedicato ad Ercole da Evandro, al di sopra del luogo in cui, secondo Tito Livio, l’eroe uccise il gigante Caco durante una delle sue celebri fatiche.
I pochissimi resti del monumento greco (e dei suoi rimaneggiamenti romani) sono attualmente visibili all’interno della Basilica di Santa Maria in Cosmedin, le cui maggiori testimonianze sono visibili all’interno della cripta e consistono in blocchi di tufo formanti una parte del podio.
La Basilica è uno dei più fulgidi esempi di architettura ecclesiastica di epoca medievale. Fin dal VI secolo infatti, al di sopra di antichi edifici romani (comprendenti anche l’ara di Ercole) identificati come statio annonae ( luogo di approvvigionamento e distribuzione di cibo per il popolo), venne edificata una diaconia, trasformata appena il secolo dopo da papa Gregorio I in una piccola chiesa. Fu comunque papa Adriano I nell’VIII secolo a dargli l’aspetto attuale, dividendola in tre navate ed inglobando al suo interno molti materiali e reperti di epoca romana. E’ interessante notare come la tradizione della cultura greca sia un elemento ininterrotto fina dall’VIII secolo a.C. Sappiamo infatti che papa Adriano affidò la gestione del luogo ad una comunità di monaci greci, stanziata in quella che già veniva definita lungo il Tevere la ‘Riva Greca’. Fu nel IX secolo che vennero aggiunti l’oratorio e la sacrestia, mentre nel XII secolo l’edificio venne completato dallo splendido campanile (scandito da bifore e trifore e decorato da maioliche) e il portico.
La presenza dell’elemento culturale greco (presente ancora oggi visto che la chiesa è di rito cattolico greco-melchita) condizionò il toponimo dell’edificio fin dalle origini, facendo riferimento al termine greco kosmidion che significa ‘ornamento’. Mai termine fu così appropriato vista la bellezza dei contenuti artistici che si ammirano nel suo interno. I pavimenti presentano numerosi esempi della più fine decorazione cosmatesca, la splendida schola cantorum è antico esempio di liturgia cristiana, formata da due pulpiti e relativi baldacchini datata al XIII secolo, il baldacchino e l’altare maggiore, ricavato da un unico pezzo di granito rosso e il cero pasquale, qui dedicato nel XIII secolo completano la navata centrale dell’edificio, nell’alternanza di pietre colorate con la lucentezza del marmo bianco.
La magia della sacralità del luogo viene spesso turbata dalla calca di turisti che pullulano il portico per poter sperimentare personalmente i prodigi della celebre Bocca della Verità, legata a molteplici tradizioni e leggende. Fin dalla notte dei tempi gli si attribuiscono poteri divinatori, rivelando adultéri e tradimenti a chi infilava la ‘colpevole’ mano all’interno della sua bocca. Un altro frammento di ‘profana’ storia romana, divenuto leggenda nell’immaginario popolare ma ricondotto dagli studi degli ultimi anni ad un tombino romano, ultima testimonianza di come spesso l’uomo abbia bisogno dei miti per poter credere nella realtà.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali  e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

Publié dans:ARTE, ARTE: LE CHIESE |on 10 avril, 2012 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA DEL CRISMA – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (5 aprile 2012)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120405_messa-crismale_it.html

SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui. “Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?” Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi? Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?
Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.
Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.
Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”. I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.
Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale. C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento, il (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso. Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.
Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: E che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.
L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore. Amen.

Peter Von Cornelius, le tre Marie al sepolcro

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http://www.settemuse.it/pittori_scultori_europei/peter_von_cornelius.htm

Publié dans:immagini sacre |on 9 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Cristo è Risorto

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http://modeoflife.org/2011/04/14/the-gospel-of-resurrection-i-cor-xv-an-ode-to-pascha/

Publié dans:immagini sacre |on 7 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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