Archive pour avril, 2012

Non ci sia per me altro vanto che nella croce del Signore Gesù Cristo, del Beato Guerrico, abate al dodicesimo secolo.

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« Discorsi », disc 2 sui Rami di Palme 1
    Ed. PIEMME – Casale Monferrato (Al)
(Adattato per la liturgia)

Non ci sia per me altro vanto che nella croce del Signore Gesù Cristo
del Beato Guerrico, abate al dodicesimo secolo.

          Nulla è più conveniente predicare che Gesù Cristo, e questi crocifisso. Che cosa distrugge i peccati, crocifigge i vizi, nutre e rinsalda le virtù, quanto il ricordo del Crocifisso ?
          L’apostolo Paolo parli pure tra i perfetti di una sapienza nascosta, misteriosa ; a me, anche imperfetto agli occhi degli uomini, parli invece di Cristo crocifisso, stoltezza per coloro che si perdono, ma potenza di Dio e sapienza di Dio per me e per coloro che si salvano (Cfr. 1 Cor 1, 23-24). Per me è altissima e purissima filosofia, grazie alla quale mi prendo gioco della presunta sapienza del mondo e della carne.
         Quanto mi riterrei perfetto ed esperto nella sapienza, se fossi trovato un autentico discepolo del Crocifisso, « il quale per opera di Dio è diventato per  noi » non solo « sapienza e giustizia », ma anche « santificazione e redenzione ! » (1 Cor 1, 30).
         Se dunque sei crocifisso con Cristo, allora sei sapiente, sei giusto, sei santo, sei libero. Non è sapiente chi, innalzato da terra con Cristo, cerca e gusta le cose di lassù ?
         Può non essere giusto, colui nel quale e stato distrutto il corpo del peccato perché non sia più servo del peccato ? Non è santo chi offre se stesso come ostia viva, santa, gradita a Dio ? O non è libero, colui che il Figlio di Dio ha liberato e che, per la libertà della sua coscienza, ha fiducia di poter fare sua quella libera affermazione del Figlio : « Viene il principe del mondo ; egli non ha nessun potere su di me » (Gv 14,30) ?
         Davvero presso il Crocifisso è la misericordia e grande la redenzione (Cfr. sal 129, 7) ; egli che ha redento Israele da tutte le sue colpe, meritando di fuggire, libero, le calunnie del principe di questo mondo. Dicano pertanto i riscattati del Signore, che egli liberò dalla mano del nemico e radunò da tutti i paesi, dicano – ripeto – con la voce e lo spirito del loro Maestro : « Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo » (Gal 6, 14).

di San Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera ai Romani : Immensa è la bontà di Dio che non risparmiò suo Figlio

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Omelie sulla lettera ai Romani

Immensa è la bontà di Dio che non risparmiò suo Figlio

di San Giovanni Crisostomo, nel quarto secolo

         «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rm 8, 31). Contro il fedele che è attento alla legge di Dio non possono nulla né l’uomo né il demonio, né qualunque altra potenza. Se gli sottrai denaro, prepari il suo guadagno; se parli male di lui, proprio a causa del suo sparlare lo rendi più splendido presso  Dio; se lo riduci alla fame, maggiore sarà la sua gloria e la sua ricompensa; se poi, e questa è giudicata cosa più grave, lo consegni alla morte, gli intrecci la corona del martirio. Che cosa sarà dunque paragonabile a questa vita, in cui niente può colpirlo, se anche coloro che sembrano insidiarlo, non sono meno utili di coloro che lo ricolmano di benefici? Perciò dice: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rm 8, 31).

         Poi, non contento di quanto aveva già detto, come massimo segno dell’amore del Padre verso di noi, e che spesso ci ripete, aggiunge anche questo: la morte del Figlio. (…) «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8, 32). Come potrebbe abbandonarci, se non ha risparmiato suo Figlio, ma lo ha dato per tutti noi? Pensa quale bontà fu quella di non risparmiare suo Figlio, ma di consegnarlo alla morte, e di consegnarlo per tutti: per i vili, gli ingrati, i nemici, i bestemmiatori. «Come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8, 32).

         Cioè: se ci ha dato suo Figlio, non solo, ma se lo ha dato anche alla morte per noi, di che cosa temi per tutto il resto, dopo che hai ricevuto il Signore? Come puoi dubitare degli altri beni, se possiedi il Signore di ogni bene?

Chiesa di San Domenico, Pinerolo: Affresco raffigurante Dio Padre

Chiesa di San Domenico, Pinerolo: Affresco raffigurante Dio Padre dans immagini sacre sandomenico_DioPadre

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Giovanni Paolo II: La “paternità” di Dio nell’Antico Testamento (20 gennaio 1999)

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 20 gennaio 1999  

La “paternità” di Dio nell’Antico Testamento

1. Il popolo di Israele – come abbiamo già accennato nella scorsa catechesi – ha sperimentato Dio come padre. Al pari di tutti gli altri popoli, ha intuito in lui i sentimenti paterni attinti all’esperienza abituale di un padre terreno. Soprattutto ha colto in Dio un atteggiamento particolarmente paterno, partendo dalla conoscenza diretta della sua speciale azione salvifica (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 238).
Dal primo punto di vista, quello dell’esperienza umana universale, Israele ha riconosciuto la paternità divina a partire dallo stupore dinanzi alla creazione e al rinnovarsi della vita. Il miracolo di un bimbo che si forma nel grembo materno non è spiegabile senza l’intervento di Dio, come ricorda il salmista: « Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre  . . .  » (Sal 139 [138], 13). Israele ha potuto vedere in Dio un padre anche in analogia con alcuni personaggi che detenevano una funzione pubblica, specialmente religiosa, ed erano ritenuti padri: così i sacerdoti (cfr Gdc 17, 10; 18, 19; Gn 45, 8) o i profeti (cfr 2 Re 2, 12). Ben si comprende inoltre come il rispetto che la società israelitica richiedeva per il padre e i genitori inducesse a vedere in Dio un padre esigente. In effetti la legislazione mosaica è molto severa nei confronti dei figli che non rispettano i genitori, fino a prevedere la pena di morte per chi percuote o anche solo maledice il padre o la madre (Es 21, 15.17).
2. Ma al di là di questa rappresentazione suggerita dall’esperienza umana, in Israele matura un’immagine più specifica della divina paternità a partire dagli interventi salvifici di Dio. Salvandolo dalla schiavitù egiziana, Dio chiama Israele ad entrare in un rapporto di alleanza con lui e perfino a ritenersi il suo primogenito. Dio dimostra così di essergli padre in maniera singolare, come emerge dalle parole che rivolge a Mosè: “Allora tu dirai al faraone: dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4, 22). Nell’ora della disperazione, questo popolo-figlio potrà permettersi d’invocare con il medesimo titolo di privilegio il Padre celeste, perché rinnovi ancora il prodigio dell’esodo: “Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai trattato come un primogenito” (Sir 36, 11). In forza di questa situazione, Israele è tenuto ad osservare una legge che lo contraddistingue dagli altri popoli, ai quali deve testimoniare la paternità divina di cui gode in modo speciale. Lo sottolinea il Deuteronomio nel contesto degli impegni derivanti dall’alleanza: “Voi siete figli per il Signore Dio vostro . . . Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 14, ls.).
Non osservando la legge di Dio, Israele opera in contrasto con la sua condizione filiale, procurandosi i rimproveri del Padre celeste: “La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!” (Dt 32, 18). Questa condizione filiale coinvolge tutti i membri del popolo d’Israele, ma viene applicata in modo singolare al discendente e successore di Davide secondo il celebre oracolo di Natan in cui Dio dice: “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2 Sam 7,14; 1 Cron 17,13). Appoggiata su questo oracolo, la tradizione messianica afferma una filiazione divina del Messia. Al re messianico Dio dichiara: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal 2, 7; cfr 110 [109], 3).
3. La paternità divina nei confronti d’Israele è caratterizzata da un amore intenso, costante e compassionevole. Nonostante le infedeltà del popolo, e le conseguenti minacce di castigo, Dio si rivela incapace di rinunciare al suo amore. E lo esprime in termini di profonda tenerezza, anche quando è costretto a lamentare l’incorrispondenza dei suoi figli: “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare . . . Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? . . . Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11, 3s.8; cfr Ger 31, 20).
Persino il rimprovero diviene espressione di un amore di predilezione, come spiega il libro dei Proverbi: « Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto » (Pr 3, 11-12).
4. Una paternità così divina e nello stesso tempo così « umana » nei modi con cui si esprime, riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno. Anche se rare, le immagini dell’Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente significative. Si legge ad esempio nel libro di Isaia: « Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (Is 49, 14-15). E ancora: « Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò » (Is 66, 13).
L’atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche con tratti materni, che ne esprimono la tenerezza e la condiscendenza (cfr CCC, 239). Questo amore, che Dio effonde con tanta ricchezza sul suo popolo, fa esultare il vecchio Tobi e gli fa proclamare: “Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti: Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza. Esaltatelo davanti ad ogni vivente; è Lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per tutti i secoli” (Tb 13, 3-4).

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Giovanni Paolo II: Il volto di Dio Padre, anelito dell’uomo (13 gennaio 1999)

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 gennaio 1999

Il volto di Dio Padre, anelito dell’uomo

1. «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Conf. 1, 1). Questa celebre affermazione, che apre le Confessioni di sant’Agostino, esprime efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge l’uomo a cercare il volto di Dio. È un’esperienza attestata dalle diverse tradizioni religiose. “Dai tempi antichi fino ad oggi – ha detto il Concilio – presso i vari popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si avverte un riconoscimento della divinità suprema o anche del Padre” (Nostra aetate, 2).
In realtà, tante preghiere della letteratura religiosa universale esprimono la convinzione che l’Essere supremo possa essere percepito e invocato come un padre, al quale si arriva attraverso l’esperienza delle premure affettuose ricevute dal padre terreno. Proprio questa relazione ha suscitato in alcune correnti dell’ateismo contemporaneo il sospetto che l’idea stessa di Dio sia la proiezione dell’immagine paterna. Il sospetto, in realtà, è infondato.
È vero tuttavia che, partendo dalla sua esperienza, l’uomo è tentato talvolta di immaginare la divinità con tratti antropomorfici che rispecchiano troppo il mondo umano. La ricerca di Dio procede così “a tentoni”, come Paolo disse nel discorso agli Ateniesi (cfr At 17, 27). Occorre dunque tener presente questo chiaroscuro dell’esperienza religiosa, nella consapevolezza che solo la rivelazione piena, in cui Dio stesso si manifesta, può dissipare le ombre e gli equivoci e far risplendere la luce.
2. Sull’esempio di Paolo, che proprio nel discorso agli Ateniesi cita un verso del poeta Arato sull’origine divina dell’uomo (cfr At 17, 28), la Chiesa guarda con rispetto ai tentativi che le varie religioni compiono per cogliere il volto di Dio, distinguendo nelle loro credenze ciò che è accettabile da quanto è incompatibile con la rivelazione cristiana.
In questa linea si deve considerare un’intuizione religiosa positiva la percezione di Dio come Padre universale del mondo e degli uomini. Non può essere invece accolta l’idea di una divinità dominata dall’arbitrio e dal capriccio. Presso gli antichi greci, ad esempio, il Bene, quale essere sommo e divino, era chiamato anche padre, ma il dio Zeus manifestava la sua paternità tanto nella benevolenza quanto nell’ira e nella malvagità. Nell’Odissea si legge: “Padre Zeus, nessuno è più funesto di te tra gli dei: degli uomini non hai pietà, dopo averli generati e affidati alla sventura e a gravosi dolori” (XX, 201-203).
Tuttavia l’esigenza di un Dio superiore all’arbitrio capriccioso è presente anche tra i greci antichi, come testimonia, ad esempio, l’ »Inno a Zeus » del poeta Cleante. L’idea di un padre divino, pronto al dono generoso della vita e provvido nel fornire i beni necessari all’esistenza, ma anche severo e punitore, e non sempre per una ragione evidente, si collega nelle società antiche all’istituzione del patriarcato e ne trasferisce la concezione più abituale sul piano religioso.
3. In Israele il riconoscimento della paternità di Dio è progressivo e continuamente insidiato dalla tentazione idolatrica che i profeti denunciano con forza: “Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: Tu mi hai generato” (Ger 2, 27). In realtà per l’esperienza religiosa biblica la percezione di Dio come Padre è legata, più che alla sua azione creatrice, al suo intervento storico-salvifico, attraverso il quale stabilisce con Israele uno speciale rapporto di alleanza. Spesso Dio lamenta che il suo amore paterno non ha trovato adeguata corrispondenza: “Il Signore dice: Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1, 2).
La paternità di Dio appare a Israele più salda di quella umana: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27, 10). Il salmista che ha fatto questa dolorosa esperienza di abbandono, e ha trovato in Dio un padre più sollecito di quello terreno, ci indica la via da lui percorsa per giungere a questa meta: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27, 8). Ricercare il volto di Dio è un cammino necessario, che si deve percorrere con sincerità di cuore e impegno costante. Solo il cuore del giusto può gioire nel cercare il volto del Signore (cfr Sal 105, 3s.) e su di lui può quindi risplendere il volto paterno di Dio (cfr Sal 119, 135; cfr. anche 31, 17; 67, 2; 80, 4.8.20). Osservando la legge divina si gode anche pienamente della protezione del Dio dell’alleanza. La benedizione di cui Dio gratifica il suo popolo, tramite la mediazione sacerdotale di Aronne, insiste proprio su questo svelarsi luminoso del volto di Dio: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6, 25s.).
4. Da quando Gesù è venuto nel mondo, la ricerca del volto di Dio Padre ha assunto una dimensione ancora più significativa. Nel suo insegnamento Gesù, fondandosi sulla propria esperienza di Figlio, ha confermato la concezione di Dio come padre, già delineata nell’Antico Testamento; anzi l’ha evidenziata costantemente, vissuta in modo intimo e ineffabile, e proposta come programma di vita per chi vuole ottenere la salvezza.
Soprattutto Gesù si pone in modo assolutamente unico in relazione con la paternità divina, manifestandosi come “figlio” e offrendosi come l’unica strada per giungere al Padre. A Filippo che gli chiede “mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8), egli risponde che conoscere lui significa conoscere il Padre, perché il Padre opera attraverso lui (cfr Gv 14, 8-11). Per chi vuole dunque incontrare il Padre è necessario credere nel Figlio: mediante Lui Dio non si limita ad assicurarci una provvida assistenza paterna, ma comunica la sua stessa vita rendendoci “figli nel Figlio”. È quanto sottolinea con commossa gratitudine l’apostolo Giovanni: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente” (1 Gv 3, 1).

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San Stanislao

San Stanislao dans immagini sacre

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Ottava di Pasqua, mercoledì, Vangelo di oggi: Lc 24,13-35 – Riconobbero Gesù nello spezzare il pane.

Ottava di Pasqua, mercoledì, Vangelo di oggi:

Lc 24,13-35 – Riconobbero Gesù nello spezzare il pane.

Ed ecco, in quello stesso giorno, [il primo della settimana], due [dei discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.
Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Parola del Signore

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