Archive pour avril, 2012

Carlo Maria Martini – Le confessioni di Paolo : Esame di coscienza pastorale

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo5.htm

Carlo Maria Martini – Le confessioni di Paolo

(tratto da una seie di meditazioni di C.M.Martini su Paolo)

Esame di coscienza pastorale

A questo punto del corso di Esercizi, tutti, più o meno, ci disponiamo per fare la confessione sacramentale. Tenendo conto dell’importanza dell’argomento, riprendo brevemente alcuni punti secondo lo schema che parte da una riflessione sul nuovo « ordo paenitentiae ». È uno schema suddiviso in tre parti:

- «confessio laudis »,
- «confessio vitae »,
- «confessio fìdei ».

- Confessio laudis. Occorre iniziare la confessione con un atto di ringraziamento, rispondendo alla domanda: di che cosa devo ringraziare Dio principalmente in questo tempo?
- Confessio vitae. Si tratta di rispondere alle domande: «Che cosa in me vorrei che non fosse stato davanti a Dio? Che cosa mi pesa maggiormente in questo momento? ». La risposta va estesa dalle mancanze agli atteggiamenti interiori da cui le mancanze derivano: antipatie, risentimenti, sospetti, delusioni, amarezze; cose tutte che forse non costituiscono un peccato vero e proprio ma sono la radice ordinaria dei peccati. Messe con umiltà davanti a Dio e alla Chiesa, ci danno la possibilità di lasciarci medicare dalla grazia.
Confessio fidei. È la certezza che Dio, nel suo amore, mi accoglie e mi risana. L’atto di dolore diventa allora una manifestazione di fede.
La meditazione che ha come titolo « esame di coscienza pastorale », sarà un’ulteriore riflessione su come Paolo ha vissuto i diciannove anni dopo la conversione. Avremo in tal modo materia abbondante per prepararci alla confessione sacramentale.
Signore Gesù, tu sai quanto desideriamo servirti e come ci sentiamo spinti dallo Spirito nell’impegno pastorale. Conosci che spesso, in questo servizio, siamo presi da dubbi, da timori e ci domandiamo se ciò che stiamo facendo è veramente importante, se lo facciamo nel modo migliore. Ti chiediamo, Signore Gesù, pastore supremo del gregge della Chiesa, Vescovo delle nostre anime, di illuminarci perché in ogni cosa imitiamo te pastore, e imitiamo Paolo pastore del tuo gregge.
Medica il nostro cuore da ciò che lo turba e gli impedisce di comprendere le parole dell’ Apostolo. Fa’ che, dimenticando le nostre pesantezze, possiamo cogliere con animo libero il senso di quelle parole e la verità di amore e di salvezza che racchiudono. Tu vedi che non sappiamo esprimere queste realtà e non sappiamo comprenderle se tu non ci illumini nello spirito, nella mente e nella parola. Lo chiediamo a te, Signore Gesù, che con il Padre e lo Spirito Santo vivi e regni in eterno per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Partiamo dalle prime battute del discorso di Paolo a Mileto. Quel discorso corrisponde un po’ a quello che stiamo facendo noi in questi Esercizi. Molto prima di noi l’evangelista Luca, nel libro degli Atti, riferendo le parole di Paolo a Mileto, ha cercato di richiamare i punti che l’Apostolo avrebbe avuto maggiormente a cuore ricordando il suo passato in relazione ad una comunità.
Questo discorso che si chiama anche il « testamento pastorale di Paolo », oppure il « discorso di addio », è un capolavoro insuperato.
Come discorso di addio si colloca nella linea di tanti simili discorsi di addio che la Scrittura ci presenta: il cap. 49 della Genesi con il discorso di addio di Giacobbe ai suoi figli; il Deuteronomio con i discorsi di addio di Mosè; gli ultimi due capitoli di Giosuè, 23 e 24, con il testamento di Giosuè; e così via per Samuele, Davide, Tobia, Mattatia. Gesù stesso, nell’ultima cena (Gv 13-17), fa un lungo discorso di addio che è anche uno sguardo retrospettivo alla sua vita. Il discorso di Paolo si colloca in questa linea.
È interessante notare che il Nuovo Testamento ci dà soltanto due discorsi conclusivi: di Gesù e di Paolo. In tal modo sottolinea l’importanza di queste due figure.
Il testamento di Paolo è impostato, dal punto di vista di analisi logica, sul rapporto io-voi: io mi sono comportato…; voi sapete…; io vado a Gerusalemme…; voi non vedrete più il mio volto…
Un linguaggio come questo non gli è abituale: nel discorso ad Antiochia di Pisidia, il soggetto è sempre Dio, ciò che Dio ha fatto. Per questo, appunto, il discorso di Mileto è un discorso pastorale in cui Paolo riflette sui rapporti fra sé e coloro che per tre anni egli ha guidato nella via di Dio.
È quindi adattissimo per un esame di coscienza pastorale. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.
Con questo spirito cerchiamo di approfondire il discorso. Non potendo medi tarlo tutto, mi limito ad un esempio di analisi del primo versetto e mi servo di un libro molto bello: «Il testamento pastorale di San Paolo », di Jacques Dupont. È un commento ricchissimo di riflessioni su questo testo pastorale fondamentale del Nuovo Testamento.
Il metodo con cui il Dupont procede è molto semplice: prende le singole parole, le soppesa attentamente, lungamente, rimettendole nella luce della storia di Paolo e di tutte le affermazioni simili che si trovano nelle lettere. In questo modo si riesce a cogliere il discorso come sintesi della pastoralità paolina e del suo modo di riferirsi alle comunità.
Il versetto su cui ci soffermeremo: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime» (At 20, 19) sottolinea un atteggiamento pastorale importante per la Chiesa di tutti i tempi.

«Essere con»
Con le parole introduttive del discorso Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo» (v. 18). E lo abbraccia con una formula che rimanda immediatamente il gioco agli uditori. Non ha bisogno di descrivere prima di tutto se stesso; si riferisce all’esperienza che gli altri hanno fatto.
Fin da questa battuta introduttiva, comprendiamo che Paolo si sente uno con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Non deve raccontare niente perché: «Voi sapete, mi avete visto, sono stato con voi ». Il suo ministero si può riassumere con: «è uno che è stato fra la gente », uno che la gente conosce, di cui sa tutto, e può renderne testimonianza.
È un ministero fondato sull’« essere con», sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardavano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità non soltanto delle parole che ha detto, ma di ciò che ha fatto. Non: «voi ricordate ciò che vi ho detto in questi anni… », ma: «voi sapete come mi sono comportato ». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche.
E lui si è comportato servendo.

«Ho servito il Signore»
Il suo modo di essere nella comunità è definito con: « Ho servito il Signore, tra le lacrime, in tutta umiltà ». Servire il Signore è la prima realtà. Paolo si vede, e sa che gli altri lo vedono prima di tutto come un servitore di Cristo e non come un servitore della comunità. Questa qualifica caratterizza il suo attaccamento a Cristo e la sua libertà verso la comunità. Talora, noi parliamo del ministero come un « servizio» e lo intendiamo come un « servire la Chiesa », la diocesi, la gente. Il Nuovo Testamento parla di servizio e di servo in rapporto a Cristo Gesù. È vero che in qualche occasione Paolo dice: «Sono servo vostro per Cristo» (Gal 5, 13), ma ordinariamente è « servitore di Cristo».
Quindi il pastore deve vivere primariamente a servizio della persona di Cristo. Soltanto così può servire la Chiesa, la gente, il popolo.
Stupenda questa libertà che Paolo vive: non deve niente a nessuno se non a Cristo; e attraverso lui, poi, a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo e la comunità sa benissimo che lui non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.

«Tra le lacrime»
Se avessimo dovuto completare noi la frase, avremmo aggiunto: con zelo, con fervore, con intelligenza, con coraggio, con competenza, con perseveranza.
La sua esperienza gliene fa dire altre: «tra le lacrime, con tutta umiltà». Rimaniamo stupiti davanti ad una sottolineatura che appare negativa e ce ne chiediamo il perché.
Indubbiamente c’è da considerare che è un discorso di addio. Ed è un addio che non lo porta verso una nuova missione importante. Ciò che lo attende è chiaramente la persecuzione e le sofferenze. È un saluto pieno di nostalgia e che giustamente fa emergere elementi di sofferenze già vissute e che preludono a quelle future.
Al di là di questo bisogna però dire che, se emergono l’umiltà e le lacrime come modo di servire il Signore, vuol dire che questa era l’esperienza di Paolo, che nella sua vita risaltavano umiltà, lacrime, prove, insidie, difficoltà.
Si presenta come si sente: l’Apostolo mentirebbe, in questo caso, se sottolineasse elementi che non gli sono così presenti al cuore e allo spirito.
Proviamo a pensare attentamente alla sua azione apostolica ad Efeso, per meglio capire il senso della sua umiltà e delle lacrime. Di lacrime parla molte altre volte: è un tema che ricorre sia nel discorso di Mileto, che nelle lettere. Ritorna nel testo degli Atti: « Vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (v. 31). Sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente di convincere qualcuno.
Dalle lettere possiamo citare: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime» (2 Cor 2, 4). È un’esperienza-limite quella delle lacrime, per Paolo. Non sembra che fosse un uomo facile al pianto, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni che scoppiava in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.
Tutto questo fa vedere l’intensità emotiva con cui Paolo viveva la sua missione pastorale. Esattamente l’opposto del funzionario, del burocrate, del programmatore intelligente.
Paolo è un uomo di intensissima partecipazione emotiva, che ha evidentemente riscontro nelle profondissime gioie. Proprio perché partecipava cosi emotivamente alle sofferenze del suo ministero poteva avere delle gioie e degli entusiasmi grandiosi di cui parla ancora più spesso nelle sue lettere.
Scriveva: «Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio? » (1 Ts 3, 9). Le intense sofferenze sono compensate da gioie profondissime, da entusiasmi straordinari: «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Sono cosi contento di voi che le sofferenze non le sento più se penso alla vostra corrispondenza, al vostro affetto e alla vostra fede. Tutti sappiamo cosa significano queste esperienze: chi ama molto, soffre molto, gode molto; chi ama poco, soffre meno e gioisce meno.
L’immagine del pastore che Paolo ci dà, in queste prime battute, è di un uomo profondamente, affettivamente, emotivamente coinvolto in ciò che fa. Ama moltissimo la gente e non con un amore generico: ha presente i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti, uno per uno sono fonte di amarezza, di tristezza, di lacrime oppure di gioia intensa.
Ecco il senso del suo aver servito il Signore tra le lacrime.

«Con tutta umiltà»
Anche qui vogliamo capire come mai tra le mille altre qualifiche del suo ministero Paolo sceglie questa, sottolineandola come fondamentale atteggiamento pastorale.
Il termine greco con cui si esprime può essere inteso « in ogni genere di umiliazione », con riferimento non all’atteggiamento ma alle situazioni. Cosi va inteso nel Magnificat là dove Maria dice: «Il Signore ha guardato all’umiltà della sua serva ». Indica l’insignificanza, l’abiezione, la piccolezza, il non contare nulla, e non la virtù dell’umiltà. Ma mentre nel Magnificat il vocabolo greco è esattamente «tapéinosis », qui è « tapeinofrosune »: sentimento di umiltà. Paolo qui si riferisce all’atteggiamento di umiltà con cui ha servito il Signore nell’attività pastorale. Umiltà è una parola che ripetiamo mille volte, ma di cui non è sempre facile cogliere tutte le implicazioni che ha per l’Apostolo.
In senso generale si potrebbe dire che l’umiltà è l’opposto di ciò che è detto nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ». I superbi sono quelli che credono di essere qualcuno, che hanno di sé un concetto così alto da fame quasi una ragione di vita, per cui gli altri devono piegarsi al loro servizio, e neppure vanno ringraziati perché fanno ciò che è dovuto. È l’atteggiamento che Paolo stigmatizza altre volte nelle sue lettere. Ad esempio scrivendo ai Romani: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12, 16). L’atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude.
È importante riflettere su questo atteggiamento di non-sapere: esso è utile sempre, ma è indispensabile soprattutto nel rapporto con Dio. Infatti « noi non sappiamo neanche pregare, non sappiamo neanche cosa chiedere» (cf. Rm 8, 26).
Spesso non riusciamo a pregare bene perché incominciamo con la presunzione di saper pregare, mentre dovremmo partire sempre confessando: «Signore, non so pregare; so di non sapere pregare ». Già questa è preghiera, perché fa posto allo Spirito che dobbiamo chiedere.
L’umiltà come atteggiamento che qualifica l’attività pastorale di Paolo si può descrivere secondo tre aspetti:

- aspetto sociale: un modo di comportarsi;
- aspetto personale: una certa coscienza di sé;
- aspetto teologale: un certo rapporto verso Dio.

a) L’aspetto sociale è da una parte assenza di pretese e, dall’altra, attenzione agli altri. «Ho cercato di essere tra voi senza pretese, non pretendendo per me niente di speciale, ma stando molto attento a ciascuno di voi », direbbe Paolo.
Si descrive così anche nella prima lettera ai Tessalonicesi, dando uno sguardo retrospettivo al suo rapporto con la comunità: «Come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2, 4-8).
L’umiltà è socievolezza senza pretese, colma di affetto, di attenzione, amorevolezza, prevenienza. Paolo sente che, per grazia di Dio, è stato così e che il suo modo di essere è modello per ogni pastore. L’umiltà come virtù sociale comporta anche distinzione, correttezza, un certo riserbo, un’educazione profonda, finezza sacerdotale che conquista il cuore, perché non è espressione semplicemente di un’affettazione esteriore. Niente commuove di più le persone che sanno di contare poco nella società, che il vedersi trattate con estremo rispetto e con grande valorizzazione di ciò che sono. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati, e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati. Come doveva sconvolgerli il metodo apostolico di Paolo!
b) L’aspetto personale è un giudizio di valore semplice dato su di sé. Paolo ritorna diverse volte su questa capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere.
Nella prima lettera ai Corinti parla della apparizione di Gesù a lui: «Ultimo fra tutti apparve anche a me. lo sono l’infimo degli apostoli, non sono degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8-9). Lo dice con verità e con sincerità: non è affettazione, è chiarezza di giudizio su di sé.
E questo giudizio, è una maniera di comportamento che ha acquisito attraverso la scuola della vita, che gli ha fatto conoscere la sua fragilità e povertà. Ha imparato a pensare di sé in maniera umile, distaccata, tranquilla, senza colpevolizzarsi, con pace.
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, aldilà delle nostre forze, si da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 8-9). Ci stupisce un apostolo che parla di sé in quèsto modo, a rischio quasi di scandalizzare.
L’umiltà personale, venendo da una storia vissuta, difficilmente può averla un giovane. Magari avrà meditato queste cose, ma non potrà sentirle come naturali, perché non è passato per quella scuola di prove e di esperienza della propria debolezza che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione.
È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Se Paolo di fronte alle tribolazioni che gli sono venute in Asia si fosse messo ad imprecare contro tutto e tutti, invece di riconoscere la propria debolezza e fragilità, non avrebbe tratto alcun profitto dalla prova. Invece si è formato come vero pastore perché ha saputo accogliere dal dolore quella umiltà vissuta, che poi espresse nella sua vita.

c) Aspetto teologale. Paolo si esprime cosi perché vive profondamente la sua verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4, 7). Al fondo dell’atteggiamento di umiltà, che è uno dei segreti della sua capacità di conquistare la gente, stava un senso profondo di Dio ‘creatore, padrone, signore, misericordioso, datore di ogni bene. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. La stessa Parola è Parola di Dio, non di Paolo: a lui è stata data nella misura del dono di Cristo. Lo stesso zelo apostolico non è di Paolo, ma gli è stato dato da Cristo che vive in lui.
Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, una trasparenza cristologica, di Cristo come lui l’ha conosciuto e capito, di Cristo Servo di Jahvè, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra, ma che ha scelto di essere servo di tutti.
L’umiltà di Paolo è quella di Cristo che egli ha recepito e che esprime lasciandolo vivere in sé.
Per questo egli può presentarla come l’atteggiamento fondamentale di chi serve il Signore, così come il Signore ha servito. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo sceglie la sua stessa via esercitando l’autorità con l’umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.
Questa è certamente una delle caratteristiche che distinguono radicalmente il potere pastorale da quello politico. Il potere pastorale è fondato sulla mitezza di Cristo e proprio per questo può assumere, come in Paolo, anche atteggiamenti duri, taglienti, risoluti, basati non sulla pretesa di difendere la propria personalità ma sulla mitezza e l’umiltà di Cristo che sa prendere posizione di fronte alla vita.
Ciascuno di noi deve meditare profondamente, con la coscienza che siamo molto lontani da questo ideale. Istintivamente il personalismo interviene tutte le volte che è in gioco il potere e noi siamo continuamente tentati di inserire nel servizio del Signore il nostro prestigio personale.
Abbiamo bisogno di essere purificati sull’esempio dell’Apostolo e soprattutto di essere purificati dalla forza di Cristo in noi.
Chiediamo per intercessione di Maria, di cui Dio ha guardato l’umiltà, di saper seguire Cristo come Paolo lo ha saputo seguire, con la coscienza che è un compito arduo e che siamo lontani da questa meta.
Con la grazia di Dio cerchiamo di metterci di fronte ad essa, di riconoscere le nostre mancanze, di chiedere che la potenza di Cristo, che vive in noi, ci renda simili a lui.

COME CELEBRARE?/2: CANTO E MUSICA (CCC 1156-1158)

http://www.zenit.org/article-30288?l=italian

COME CELEBRARE?/2: CANTO E MUSICA (CCC 1156-1158)

Rubrica di teologia liturgica a cura di Don Mauro Gagliardi

di Paul Gunter, O.S.B.*

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 18 aprile 2012 (ZENIT.org).- Da tempo immemorabile, il canto e la bella musica hanno fornito un’interfaccia alle altezze e alle profondità delle emozioni umane. Tuttavia, lì dove essi sono formativi nella liturgia, il loro scopo più elevato è quello di dare gloria a Dio nel culto, cosa che, inevitabilmente, finisce per eclissare il loro nobile ma limitato destino di voler soddisfare il desiderio di un’ottima prestazione. Soprattutto dal momento che è rivolta a Dio, «la tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne» (Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC] 1156 e Sacrosanctum Concilium [SC] 112). Secondo la tradizione dell’Antica Alleanza, non solo i salmi e gli inni sono centrali nella liturgia ebraica e cristiana, ma anche la diversità musicale e dei registri simbolici dei vari strumenti musicali (CCC 1156). Dal punto di vista moderno, è difficile stabilire quali fossero tutti gli strumenti, anche se un senso della loro sinfonia può essere captato grazie al nostro apprezzamento per la versatilità dell’organo a canne che annuncia, così abilmente, le atmosfere distintive dell’anno liturgico. Non si dovrebbe mai perdere di vista l’appello di SC 120 a sostegno della particolare stima che dovrebbe essere garantita all’organo a canne, anche quando altri strumenti sono consentiti nella liturgia, sulla base del fatto che sono adatti all’uso sacro.
Le varietà degli stati d’animo espressi dai vari generi di strumenti musicali nella liturgia dell’Antico Testamento sono indicati con la loro gamma. Tra gli strumenti a corde, la lira, cetra o kinnor veniva udita nel tempio durante le feste e ai banchetti, come indicato in 1Cronache 15,16 e in Isaia 5,12. Tra l’altro, è lo stesso strumento usato da Davide per far riposare Saul, come indicato in 1Samuele 16,23. Il nebel o arpa era spesso suonato insieme con la cetra come suggerito nel Salmo 108 (107). Mentre il nebel a dieci corde, come si vede nel Salmo 144 (143), può essere paragonabile ad una cetra ed è dissimile da un liuto. Tra gli strumenti a fiato c’erano la tromba in Numeri 10, utilizzata per feste e altre cerimonie importanti; il flauto, elencato nel gruppo di strumenti di Daniele 3,5 e l’halil o flauto di canna che fu usato per simboleggiare il dolore in Geremia 48,36 e per proclamare la gioia in 1Re 1,40. Nondimeno erano presenti strumenti a percussione come i piatti del Salmo 150 e i sonagli sulle vesti di Aronne in Esodo 28,33-35.
I tesori della liturgia palpitano vita quando sono celebrati e nobilitano il canto e la musica di culto. L’atto stesso dello scambio tra noi e Dio rende presente un luogo dove Dio abita e nel quale gli esseri umani sono toccati dalla vita unica di Dio. Questa dimora di Dio si trova nella liturgia. La liturgia non è un mero simbolo del mistero divino o un mero simbolo della verità della rivelazione cattolica. Ci rende presenti a noi stessi nella e attraverso la celebrazione liturgica. Queste componenti essenziali della liturgia ci mostrano che le nostre celebrazioni non possono essere limitate al come ci sentiamo o da un imperativo emotivo per il quale dobbiamo sentirci bene quando e come celebriamo; e ciò va detto, nonostante il valore oggettivo di questi aspetti per il modo in cui rivolgiamo un messaggio a Dio. La liturgia deve comunicare il significato della Chiesa e, al tempo stesso, il suo significato tra i partecipanti che, a loro volta, vengono nutriti nello Spirito e nella Verità. Fedeltà a quello che sembra un rapporto a lunga distanza, ma che nella liturgia diventa una sensazione temporanea mano a mano che le persone si adeguano al linguaggio sacro della Messa. Senza dimenticare che le persone riconosceranno, col tempo, che crescerà l’amore per i testi che verranno sempre meglio conoscendo. Tre criteri devono essere tenuti presenti per il canto e la musica per realizzare il loro potenziale: «la bellezza espressiva della preghiera, l’unanime partecipazione dell’assemblea nei momenti previsti e il carattere solenne della celebrazione» (CCC 1157).
La liturgia descrive e forma relazioni. Le relazioni hanno bisogno di perseveranza, e all’interno di esse possono nascere equivoci. La liturgia è il luogo di incontro dove Dio mostra la profondità del patto del suo amore, in modo che «gli uomini caduti possono rialzarsi sulle ali della preghiera» (Stanbrook Abbey Hymnal, «Signore Dio, la Tua luce che offusca le stelle» (Lord God, your light which dims the stars), versetto 2, pubblicato nel 1974). Nella liturgia, Dio incontra l’anthropos (l’uomo) su una terra santa. Quindi «si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, e nelle stesse azioni liturgiche», in conformità con le norme della Chiesa, «possano risonare le voci dei fedeli» (SC 118, CCC 1158). Pertanto, il nostro servizio alla liturgia nella celebrazione liturgica non prevede di mettere i nostri gusti personali e le nostre scelte particolari davanti a quello che la Chiesa ha tramandato fino a noi. L’autentica partecipazione liturgica celebrerà verità trascendenti il tempo e lo spazio, poiché «lo Spirito Santo guida i credenti alla verità tutta intera e in essi fa dimorare abbondantemente la parola di Cristo, e la Chiesa perpetua e trasmette tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede, anche quando offre le preghiere di tutti i fedeli a Dio, per mezzo di Cristo e nella potenza dello Spirito Santo» (SC 33; Liturgiam authenticam 19).
*Padre Paul Gunter, O.S.B., è professore al Pontificio Istituto Liturgico di Roma, consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e segretario del Dipartimento per la Vita cristiana e il Culto della Conferenza dei Vescovi Cattolici di Inghilterra e Galles.

Chiunque voglia porre domande o esprimere opinioni sui temi toccati dalla rubrica curata da Don Mauro Gagliardi può scrivere all’indirizzo: liturgia.zenit@zenit.org

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - MUSICA |on 18 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Christ is Risen!

Christ is Risen! dans immagini sacre 1990kariyeparaclisionanastasis

http://orthocath.wordpress.com/

Publié dans:immagini sacre |on 17 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein]: « Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna »

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Martedì della II settimana di Pasqua

Meditazione del giorno
Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d’Europa
Poesia « Heilige Nacht »
« Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna »

Mio Signore e mio Dio,
mi hai guidata su un cammino lungo, sassoso, oscuro e faticoso.
Sovente sembrava che le mie forze volessero abbandonarmi,
non speravo quasi più  di vedere un giorno la luce.
Il mio cuore stava pietrificandosi in una sofferenza profonda
quando il chiarore di una dolce stella sorse ai miei occhi.
Fedele, mi guidò ed io la seguii
con passo prima timido, poi più sicuro.
Giunsi alfine alla porta della Chiesa.
Si aprì. Chiesi di entrare.
La tua benedizione mi accoglie attraverso le parole del tuo sacerdote.
Dentro, le stelle si susseguono,
stelle di fiori rossi che mi indicano il cammino fino a te…
E la tua bontà permette che esse rischiarino il cammino verso di te.
Il mistero che dovevo tenere nascosto nell’intimo del mio cuore,
posso ormai annunciarlo ad alta voce:
Credo, confesso la mia fede!
Il sacerdote mi conduce ai gradini dell’altare,
chino la fronte,
l’acqua santa scorre sul mio capo.

Signore, come si può rinascere
Quando si è giunti alla metà della propria vita (Gv 3,4)?
Tu l’ hai detto, e questo è divenuto per me realtà.
Il peso della colpe e delle pene della mia lunga vita mi ha abbandonato.
In piedi, ho ricevuto il vestito bianco posto sulle mie spalle,
simbolo luminoso di purezza!
Ho portato in mano il cero la cui fiamma annuncia
che la tua vita santa arde in me.
Il mio cuore è ormai il presepio che attende la tua presenza.
Per poco tempo!
Maria, tua madre che è anche mia, mi ha dato il suo nome.
A mezzanotte depone nel mio cuore il suo bambino appena nato.
Oh! Nessun cuore umano può concepire
ciò che prepari per coloro che ti amano (1 Cor 2,9).
Ormai sei mio e non ti lascerò mai più.
Dovunque vada la strada della mia vita, sei accanto a me.
Nulla potrà mai separarmi dal tuo amore (Rm 8,39).

Publié dans:SANTI, Santi - scritti |on 17 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Omelia del Vescovo Carlo Ciattini per la Santa Pasqua 2012 – Diocesi di Massa Marittima Piombino

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/pls/cci_dioc_new/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=36141&rifi=guest&rifp=guest

Omelia del Vescovo Carlo Ciattini per la Santa Pasqua 2012 

Diocesi di Massa Marittima Piombino 

Carissimi,

(riferimenti a San Paolo, Rm)

l’alleluja pasquale, il grido di giubilo cristiano, che da sei settimane era sepolto, risorge con Cristo e suona squillante sulla bocca della Chiesa,[1] in questa notte santissima.
Questo alleluia, voglia il Signore che sgorghi dal nostro cuore, sia oggetto dei nostri pensieri, ispiri la vita di ogni giorno, così che la nostra esistenza divenga un’esistenza pasquale.
“Fratelli”, scrive l’apostolo Paolo ai Romani, “non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione”.
Questa parola ci interroga invitandoci a ripensare, ma soprattutto a contemplare il mistero del nostro essere battezzati, a recuperare questo grande dono! Contemplazione che è possibile solo vivendo la vita di battezzati, incamminandoci nella vita nuova donataci nel battesimo. Camminare nella vita nuova è il vivere in comunione con Cristo, intimamente uniti a Lui, lo stare con Lui.
“Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”.
Il morire al peccato è possibile solo nell’esperienza di una vita nuova! L’uomo, in Adamo, è attratto dalla vita di peccato. È l’inganno di sempre, “vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”  ( Gen 3,6). Fu l’inizio dei dolori, fu l’inizio dei giorni della fatica, del dolore e della morte. L’uomo, chiamato ad abitare il giardino dell’Eden, si trovò nel deserto!
Ma Dio non abbandona i suoi figli, Dio non cessa di richiamarci, di svegliarci, di liberarci dall’inganno del peccato attraverso la voce dei profeti: “Ascolta, Israele, i comandamenti della vita, porgi l’orecchio per conoscere la prudenza. Perché, Israele? Perché ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi? Tu hai abbandonato la fonte della sapienza! Se tu avessi camminato nella via di Dio, avresti abitato per sempre nella pace.
Impara dov’è la prudenza, dov’è la forza, dov’è l’intelligenza, per comprendere anche dov’è la longevità e la vita, dov’è la luce degli occhi e la pace” (Baruc 3,9-15).
Ora in Cristo, crocifisso e risorto dai morti, la Vita fluisce e inonda la terra.
Sono le donne a ricevere le parole dell’angelo come parole di vita; nel giardino di Eden il serpente aveva offerto alla donna parole di morte. Ora le donne incontrano il volto del Signore in una luce nuova. È la luce della risurrezione! E grazie a questa luce la notte risplende come il giorno e diviene fonte di delizia per gli uomini.
Come cristiani, come battezzati, come membri della Chiesa, siamo chiamati a partecipare alla Pasqua di Cristo. Questo significa vivere la vita nuova, questo significa uscire giorno dopo giorno dalla schiavitù del peccato verso la libertà dei figli di Dio, pregustare l’essere risorti con Lui. 
Come fare? voi chiederete.
“La Chiesa, che è il corpo di Cristo, partecipa all’offerta del suo Capo. Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua intercessione presso il Padre a favore di tutti gli uomini. Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio delle membra del suo corpo. La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo riattualizzato sull’altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta.
Nelle catacombe la Chiesa è spesso raffigurata come una donna in preghiera, con le braccia spalancate, in atteggiamento di orante. Come Cristo ha steso le braccia sulla croce, così per mezzo di lui, con lui e in lui essa si offre e intercede per tutti gli uomini” (CCC n. 1368). 
Carissimi, è nella partecipazione ai sacramenti che sperimentiamo la vita nuova e iniziamo a sentire il peccato nella sua terribile verità! È un disintossicarci, giorno dopo giorno. È uno smascherare gli idoli! È l’essere attratti dal bene, dal bello, dal vero e dal santo, fino ad avere la forza che scende dall’alto e ci rende capaci di rinunciare a Satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni. Ma questo non è a misura di uomo! Dobbiamo stare con il Signore, ascoltare la sua parola,  celebrare i  suoi sacramenti! Solo così ci sarà giustizia nel mondo, solo così il dolore, spesso tragico, che rende tenebrosa la storia del mondo, troverà significato, senso e compimento nella vittoria di Cristo che Egli vorrà parteciparci nella Pasqua eterna.
In questo tempo dove l’uomo si erge a salvatore dell’uomo, ove si fanno programmi e piani per salvare l’uomo dalla sua indigenza, dove l’uomo maneggia l’uomo erigendosi come fosse un qualche dio creatore, con la perversa volontà di plasmarlo a sua immagine e somiglianza – emulo (seguace) dei sanguinari tiranni di ieri, ma oggi ancor più terribili perché meglio camuffati, e più sornionamente nascosti – per noi cristiani rimane la via della croce e della risurrezione, la via dell’intimità con il Signore, della preghiera, della fedele celebrazione dei sacramenti, sorgente di carità per quanti ci stanno accanto, per servire l’uomo gratuitamente,  lasciandolo libero, lasciandolo responsabile, indicandogli umilmente il vero liberatore, il vero soccorritore, l’unico veramente buono : Gesù Cristo.
Oggi si reclama una sorta di restaurazione o rinnovamento, che dir si voglia, nuovi equilibri nell’ordine  dell’umano, dell’economico, dell’etico, e ci si illude di poter trovare bravi chirurghi che con una operazione ben fatta restituiscano salute all’ uomo e alla società! I tanti contestatori, i tanti conservatori, i tanti rivoluzionari, di ieri e di oggi hanno vissuto con questa illusione e i tanti fallimenti non li hanno ancora persuasi.
Noi cristiani crediamo che in Adamo l’umanità è malata, ma è una malattia da non affidare alla chirurgia, ma alla medicina. È tutto il corpo malato, va curato con pazienza e ognuno deve essere medico di se stesso, affidandosi a Cristo, per ricevere vita, salvezza e guarigione che scaturiscono da Lui.
Nella preghiera di colletta della V domenica di Quaresima abbiamo chiesto al Padre di “venire in nostro aiuto, (…) perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il (…) Figlio a dare la vita per noi”.
In questo tempo di pantomime e di teatrini dobbiamo chiedere con insistenza di comprendere quanto sia urgente vivere prima di operare, diversamente sarà un recitare. Il bene non lo faremo quando, dove, come e a chi dobbiamo,  ma quando, dove,  come e a chi ci pare!! E questo non per cattiva volontà, ma perché l’uomo è incapace, senza la luce di Dio, di vedere il bene, il male, il povero, le diverse forme di povertà.
Non mi riferisco a dar da mangiare a chi ha fame, o da bere a chi ha sete! Ma a  dare il senso dell’onestà, della vita, della dignità! Avere il coraggio di dire che l’uomo e la vita sono mistero e bisogna andarci piano, andarci con la luce di Dio! Questo vale per noi cristiani. Io, come vescovo, lo dico a voi credenti della Chiesa che è pellegrina in Massa Marittima, Piombino e l’Elba.
Chiediamo a Lui che ci faccia vivere, perché possiamo operare nella verità. Poveri noi se il mondo opererà senza prima vivere, quali conti arriveranno alla storia e all’uomo. Vivere l’amore per agire da genitori autentici. Vivere la fede per agire da cristiani autentici. Vivere il timore di Dio per essere autentici servitori dell’uomo e non spadroneggiare su di lui con le nuove e mielose tattiche di oggi. 
Perché questo si realizzi accostiamoci, carissimi, in questa notte santa, dopo aver celebrato il sacramento della confessione, al Sacramento Pasquale del  suo corpo e del suo sangue. Fra poco vi mostrerò l’ostia e il calice, il corpo e il sangue di Cristo, e dirò: “Beati gli invitati alla cena del Signore, ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. E insieme continueremo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato ».  Nella divina liturgia di san Giovanni Crisostomo, come ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1386, i fedeli pregano con lo stesso spirito:
« O Figlio di Dio, fammi oggi partecipe del tuo mistico convito. Non svelerò il mistero ai tuoi nemici, e neppure ti darò il bacio di Giuda. Ma, come il ladrone, io ti dico: Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo regno ». [2]
+ Carlo, vescovo

COMPLEANNO DI PAPA BENEDETTO XVI – 85 ANNI – vogliamo farglieli insieme gli auguri?

COMPLEANNO DI PAPA BENEDETTO XVI - 85 ANNI - vogliamo farglieli insieme gli auguri? dans PAPA BENEDETTO COMPLEANNO Benedetto_XVI_BenedizioneR4001-300x206

BENEDIZIONE URBI ET ORBI 2012

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COMPLEANNO DI PAPA BENEDETTO XVI – 85 ANNI

vogliamo farglieli insieme gli auguri?

preghiamo il Signore per Papa Benedetto, che chiamerei il Papa della sapienza e della tenerezza;
preghiamo il Signore affinché Papa Benedetto viva questi ultimi anni nella tenerezza di Dio, avvolto dalla sua luce e dal suo amore.
preghiamo affinché questi ultimi anni della sua vita siano gli anni di una sapienza e di una saggezza sempre più grandi;
preghiamo perché il suo ministero di Pastore della Chiesa Universale sia sempre più pieno di quella ricchezza interiore che si manifesta sempre nella sua preghiera nel suo insegnamento, nelle sue opere;
preghiamo perché il suo insegnamento si dilati ed arricchisca il mondo intero;
preghiamo perché il Signore gli mantenga la salute, ma se dovesse cadere in malattia anche questa sia colma della preghiera e della luce della misericordia;
preghiamo il nostro amato San Paolo affinché il Papa possa sempre benedire Dio… » Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo » (Ef 1,1)

Publié dans:PAPA BENEDETTO COMPLEANNO |on 16 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Damasco: Casa di sant’Anania

http://www.custodiaterrasanta.com/Damasco-Casa-di-sant-Anania.html

Damasco: Casa di sant’Anania

(Messo on line il 28/08/2007)

(alcune immagini sul sito)

Convento francescano
 Deir el-Kabir
 Bab Touma – Damas
 Siria

La tradizione cristiana
Gli Atti degli Apostoli (9, 1-26 e 22, 4-16 ) ci presentano sant’Anania come damasceno di stirpe ebraica. Già cristiano quando battezzò Saulo di Tarso, doveva godere di una posizione speciale nella giovane chiesa di Damasco; a lui infatti Cristo rivelò il destino del futuro Apostolo dei Gentili e a lui toccò la gloria di battezzarlo e iniziarlo alla Fede.
La tradizione orientale raccolta dai padri Bollandisti, assicura che era uno dei “settantadue” discepoli di Gesù, dei quali parla san Luca (10, 1), e che si rifugiò a Damasco dopo la lapidazione di santo Stefano. Più tardi divenne vescovo di questa città.
Mentre evangelizzava le regioni della Siria venne arrestato dal governatore Licinio e condannato a morte. Il suo corpo fu trasportato in città dai cristiani.
Le reliquie di sant’Anania sono conservate a Roma nella basilica di san Paolo. Nel sec. XIV Carlo IV, re di Boemia, ne ottenne il capo e lo donò alla cattedrale di Praga.
Il luogo
Localizzata nella Damasco antica, dentro le mura, la casa di sant’Anania fu trasformata in chiesa fin dai tempi antichissimi, col titolo di “chiesa della Croce”. Non conosciamo esattamente la data di questa trasformazione, ma fu certamente anteriore alla conquista araba (636 d.c.).
La rivista scientifica « Syrie », (V,1924) riferisce che il conte Eustachio De Lorey, capo della missione archeologica in Siria, eseguì degli scavi a Damasco nel 1921 in un lungo detto “Hananieh” situato presso la porta Esh-Sharqi. Lì sorgeva un tempo la chiesa di Santa Croce, o, più esattamente, la Mousallabeh, una delle chiese che Walid Iº restituì ai Cristiani in cambio della Grande Moschea.
Il conte De Lorey ha ritrovato una delle absidi di questa chiesa. I sondaggi eseguiti hanno rivelato che essa fu costruita su di un tempio pagano; lo provano la dedica in greco “al dio celeste di Damasco” e un altare dove appare un toro gibboso sotto una quercia. La stessa rivista (VI, 1925, 356) precisa che l’altare pagano risale al II-III secolo d.c.
Il fatto di trovare un tempio pagano in un luogo venerato di cristiani non deve fare meraviglia. È risaputo che Adriano (117-138) edificò dei templi sul Calvario e sulla Grotta di Betlemme con lo scopo preciso di allontanare i cristiani da questi luoghi venerati.
La presenza di un tempio pagano in un luogo sacro cristiano non fa altro, quindi, che confermare l’esistenza di un santuario della Chiesa primitiva. Lo conferma anche la chiesa bizantina convertita più tardi in moschea.
In Oriente il succedersi di edifici religiosi di differenti confessione nel medesimo sito è un indice che la tradizione ivi localizzata ha una forte garanzia di autenticità.
Qualche secolo più tardi lo scrittore arabo Ibn Asaker (1105-1176) segnala a Damasco una chiesa sotto il nome di El-Mousallaba, cioè “della Croce”, e ci fa sapere che essa si trova presso le mura, tra le due porte orientali – Bab Touma e Bab-Sharqi – e che fu distrutta verso l’anno 700.
Della casa di Anania parla anche il francescano da Poggibonsi, nel 1347, affermando che a quel tempo era convertita in moschea.
Un altro scrittore, In Shaker, che scrive qualche anno dopo, dice che il Califfo Walid Iº (702-712) cedette ai cristiani le rovine della “Chiesa della Croce” in cambio della basilica di san Giovanni Battista che egli trasformò in moschea (l’attuale moschea degli Ommeiadi).
Padre Bonifacio da Ragusa, Custode di Terra Santa, visitò questo luogo nel sec. XVI e scrive che “si scende in questa chiesa per mezzo di alcuni gradini”.
All’inizio del sec. XVII il padre Quaresmio, francescano anch’egli, ci fornisce altri dettagli: “Questa casa (di Anania) si trova nella parte orientale della città: è un’abitazione sotterranea e ci si scende dalla parte orientale per mezzo di una porta stretta e una scala. Essa ha quasi la forma di un triangolo: la lunghezza dei due lati è di venti piedi e la larghezza di dieci; riceve la luce da sopra per mezzo di due finestre rotonde” (Lib. VII, c.III)
Verso il 1630, fra Antonio de Castello OFM afferma che la casa di sant’Anania è tenuta in grande venerazione sia dai Cristiani che dai Turchi: “I Turchi che ne hanno la custodia vi tengono molte lampade accese”.
Nel 1820 i Francescani di Terra Santa poterono ricuperare questo luogo venerato e lo riedificarono riadattandolo al culto. L’edificio, distrutto nei torbidi del 1860 fu ricostruito nel 1867 e finalmente restaurato nel 1973.
La casa di sant’Anania è una cripta formata da due camere; vi si scende per una scala di ventitrè gradini, resa necessaria dal rialzo del terreno a causa dei detriti accumulatisi, durante venti secoli, in questa parte della città.
Lo stesso dislivello si misura attorno alla porta romana di Bab-Sharqi.
La tradizionale casa di sant’Anania che i frati Francescani indicano oggi alla venerazione dei pellegrini è certamente una parte dell’antica basilica bizantina della “Santa Croce” del V-VI secolo, ritrovata durante gli scavi eseguiti dal conte De Lorey.
Questo luogo venerato risponde a tutti i requisiti archeologici a conferma della tradizione che sin dall’inizio del Cristianesimo vi ha ubicato la casa sant’Anania, il primo Vescovo di Damasco.
Testo biblico
La vocazione di Saulo
Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.
Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». E il Signore a lui: «Su, và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». Ma il Signore disse: «Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono.
Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?». Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta.
(Atti 9,1-26)
Preghiera
O Dio, che per mezzo del tuo Figlio risorto hai inviato il tuo servo Anania a Saulo di Tarso, perché questi recuperasse la vista, fosse ricolmo di Spirito Santo e battezzato, fa’ che, per l’intercessione del santo martire Anania, tutte le genti siano illuminate, siano battezzate per la remissione dei peccati e ricevano il dono dello Spirito Santo. Per il nostro Signore, Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna, con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Publié dans:LUOGHI DEL SACRO, TERRA SANTA (LA) |on 16 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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