Archive pour avril, 2012

VITA DI SAN MARCO EVANGELISTA – BASILICA DI SAN MARCO, VENEZIA

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Basilica di San Marco, Venezia Sezione dedicata alla vita di San Marco

Conosciamo qualcosa della vita dell’evangelista Marco grazie ad alcuni testi del Nuovo Testamento e alle testimonianze degli antichi scrittori ecclesiastici. Per colmare quanto manca a questi testi ci sono fonti posteriori, di ambito egiziano ed occidentale, le quali riferiscono dell’apostolato che avrebbe svolto in Egitto e nelle Venezie. Marco si presenta con doppio nome: Giovanni, di tradizione ebraica, e Marco, di antichissima tradizione romana riportabile a Marte, il dio della guerra.
E’ ritenuto l’autore del secondo vangelo, il più breve dei quattro, composto di soli sedici capitoli.

Fasi della vita di San Marco:

La giovinezza | La crisi di Marco | Marco a Roma | Marco ad Aquileia | Ermagora | Marco in Egitto | La morte
La giovinezza

Marco, figlio di Paolo e Maria, sarebbe nato nell’odierna Cirene, capitale della Cirenaica, nella Libia attuale.
La discreta agiatezza economica gli permette lo studio dell’ebraico, greco e latino, approfondendo la conoscenza della Sacra Scrittura ed in particolare i testi dei profeti.
Probabilmente Giovanni Marco nasce all’inizio dell’era volgare, sotto l’impero di Augusto. Prima della morte dell’imperatore, la Cirenaica viene invasa da tribù barbare, che depredano terre e beni della famiglia di Marco.
Costretto alla fuga con i genitori, si rifugia a Gerusalemme dove incontra i primi annunciatori della predicazione di Gesù.

Da Gerusalemme Marco si reca ad Antiochia assieme a Barnaba e Paolo. Antiochia, oggi Antakya nella Turchia sud occidentale, sorge di fronte all’isola di Cipro. Gode il prestigio di un grande centro commerciale ed è una capitale di divertimenti; terza città dell’impero romano dopo Roma e Alessandria e capitale della provincia romana. La comunità cristiana è aperta all’evangelizzazione sia degli ebrei sia dei seguaci di qualsiasi altra religione. In effetti gli Atti precisano che proprio qui per la prima volta i seguaci della severa morale predicata nel nome di Cristo, forse per dileggio, vengono denominati cristiani. Barnaba, Paolo e Marco raggiungono il porto di Antiochia per intraprendere il viaggio che lì porterà a Cipro, Lo sbarco avviene a Salamina, la città più popolosa ed antica capitale.
Qui sorgono numerose sinagoghe e i due missionari si danno da fare per annunciare il vangelo coadiuvati da Marco, forse catechista e battezzatore, forse cronista della spedizione.

La crisi di Marco
Una volta raggiunta la città di Cipro, avviene il distacco di Marco da Paolo e Barnaba. Il testo degli Atti si limita a rilevare ch’egli si separa da loro per ritornare a Gerusalemme. Non si conosce il reale motivo per cui il giovane aiutante dei due non abbia voluto più proseguire, sappiamo però che l’abbandono di Marco viene considerato da Paolo un tradimento.
Marco ritorna a Gerusalemme. Qui nel 49, in occasione del Concilio apostolico, si trova anche Pietro, oltre a Paolo e Barnaba arrivati per giustificare il metodo nuovo del loro apostolato verso i pagani divenuti cristiani senza dover passare attraverso le norme imposte dalla tradizione giudaica.
Approvato il loro sistema missionario, Paolo e Barnaba ritornano ad Antiochia, la loro base operativa. Ad Antiochia casualmente si trova anche Marco, giunto forse con l’apostolo Pietro. Barnaba, fortemente legato al cugino Marco, propone a Paolo di riprenderlo quale aiutante.
A questo punto Paolo è irremovibile nel rifiuto. Anche Barnaba punta i piedi per difendere Marco al punto che arriva a rompere la lunga amicizia con Paolo.
Mentre Paolo si avvia verso le comunità cristiane dell’Asia Minore, Barnaba si imbarca verso Cipro assieme a Marco per una seconda evangelizzazione dell’isola. Notizie specifiche al proposito sono piuttosto tarde e appartengono agli apocrifi Atti di Barnaba che narrano le vicende cipriote di Marco e Barnaba con vivacità di particolari, tocchi romanzeschi una ricchezza di particolari avventurosi, ben diversa dalla sobrietà storica della prima missione descritta dagli Atti degli apostoli.

Marco a Roma
Marco giunge a Roma nel 42 o dopo il 50, quale aiutante di Pietro svolge la sua attività tra gli ebrei, che sono circa quarantacinquemila.
Si rivolge anche ai Romani pagani e per di più alle classi militari.
Marco è una sorta di interprete tra Pietro, che non parla il greco o lo adopera male, e il suo uditorio, per il quale il greco è una lingua internazionale.
Clemente Alessandrino, attorno al 200, precisa che Marco compone il suo vangelo a Roma. Per gli altri antichi scrittori ecclesiastici Marco trascrive la predicazione dell’apostolo Pietro, pur senza indicare in quale luogo questo sia avvenuto. Clemente afferma che Pietro predica il messaggio della salvezza ai cavalieri di Cesare, i quali, al fine di ricordare quanto l’apostolo proclama a viva voce, inducono Marco a redigere il vangelo. Chi siano i cavalieri di Cesare non è però mai stato chiarito.

Marco ad Acquileia
La seconda parte della vita di Marco comprende l’apostolato ad Aquileia e in Egitto, ad Alessandria. La fase aquileiese va collocata prima di quella alessandrina.
Il doge Andrea Dandolo, nell’ampia Chronica, redatta a Venezia attorno al 1350, sostiene che Marco è discepolo di Pietro in Roma, dove compone il suo vangelo su richiesta dei cristiani del luogo affinché la predicazione dell’apostolo non vada perduta. Quando Pietro lo viene a sapere, se ne rallegra e ordina che il testo evangelico venga consegnato alle diverse chiese. Invita Marco a recarsi ad Aquileia per predicare la parola del Signore, cosa che il discepolo compie volentieri portando con sé il testo del suo sacro libro.
I cristiani neoconvertiti chiedono a Marco di ricopiare per loro il testo del vangelo. Egli accetta e lo consegna loro perché lo possano osservare con fedeltà. A questo punto Marco, ritenendo la sua missione compiuta, progetta di ritornare di nascosto a Roma presso San Pietro. Ma gli aquileiesi, che sanno di questa sua intenzione per ispirazione divina, gli chiedono che venga dato loro un suo successore.

Ermagora
Il successore di Marco ad Aquileia è Ermagora, un prestigioso aquileiese, che gode la stima di tutti, grazie ad un’esemplare vita cristiana.
Marco, assieme ad Ermagora, intraprende il viaggio verso Roma lungo i canali lagunari che collegano Aquileia con Ravenna. La navicella con i due santi deve attraversare gli intricati meandri dell’odierna laguna di Venezia, città allora inesistente. Appena giunge al piccolo porto di Rivalto, il territorio di San Marco dei tempi del doge Andrea Dandolo, scoppia una bufera di vento che costringe i naviganti ad un approdo di fortuna presso un isolotto. Qui Marco cade in estasi e gli appare un angelo che gli profetizza le ulteriori fatiche apostoliche sino alla costruzione di una meravigliosa città, dove sarebbe riposato il suo corpo. Finita l’estasi, Marco riparte e giunge a Roma rincuorato dalla profezia. Qui presenta a Pietro sia il resoconto della sua attività missionaria, sia Ermagora perché venga consacrato vescovo di Aquileia. Pietro accetta volentieri la richiesta del discepolo.
Corre allora l’anno 50: Ermagora ritorna ad Aquileia, Marco si reca in Egitto, ad Alessandria, dove per primo annuncia Cristo e organizza la relativa comunità ecclesiastica fino alla morte.
A questo punto se è leggendaria la narrazione del Dandolo e dei predecessori sull’arrivo di Marco e sull’apostolato in Aquileia tra il 48 e il 50, gode invece una discreta certezza storica Ermagora quale primo vescovo della città, ma senza aggancio alcuno con Marco e Pietro.

Marco in Egitto
L’apostolato marciano in Alessandria d’Egitto si fonda sul testo della Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Gli storici e gli agiografi posteriori hanno ampliato le notizie, ricostruendo una compiuta vita del santo dalla nascita sino al martirio.
Secondo le fonti copte, dopo la morte del cugino Barnaba, e degli apostoli Pietro e Paolo, a Marco appare Gesù che lo invita a partire per l’Egitto, luogo da evangelizzare. Il santo, obbediente all’invito del Signore, ritornato a Gerusalemme, porge l’ultimo saluto alla madre, prossima alla morte per poi intraprendere il nuovo viaggio. Giunto a Cirene, Marco incomincia a predicare e a compiere prodigi e miracoli.
Tutti gli abitanti aderiscono alla nuova predicazione.
Il viaggio di Marco riprende alla volta di Alessandria, città antagonista di Roma che conta un milione di abitanti. Lo storico Simone Logoteta narra le trame dei capi religiosi della città, i quali, appena si accorgono del sorprendente numero di credenti in Cristo, per colpa di Marco, cercano di catturarlo ed ucciderlo. Conosciuti i loro progetti per rivelazione divina, egli ordina ai discepoli di innalzare una grande chiesa in onore dell’Immacolata Vergine Maria e costituisce una vera e propria gerarchia ecclesiastica.
Uscito di nascosto da Alessandria, ritorna a Cirene, dove si ferma alcuni anni per consolidare la fede e costituire una regolare gerarchia . Terminata questa fase l’evangelista decide di ritornare ad Alessandria. Nella grande città che i cristiani sono aumentati di molto e sono attivi nell’azione di proselitismo. Hanno già eretto una chiesa per la loro attività di culto nella località di Boucoli.

La morte
L’occasione per disfarsi dell’evangelista non tarda a presentarsi. Gli avversari di Marco, approfittando delle cerimonie pasquali presiedute dal santo, gli inviano alcuni armati, che lo sorprendono mentre celebra il sacrificio eucaristico e lo arrestano. Marco muore il giorno successivo, è il 25 aprile del 68.
La moltitudine dei persecutori, nel desiderio, di far scomparire ogni traccia del santo, getta il corpo nel fuoco. A questo punto il Signore interviene in modo provvidenziale, facendo scoppiare una bufera violenta, che fa crollare edifici e morire molti abitanti. I carnefici del santo abbandonano in tutta fretta il corpo di Marco dandosi alla fuga. Quando il cielo si rasserena, alcuni uomini raccolgono i resti di Marco e li portano dove egli era solito cantare le sue preghiere e salmi, cioè a Boucoli. Il sepolcro di Marco diviene in breve tempo un santuario di fama internazionale, richiamandovi i fedeli dopo la fine delle grandi persecuzioni. Ad Alessandria i nuovi patriarchi ricevono la consacrazione e l’investitura sulla sua tomba, tenendo fra le mani il capo del santo, avvolto in preziosi drappi.
Questo santuario marciano è stato risparmiato durante l’invasione persiana dell’Egitto del 620, ma in parte incendiato durante l’invasione araba del 644-646. Le reliquie del santo sono ritirate dalle macerie finché al patriarca di Alessandria, viene concesso di ricostruire l’antico edificio dove vengono riposti i resti dell’evangelista.

Publié dans:SANTI EVANGELISTI |on 25 avril, 2012 |Pas de commentaires »

Dio ha fatto un sogno, un giorno disse: « Aggiungi un posto a tavola! » (di Don Romero)

http://www.donromeo.it/

DI DON ROMERO

Se tu conoscessi…! Le sorprese di Dio: stupirci per lasciarsi amare

Capitolo I

DIO HA FATTO UN SOGNO
Un giorno disse: “Aggiungi un posto a tavola!”

Identità e destino dell’uomo
“Dio è Amore” (1Gv 4,8), comunione di Tre Persone così trasparenti e unite da fare una cosa sola.
Un giorno decise: “Aggiungi un posto a tavola..!” e si creò l’uomo perché fosse uno di Casa Trinità.
“Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Ogni uomo è predestinato, progettato “figlio di Dio” perché un giorno ne divenga erede. Da qui la sua identità e il suo destino.
Si tratta di scoprire chi siamo. Il bisogno di totalità, infinità ed eternità è la spia della nostra “qualità” divina, irrinunciabile, che abbiamo da accogliere e .. attuare.
E un giorno « il Prototipo » divenne visibile in una vicenda umana: è lì, in Gesù di Nazaret, che scopriamo il senso e il film in anteprima della nostra esistenza, se la si vuole portare a piena riuscita.
Che idea hai di Dio? Non è indifferente averne una o un’altra. Solo da qui si ha anche l’idea giusta di uomo. Avendolo pensato padrone, gli uomini vi si sono ribellati. Sentendosi padroni di sé, ne sono indifferenti. Pensandolo latitante si scoraggiano e disperano.
Ma qual è il vero volto di Dio? Dove lo si scopre? Evidentemente là dove si è rivelato. Nella storia, cioè nella Bibbia. “Piacque a Dio – recita il Concilio – rivelare Se stesso e il disegno mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo nello Spirito santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina” (DV 2). E’ l’unica strada seria, perché vera, per conoscere Dio.

1 ABBA’, un Dio che è nostro padre
La prima sorpresa è di scoprire un Dio tutto per noi, che gradualmente si espone nella nostra storia, rivelando il suo volto e il suo sogno, che è quello di comunicarsi e contagiarci della sua stessa divinità.
“Dio misericordioso, pietoso..”
Un giorno Dio cominciò a rivelare il suo nome: “Io sono” (Es 3,14), “Io sono quel che farò vedere di essere”. La mia essenza non si può conoscere, ma la mia attività sì; dal mio agire capirete chi sono. “Ho visto la miseria del mio popolo, conosco le sue sofferenze, e sono sceso a liberarlo” (Es 3,7-8). Da sempre i fatti dell’esodo sono il fondamento della religione ebraica: Dio è il liberatore, il salvatore del suo popolo.
Perché mai tanto interesse? Semplicemente perché aveva scelto Abramo, perché aveva promesso e deciso di fare di Israele “il suo primogenito”. “Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,1-4).
Ma spesso Israele – come ogni uomo – è un figlio ribelle. A Dio allora non rimane altra scelta che quella di perdonare. E’ il suo biglietto da visita presentato a Mosè: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che perdona la colpa e la trasgressione…” (Es 34,6ss). “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, perché sono Dio e non uomo” (Os 11,8-9).

Padre di Gesù Cristo
Un giorno però appare un uomo che chiama Dio col nome di Abbà (Mc 14,36), papà, come un bimbo chiama il suo babbo. Abbà è sempre usato per esprimere la paternità fisica. Gesù lo usa al Getsemani e nell’ultima sua parola in croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).
Nel Nuovo Testamento cioè questa paternità di Dio prende un accento di novità assoluta: Dio è primariamente il Padre di Gesù Cristo. Padre in senso vero, dall’eternità a Lui consustanziale e, nel tempo, anche in senso fisico, per la generazione verginale in Maria ad opera dello Spirito santo. Gesù ha quindi un rapporto unico col Padre: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9); perché “io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30).
Egli vive tutta una vita che vistosamente sa esprimere questa piena sintonia. Se nella Trinità questo è un fatto “ontologico”, cioè “il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1), nella storia – quando “il Verbo si fece carne” (Gv 1,14) – tale sintonia è tradotta in una libera e coraggiosa scelta di obbedienza. La croce è la “gloria”, cioè l’espressione della sintonia piena di un uomo con Dio, come figlio assolutamente docile.
Il mistero dell’incarnazione prima e della redenzione poi (cioè della piena sintonia voluta e provata) esprimono il massimo della unione tra umanità e divinità, quello sposalizio che nella persona di Gesù diviene unione sostanziale (ipostatica) e al tempo stesso libera e umanamente “conquistata”. In Gesù Cristo si saldano il dono di Dio e l’accoglienza corrisposta dell’uomo.
E’ il vertice della storia umana: un uomo è unito profondamente a Dio, perché Dio ha voluto unirsi profondamente alla natura umana.
Ovviamente Gesù non come caso unico, ma come primogenito. “Dio s’è fatto uno di noi per fare ognuno di noi uno di lui” (sant’Ireneo). Qui si apre il più grande capitolo esaltante della nostra vicenda umana: l’inaspettato destino divino della nostra povera umanità.

“Lo Spirito del Figlio suo”
Scrive san Paolo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4,4-7). Quel medesimo Spirito cioè che in Maria ha generato l’umanità di Gesù, che ha guidato Gesù ad essere fedele al Padre fino alla croce, che l’ha risuscitato dai morti per farlo sedere glorioso alla destra di Dio, ora è dato ad ognuno di noi perché realizzi la nostra stessa divinizzazione. Ciò che Gesù è per natura noi lo diventiamo per grazia, per dono gratuito, in forza di quel suo Spirito che ci viene dato.
Anche per noi Dio è Abbà, padre nel senso vero, perché ci rende realmente partecipi della sua vita divina. Lo Spirito ci unisce a Cristo in una unità che realizza, anche per noi, un vero sposalizio tra umanità e divinità. E’ san Paolo a rievocarlo presentando la Chiesa come la sposa di Cristo (Ef 5), parlando esplicitamente di “una carne sola” che si viene a formare con Lui.

2 CRISTO, radice dell’uomo, dove scoprire identità, senso e destino
Noi ci diciamo cristiani perché facciamo riferimento a Cristo. Ma quale riferimento?
Quando si è bambini si parla del Gesù bambino e del presepio. Da adolescenti, Gesù è l’amico. Da adulti Gesù è .. la consolazione! Tutto qui? Solo sentimento?
Ben più profondo è il nostro legame con Lui, – ontologico, si dice – cioè strutturale e decisivo circa l’identità, il senso e il destino della nostra vita. San Paolo, nella Lettera ai Colossesi dice che Cristo è la RADICE dell’uomo e ne determina con precisione il rapporto: in Lui, per mezzo di Lui, in vista di Lui. Tutto sussiste in Lui. Come dalla radice deriva la pianta e ne determina la qualità, così Cristo determina la nostra più profonda identità e ne segna il destino e la direzione.
Bisogna risalire alla sorgente della nostra vita, là dove è stata pensata e creata, per capirne l’intima struttura; si tratta di vedere le cose dall’altra parte, quella di Dio, che tutte le cose ha create.
Solo così si può trovare la risposta alla domanda esistenziale fondamentale dell’uomo che cerca la verità di se stesso: Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? Che senso e che direzione deve avere la mia vita perché giunga a riuscita e non finisca in fallimento?

Un giorno, in Casa Trinità
Un grande mistero di gratuità sta all’origine della nostra esistenza: Dio nell’istante in cui pensa all’uomo, lo pensa subito come figlio proprio. Prima che nel ventre della madre, la fonte della nostra vita è nel cuore di Dio Padre! Ma andiamo con ordine.
Gesù ci ha parlato di Dio come di una famiglia di Tre Persone, che si vogliono così bene da essere una cosa sola. Di un Padre che genera dall’eternità un Figlio cui dona tutto se stesso e dal Quale trova piena corrispondenza e amore. Tale legame d’amore che li unisce è così intenso e vivo da essere una Persona, lo Spirito santo. Questi Tre rappresentano la vitalità dell’Unico Essere infinito, eterno e increato: tre Persone nell’unica natura divina.
In questo senso – come comunione interpersonale – san Giovanni ha detto che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Vi è là l’esperienza più profonda, sincera, trasparente dell’amore come dono, e quindi l’esperienza di una totale e sublime felicità. Non sono forse anche per noi gran felicità quei piccoli assaggi d’amore che sperimentiamo nella vita? Piccole pallide gocce di quella felicità di cui gode Dio da sempre!
Ora un amore vero non può chiudersi in sé, ma deve essere espansivo per sua natura, e arricchire altri della propria ricchezza e gioia. Così, in sostanza, è capitato per Dio.

Una decisione sorprendente
Le cose sono andate così. Il Padre, che aveva questo Figlio tanto caro, l’Unigenito, un giorno decise di allargare famiglia – “Aggiungi un posto a tavola..!” – e di avere un UOMO come suo figlio proprio: quel Figlio Unigenito assunse nel tempo la natura umana e divenne anche uomo. E’ stato questo il primo sogno di Dio, il suo primo progetto sull’uomo: il Figlio stesso di Dio che è uomo, un uomo che è il Figlio proprio di Dio. E’ Gesù Cristo. “Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,15-17).
Gesù di Nazaret, appunto il Figlio di Dio resosi uomo, rappresenta il primo Adamo, il primo uomo pensato e voluto da Dio: una unione sostanziale di umano e di divino, un impasto inscindibile, come il PROTOTIPO sul quale e in vista del quale tutto è stato creato.
Scopriamo così la nostra radice profonda e la nostra più autentica identità come è uscita dalla mano creatrice di Dio.

Compredestinati
Perché appunto in quella prima sorprendente decisione di Dio vi è implicita la seconda, quella di volere e creare non un prototipo soltanto, ma una lunga serie di altri fratelli, fatti sullo stampo del primo. Come prolungamento ed espansione dell’Unigenito Figlio di Dio fatto uomo, vengono creati tutti gli uomini, risultando quindi anche loro figli propri di Dio: “Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Da UNIGENITO è divenuto PRIMOGENITO tra molti fratelli.
E’ una “compredestinazione”, cioè pensati come Lui, con Lui, “figli nel Figlio”, amati quindi dal Padre come è amato l’Unigenito e chiamati ad inserirci in un modo pieno nel circolo d’amore della Trinità. Un sogno così espresso da Gesù: “Che tutti siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21). Una cosa sola entro il giro d’amore e di felicità di Casa Trinità, per godere di tutto l’effluvio di vita divina e di tenerezza che procede dal Padre verso il Figlio; per partecipare e godere dell’abbandono fiducioso, esaltante e luminoso del Figlio nei confronti del Padre; per essere goccia viva del grande fiume d’amore che intercorre tra i Due, perché posseduti dallo Spirito santo che ci anima interiormente.
Il sogno di Dio sta proprio nell’averci compartecipi di Casa sua, di fare di tutti gli uomini una sola famiglia che è la sua, quella Trinitaria, di averci tutti suoi figli ed eredi: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1).

In connessione con Lui
“In lui” siamo stati creati, precisa la lettera ai Colossesi. Non solo a sua immagine, ma in connessione con lui, come parte di lui. Più precisamente Paolo parla di un “Cristo totale” (“Christus totus”) che è oggetto della predestinazione da parte di Dio Padre, e che deve realizzarsi nel tempo – fino alla “pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1,23) – appunto attraverso l’aggiunta – libera – di tutti gli uomini creati (e redenti). Vi è fin dalla creazione – cioè nel progetto stesso di Dio sull’uomo – come una mutua immanenza tra Gesù e ogni uomo come parte di un unico organismo vivente.
“Per mezzo di lui”, dice ancora Paolo. Cristo è causa anche “efficiente”, perché la nostra creazione in qualche modo è passata nelle mani di questo uomo-Dio, di Cristo, un autore libero che ha lasciato certamente qualcosa della sua genialità, o meglio della sua umanità così sublime..!
“In vista di lui”: cioè Cristo è causa finale, quale modello finale cui l’opera è indirizzata come a progetto da realizzare fino al suo compimento.
Questa comunione profonda, creaturale, non si romperà neppure col peccato dell’uomo; anzi sarà inverata e approfondita perché il Figlio di Dio non si dissocerà dai fratelli divenuti colpevoli, ma resterà il capo sano di un corpo malato così da divenire per l’umanità sorgente di riscatto e di vita nuova.

Impastati di divino
Dio ci ha fatti “a sua immagine e somiglianza”, cioè ci ha impresso qualcosa di sé, ha impastato l’uomo con qualcosa di DIVINO. Come avviene d’un papà e d’una mamma, che trasmettono qualcosa di proprio al loro figlio. Qualcosa di divino che non possiamo più rinnegare, perché è strutturato in noi.
Siamo realmente gente di famiglia: Gesù ci insegnerà a usare per Dio non più i nomi della paura, ma quelli del figlio confidente: Abbà, papà. Alla condizione creaturale, cioè di dipendenza – come la ipotizzano tutti gli uomini e le religioni naturali nel rapporto uomo-Dio – subentra la condizione filiale, con un rapporto d’amore e di fiducia. “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà” (Rm 8,15).
Con un bisogno d’assoluto! Il nostro cuore è strutturato per il tutto e l’infinito. A volte uno arriva a capire che tutto il mondo non gli basta. « Solo Dio basta…! », andava ripetendo santa Teresa d’Avila. Oltre che speciale dono di Dio, è semplicemente questione di coerenza: .. divenire quello che si è! Non si spiega altrimenti in noi quel bisogno di totalità, infinità, eternità che nessuna delusione umana riesce a tacitare. Non è un pio desiderio « essere come Dio » (Gen 3,5), ma l’espressione della verità oggettiva di noi stessi!

Contiamo molto
Questo significa che nessuno viene al mondo per caso. Ognuno è il risultato di un atto d’amore personale di Dio; ha un perché, un progetto specifico, un destino e un ruolo suo proprio, unico e irripetibile, perché Dio non fa le cose in serie. Le cose non sono a mucchio, non è allo sbando la storia, non è alla deriva l’uomo tra i flutti violenti dei prepotenti: tutto è “ricapitolato” e organizzato in Cristo. “Ci ha amati fin da prima della creazione del mondo e ci ha scelti” (Ef 1,4).
Davanti a Dio “contiamo” moltissimo, ci dice Gesù (cf. Mt 6). Con la sua provvidenza guida i nostri passi: “Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rm 8,28). Usa nei nostri confronti una tenerezza più ampia di quella di una madre (cf. Is 49), tanto che l’atteggiamento giusto da tenere è suggerito dal Sal 130: “Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, è l’anima mia”. Questa immagine deve diventare esperienza, perché ci sostenga nella prova. Un bambino accetterà anche la medicina amara dalla sua mamma quando avrà sperimentato che sempre e comunque ella vuole il suo bene!

E se figli, eredi
E’ domanda troppo importante quella sul nostro futuro: Che cosa c’è dopo la morte? C’è un aldilà sicuro e garantito? E in che consiste? La nostra paura proviene da questo futuro ignoto.
Noi siamo abituati a vedere solo il breve tratto della nostra esistenza terrena, e la troviamo assurda e angosciante. Solo la scoperta che quel tratto è un piccolo segmento d’una linea più lunga, ci può dilatare il cuore a prospettive diverse.
Se Dio ci ha fatti suoi figli è perché ci chiama a divenire, in un modo pieno e perenne, partecipi della sua stessa vita in Casa Trinità. “E se figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17).
Il sogno divino è che tutti gli uomini “siano una cosa sola” col Padre, col Figlio, nello Spirito santo, cioè attraverso il legame dello Spirito santo, lo stesso che all’interno della Trinità lega il Padre e il Figlio. “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me; e l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io il loro” (Gv 17,20-25).
Là, in Casa Trinità, c’è posto per tutti. Gesù, nostro fratello maggiore, è andato avanti a prepararcelo. Perciò diceva: “Nella mia casa ci sono molti posti.., io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3). Fino ad esprimersi con quell’immagine che è la più commovente di tutto il vangelo: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli: in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Fantastico, vero? Saremo a cena da Dio e lui sarà così contento di averci tra i suoi commensali da mettersi il tovagliolo al braccio e passare a servirci!!

Simili a Lui
Il nostro destino è ormai quello di diventare niente di meno che come Dio: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Dentro ognuno di noi c’è un bisogno di felicità e di possesso che è grande quanto Dio: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (sant’Agostino). Vera riuscita dell’uomo è raggiungere quel traguardo.
A noi è richiesto naturalmente l’impegno di accogliere tale dono: “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Sant’Ireneo con espressione sintetica dice: “Gloria Dei vivens homo”, la gloria di Dio è l’uomo vivente. La passione di Dio, che è quella di un Padre, è che l’uomo viva, cresca, si sviluppi in pieno: è lui che ci ha creati, che ci ha fatti suoi figli partecipandoci la sua vita. Non vengono da lui la morte e il male. Questi arrivano quando l’uomo si rifiuta a Dio.
Prosegue sant’Ireneo: “Vita autem hominis visio Dei”, ma la vera vita dell’uomo è il possesso di Dio! Il destino, la riuscita, il bisogno vero dell’uomo è divenire come Dio stesso, “simile a lui”. Il paradiso è l’unico luogo che può rendere felice l’uomo. O l’uomo diviene erede di Dio, o è meno che uomo, perché l’unico uomo creato che conosciamo è appunto figlio di Dio!

La necessità di Dio
Qui si fonda la « necessità » di Dio: il non poter più fare a meno di Lui. In sostanza, l’indispensabilità di essere « religiosi »! Non è concepibile un uomo « ateo »; come non è pensabile un uomo senza un legame con sua madre!
Chi si ritiene non « credente », non riconoscendo l’origine e il destino di sé in Dio, è fuori verità, fuori dal reale e – a parte la colpevolezza personale – un alienato e un fallito! « In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, perché di Lui stirpe noi siamo » (At 17,28). Fuori di questo habitat naturale, l’uomo non ha senso né riuscita!

Il senso della vita
Un giorno capitò che proprio quel « Prototipo », sul quale siamo stati stampati, venisse tra noi in carne ed ossa a vivere una vicenda umana concreta, per presentare come in anteprima il film del nostro vivere da uomini che vogliono realizzare quell’unico progetto e destino per il quale siamo stati concepiti. Si tratta in sostanza di vivere da figli di Dio per poterne divenire eredi. E’ tutta la vicenda umana di quel Gesù di Nazaret vissuto in Palestina per 36 anni.
Figlio di Dio dall’eternità, divenendo anche uomo ha tradotto nelle forme umane, nelle pieghe della vicenda di ogni giorno, esattamente quell’atteggiamento di fondo che è la sua fedele e totale figliazione divina. Ha come fatto assorbire alla libertà dell’uomo Gesù quella docilità che era del Figlio di Dio da sempre: la volontà umana si è adeguata completamente alla volontà divina. Non certo senza la fatica e la sofferenza, fino al dramma del Getsemani.
Proprio questa totale sintonizzazione della natura umana alla divina ha ottenuto la grande fortuna di portare la natura umana – libertà e corpo – entro la realtà divina: un uomo, in carne ed ossa, ora siede alla destra del Padre come da sempre questo Figlio di Dio sedeva.
Gesù è venuto esattamente a mostrare – non in un libro, ma con la vicenda di una esistenza concreta – quale sia la strada per noi da seguire per realizzare l’unico nostro progetto, e quindi l’unico senso della vita: crescere da figli obbedienti di Dio per divenire suoi eredi. Non ha altro scopo la vita: non il fare, non il lasciare traccia o memoria di sé. Quando Dio si accorge che uno ha detto questo sì filiale, dice: Basta! Ho quello che mi aspettavo da te, entra nel gaudio del tuo Signore!

Fratelli tra di noi
Le opere che facciamo – che dobbiamo fare – sono solo una verifica di questo nostro vivere da figli, a immagine del Dio – che è Amore – sul quale siamo stati stampati. Se il mestiere di Dio è quello di amare, e amare gratuitamente, il segno del nostro crescere un poco in divinità si traduce nel crescere un poco in carità. Per questo la legge che regola la nostra vita cristiana è l’amore al prossimo.
Dio ci ha costituiti strutturalmente non come isole, ma come famiglia simile alla sua, e quindi come fratelli tra di noi.

La verità dell’uomo
Se Gesù è l’uomo riuscito, lì scopriamo la verità piena di noi stessi. “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo. Egli è l’immagine (riuscita) di Dio, egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato” (GS 22). Seguire lui significa divenire veramente uomini!

3 UN PROGETTO in cinque tappe: Rm 8,28-30
San Paolo si sentiva molto stupito e fortunato di essere stato fatto annunciatore del “mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria” (Ef 1,26-27). Si tratta di un progetto sull’uomo, che Dio ha pensato da lontano e che attua – attraverso Cristo – in diverse fasi lungo l’arco completo della nostra vita.
Nella Lettera ai Romani, san Paolo fissa questo disegno in cinque momenti, marcati da cinque verbi speciali.
“Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che da sempre ha conosciuto li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,28-30).

Conosciuti e predestinati
Il tratto di vita che precede la nostra apparizione nel mondo sta nel cuore e nella mente di Dio: è propriamente la fase di progettazione. Due verbi la qualificano: conosciuti e predestinati.
Conosciuti significa che ogni uomo è voluto, amato, sognato come risultato di una premura e di un progetto personalizzato. L’immagine primordiale biblica è quella del vasaio, che non fa mai vasi in serie, ma ognuno è un capolavoro nuovo e originale. Oggi diciamo che Dio chiama ciascuno per nome. “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (Ger 1,5); “fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49,1).
Quando Dio pensò all’uomo, pensò subito a un progetto preciso, pensandolo in Cristo. Si decise che l’Unigenito, che era nel seno del Padre, assumesse la natura umana divenendo anche uomo. Fu il primo uomo progettato da Dio, come il prototipo, un Dio che è anche uomo, un uomo-Dio! E’ Gesù Cristo. “Egli è prima di tutte le cose” (Col 1,17).
Su quello ‘stampo’ sono stati creati tutti gli uomini: da Unigenito il Figlio proprio di Dio divenne “primogenito di molti fratelli”. L’uomo è così creato, ‘stampato’, strutturato, “predestinato” figlio proprio di Dio come il Primogenito. Cioè uomo-Dio come lui. “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

Chiamati
Quando uno viene al mondo, Dio gli propone il suo Dono, gli fa conoscere la sua proposta, lo chiama a realizzare quel progetto. E poiché si tratta di un rapporto libero e d’amore, nasce qui una lunga storia d’amore tra Dio e ogni sua creatura. Egli la pungola in forme infinite ad aprirglisi in piena libertà; storia d’amore rappresentata come in sintesi paradigmatica nella singolare avventura d’amore intercorsa tra Dio e il suo popolo nella Bibbia.
Una vicenda, quella di Israele, ricca d’interventi di Dio e di risposte non proprio sempre positive.
Anche la chiamata rivolta ad ognuno di noi trova stranamente un rifiuto. Gesù ne parlò con amarezza, svelando la meschinità delle nostre scuse, anzi delle nostre prepotenze, a partire dalla parabola del figlio prodigo, a quella degli invitati al banchetto di nozze del figlio del re (cf. Mt 22,1-14), a quella dei vignaiuoli omicidi (cf. Mt 21,33-44). L’uomo dice di no a Dio e tenta di realizzare di sé un progetto alternativo.
Questo è il peccato di Adamo e nostro. Quell’essere stati fatti a immagine somigliante a Dio, anzi a Cristo, finisce per diventare immagine sfocata, non più somigliante, e l’uomo perde i tratti più specifici della sua identità, divenendo uomo destinato alla morte e nemico di Dio.

Giustificati
Ecco allora l’ulteriore scelta di Dio. Il Figlio di Dio si fa uomo per essere il primo uomo capace di dire di sì a Dio e aiutare tutti gli uomini a dire il loro sì, riconciliando così tutta l’umanità al suo Creatore e Padre.
La vicenda umana di Gesù la si può riassumere in una duplice azione: mostrare con tutto se stesso la bontà e la misericordia del Padre perché gli uomini ne abbiano più fiducia e amore; e poi vivere tutta una vita come un sì pieno e totale al Padre, fino all’atto supremo del sì della croce, per essere d’esempio e in un certo modo per rappresentarci nell’atto di riconciliazione con Dio.
Dio ha come voluto caricare su di lui il peccato di tutti noi. Ha così espiato a nome nostro e per noi, riconciliandoci con Dio, rendendoci giusti davanti a Lui. Ci ha giustificati col sangue della sua croce, riaprendoci ad un nuovo e più intimo rapporto con Dio.

Glorificati
“E se figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Siamo chiamati a divenire niente di meno che come Dio, “simili a Lui perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).
Vi saremo con la pienezza della nostra realtà di uomini, in anima e corpo, sul modello di quello che è già avvenuto per Gesù, risuscitato col suo corpo. “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (Gv 11,25). Il sogno dell’uomo era l’immortalità; il dono di Dio è la risurrezione della carne per una vita perenne “da dio”.

La preghiera
Dio è padre, anzi papà, Abbà, ma ha anche il cuore e le viscere di una madre. Così dicono Isaia e Geremia. Ha voluto tradurre questa sua maternità attraverso il cuore fisico una madre, la sua Madre Maria, dataci come nostra madre.

ALLA VERGINE MADRE
Mi rivolgo a te, come figlio a Madre, o Vergine Maria, Cui tutti ricorrono per un aiuto.
La vita – lo so – ha le sue verità! Mi ero illuso di possedere, fare, godere …, di non aver bisogno di niente e di nessuno; neanche di Dio! Ed eccomi qua, nel dolore, nella delusione, nel bisogno.
Mi rivolgo a Te, che aiuti proprio là dove non arriva nessuno, dove non esiste merito, dove semplicemente c’è da amare. Poiché Tu sei il cuore umano di Dio intessuto della tenerezza di donna, di sposa e di madre, limpida e generosa come intatta sorgente.
Tu conosci quanto profondamente penetri nella carne e nella vita la sofferenza che mi tocca; fino a cedere, fino a ribellarmi contro Dio e contro tutti. Anche Tu hai provato – ai piedi della croce – il bruciore di una tragedia.
Stendimi la mano, dammi il Tuo aiuto: per poter come Te stare in piedi nella prova, e saper sempre guardare più in là, al Dio che conosce ed è vivo nei secoli dei secoli. Amen.

JONAH THE PROPHET

JONAH THE PROPHET dans immagini sacre jonah-and-whale

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Publié dans:immagini sacre |on 24 avril, 2012 |Pas de commentaires »

UNA PREGHIERA DALL’ANTICO TESTAMENTO – GIONA 2, 2-10

http://www.laparola.net/testop.php?riferimento=Giona%202%3A2-10

UNA PREGHIERA DALL’ANTICO TESTAMENTO

Giona 2:2-10

2 Dal ventre del pesce Giona pregò il SIGNORE, il suo Dio, e disse:
3 «Io ho gridato al SIGNORE, dal fondo della mia angoscia,
ed egli mi ha risposto;
dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato
e tu hai udito la mia voce.
4 Tu mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare;
la corrente mi ha circondato,
tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto.
5 Io dicevo: « Sono cacciato lontano dal tuo sguardo!
Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo? »
6 Le acque mi hanno sommerso;
l’abisso mi ha inghiottito;
le alghe si sono attorcigliate alla mia testa.
7 Sono sprofondato fino alle radici dei monti;
la terra ha chiuso le sue sbarre su di me per sempre;
ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa,
o SIGNORE, mio Dio!
8 Quando la vita veniva meno in me,
io mi sono ricordato del SIGNORE
e la mia preghiera è giunta fino a te,
nel tuo tempio santo.
9 Quelli che onorano gli idoli vani
allontanano da sé la grazia;
10 ma io ti offrirò sacrifici, con canti di lode;
adempirò i voti che ho fatto.
La salvezza viene dal SIGNORE».

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01111997_p-48_it.html

« RADICI DELL’ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO »

GESÙ DI NAZARETH VISTO DA SCRITTORI EBREI DEL XX SECOLO*

Joseph Sievers

È stato notato tempo fa che giudaismo e cristianesimo hanno in comune una grande riluttanza: accettare pienamente e apertamente il fatto che Gesù era un ebreo. Noi cristiani spesso ci siamo creati un’immagine di un Cristo sradicato dalla sua terra, dal suo tempo, e dal suo popolo. Per gli ebrei invece, per molti secoli, Gesù è stato colui nel cui nome essi sono stati perseguitati e quindi era difficile considerarlo uno di loro.
Ciò non vuol dire che non ci sia stata tutta una letteratura, di carattere a volte polemico, spesso apologetico, su Gesù visto da ebrei. Bisogna anche affermare subito che non tutti gli autori ebrei che si sono interessati dell’argomento lo hanno voluto fare specificamente da ebrei, e che nessun autore può parlare a nome de « gli ebrei ». Infatti, in genere ogni autore esprime solo delle opinioni sue personali, basate sulle sue ricerche e sul suo punto di vista personale, che può essere condiviso da un numero più o meno grande di altre persone. Delle vedute ebraiche su Gesù si sono interessati alcuni libri e molti articoli(1).
Rinviamo a questi studi per un esame più dettagliato di vari aspetti dello sviluppo delle vedute di ebrei su Gesù. Qui ci limitiamo ad un cenno ad alcuni libri che sono stati influenti nella prima metà del nostro secolo e a una selezione più ampia, seppur per niente completa, degliultimi decenni(2). Quindi non consideriamo tutte le opere che non trattano principalmente di questo argomento, benché negli scritti filosofico-religiosi di Rosenzweig e Buber, in varie pitture di Chagall, e in tante opere della letteratura ebraica si trovino delle espressioni molto interessanti su Gesù.
Claude Montefiore, un esponente del giudaismo liberale in Inghilterra, fu uno dei primi a scrivere un commento ai Vangeli da un punto di vista ebraico, ma simpatetico al cristianesimo(3). La sua opera non presenta tanto delle idee originali quanto dà una propria sintesi degli studi fatti sui Vangeli, in quell’epoca, da studiosi cristiani. Il Montefiore parlava con tono tanto irenico che a volte venne accusato di essersi avvicinato troppo al cristianesimo, anche se egli stesso rimase sempre fedele al giudaismo.
Più conosciuta dell’opera di Montefiore è quella del Klausner, il quale, più che rifarsi agli studi neotestamentari di autori cristiani, ha cercato di capire e presentare Gesù nel suo contesto storico(4). L’originalità del suo libro non sta però nelle singole affermazioni, ma nel presentare uno studio su Gesù a un pubblico ebraico in lingua ebraica. Klausner sottolinea l’ambiente ebraico in cui Gesù è vissuto e nel quale si situa il suo insegnamento. Afferma: «Gesù di Nazareth… era esclusivamente un prodotto della Palestina, un prodotto del giudaismo puro, senza alcuna aggiunta estranea. C’erano molti Gentili in Galilea, ma Gesù non era affatto influenzato da loro… Senza eccezione il suo insegnamento è interamente spiegabile attraverso il giudaismo biblico e farisaico del suo tempo»(5). Mentre vede l’origine di tutti gli insegnamenti di Gesù nel giudaismo, Klausner giudica duramente la – secondo lui – eccessiva e pericolosa radicalità dell’etica di Gesù. Secondo Klausner ciò avrebbe portato a una deleteria scissione tra ideale religioso e prassi quotidiana(6). Anche se non seguiamo Klausner nelle sue polemiche, che hanno più a che fare con una millenaria storia di antisemitismo da parte cristiana che con la figura di Gesù, forse può essere utile vedere Gesù collocato interamente, « fino all’ultimo respiro », nel giudaismo del suo tempo.Per più di una generazione l’opera di Klausner è rimasta il libro più influente di questo tipo, anche se è stata criticata per il suo approccio « dilettantistico » alle fonti rabbiniche e cristiane. Durante il periodo più buio della storia di questo secolo, tra il 1943 e il 1946, Jules Isaac scrisse il suo libro « Jésus et Israël »(7). In esso cerca di evidenziare l’ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli. Si sofferma sulla inesattezza dell’accusa di deicidio fatta per secoli agli ebrei. Il libro si articola in una serie di proposizioni per combattere l’antisemitismo nelle sue radici cristiane. Questo libro programmatico ha avuto ampia risonanza, non tanto nel campo dello studio del Gesù storico quanto per un ripensamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.
Negli anni Sessanta vediamo il riapparire di tutta una serie di libri su Gesù, scritti da ebrei. Il primo da notare è « We Jews and Jesus » (« Noi ebrei e Gesù ») di Samuel Sandmel(8). Fino alla sua morte nel 1979 il rabbino Sandmel è stato professore di Sacra Scrittura e letteratura ellenistica al famoso Hebrew Union College di Cincinnati negli Stati Uniti. Il suo è un lavoro molto sobrio, indirizzato primariamente a ebrei, ma evidentemente è stato ricevuto molto favorevolmente anche da altri. L’autore traccia lo sviluppo storico della comprensione di Gesù da parte di cristiani ed ebrei. La sua intenzione è di informare e di aiutare per una migliore comprensione reciproca tra ebrei e cristiani. L’interesse principale non è tanto rivolto al Gesù storico quanto alla situazione di ebrei e cristiani oggi.
Anche Schalom Ben-Chorin ha la stessa ansia di promuovere una migliore comprensione fra ebrei e cristiani. Nato e cresciuto in Germania, dal 1935 vive a Gerusalemme. Ha scritto ormai più di venti libri (in tedesco, alcuni tradotti anche in altre lingue), in cui il rapporto tra ebrei e cristiani è la nota fondamentale. Soprattutto vuole far capire ai cristiani le loro radici nel giudaismo. Qui ci interessa particolarmente uno dei suoi primi libri, sulla figura di Gesù di Nazareth(9). L’autore parte dal presupposto che Gesù era un ebreo del suo tempo, da capire – e da riscoprire – soltanto nel suo contesto ebraico, anche se era una persona eccezionale. Ben-Chorin fa sue le parole ormai famose di Martin Buber:
«Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello. Che la cristianità lo abbia considerato e lo consideri come Dio e Redentore, mi è sempre sembrato un fatto della massima serietà, che io devo cercare di comprendere per amore suo e per amore mio… Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e più puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero»(10).
Nel tentativo di collocare Gesù più esattamente nel suo contesto, Ben-Chorin afferma: «In questo senso, crediamo di non sbagliare nel far rientrare Gesù stesso tra i farisei, naturalmente all’interno di un sottogruppo di opposizione. Gesù stesso insegnava come un rabbino fariseo, per quanto con un’autorità maggiore, la cui eccessiva sottolineatura va tuttavia senz’altro considerata come tradizione kerigmatica»(11).
Tale tesi, che Gesù faceva parte del gruppo dei farisei, viene proposta ormai da vari studiosi, e non solo ebrei(12). Gesù fariseo: forse è un’idea scioccante per molti lettori. Infatti, non può essere comprovata da nessuna delle nostre fonti, neotestamentarie o altre. Però indica una verità spesso trascurata: che molti degli insegnamenti di Gesù non sono lontani da quelli di certi farisei o di rabbini, loro successori più o meno diretti. Infatti, seppur Gesù ha avuto polemiche con dei farisei, in nessun modo il suo insegnamento di per se stesso lo mette al di fuori del giudaismo.
La tesi fondamentale di Ben-Chorin è «che sotto la veste greca dei Vangeli si nasconde per così dire una tradizione originaria ebraica, in quanto Gesù e i suoi discepoli erano ebrei, prettamente eunicamente ebrei»(13). Seguendo l’esempio di Klausner ed altri, è ormai un fatto abbastanza acquisito tra gli esegeti sia cattolici che protestanti, fare attenzione allo sfondo ebraico dei vangeli. Però non è così facile, come lascerebbe intendere Ben-Chorin, essere sicuri dell’entità dell’influenza di tale sfondo. Naturalmente per un cristiano è impossibile affermare che Gesù era unicamente ebreo.
Spesso Ben-Chorin va troppo lontano nelle sue affermazioni su Gesù, come quando, per esempio, desume che Gesù era sposato dal fatto che non è mai accusato di non esserlo(14). Nonostante ciò, fra le opere di carattere popolare è forse ancora la migliore sul mercato italiano.
Un autore che ha avuto molto successo tra il pubblico, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, ma ormai anche altrove, è Pinchas Lapide. Sono in commercio oltre venti libretti suoi in tedesco, di cui alcuni tradotti anche in italiano. Molti di essi sono nati da conferenze o programmi alla radio o alla televisione, a volte in dialogo con dei teologi famosi come Rahner, Moltmann e Küng. Il libro più provocatorio è intitolato « La resurrezione: un’esperienza di fede ebraica »(15). In esso sostiene che l’idea della resurrezione individuale era presente nel giudaismo del tempo di Gesù e che quindi Gesù potrebbe essere stato risuscitato (per poi morire di nuovo), come egli stesso aveva risuscitato Lazzaro. Purtroppo qui si tratta di una interpretazione tendenziosa delle fonti giudaiche che porta a una apparente vicinanza a posizioni cristiane. Sembra che tale affermazione non serva né alla conoscenza migliore del Gesù storico, né all’approfondimento del dialogo fra ebrei e cristiani. Anche se Lapide ha fatto e continua a fare molto per sensibilizzare un vasto pubblico cristiano al rapporto essenziale tra cristianesimo e giudaismo, bisogna distinguere tra affermazioni sue basate su una buona conoscenza delle fonti e intese a contribuire a una migliore comprensione di esse e altre affermazioni fatte piuttosto per il loro possibile effetto pubblicitario. Fra le sue altre pubblicazioni, Lapide dedica un volume assai utile a una rassegna di vedute ebraiche su Gesù. Di particolare interesse un capitolo dedicato al trattamento di Gesù nei testi scolastici israeliani(16).
Molto diversa si presenta invece l’opera di David Flusser, professore emerito all »Università Ebraica di Gerusalemme, famoso per i suoi lavori sui Manoscritti del Mar Morto e su altri testi giudaici, oltre che sul Nuovo Testamento. Il suo primo libro su Gesù fu un grande successo editoriale, con traduzione in varie lingue(17). In esso Flusser tentò di far capire meglio la figura di Gesù, che egli vede come rappresentante di un giudaismo genuino, vicino al fariseismo ma critico di esso. Flusser combatte su due fronti: da un lato vuole liberare i cristiani da quello che considera uno scetticismo troppo spietato degli esegeti, specialmente causato dall’influenza di Bultmann; dall’altro lato, tra le righe, nel fare sue certe critiche di Gesù ai farisei, vuole anche criticare alcune correnti del giudaismo moderno. Quindi vede Gesù come un personaggio importante non solo per il suo, ma anche per il nostro tempo.
Queste vedute Flusser le ha ampliate e in certi aspetti modificate in una sua opera più recente sulle parabole di Gesù(18). In uno studio che si estende per oltre 300 pagine fitte, cerca di analizzare quale sia l’essenza delle parabole di Gesù e quale sia il loro rapporto con le parabole rabbiniche. Afferma che «capiamo le parabole di Gesù in modo corretto soltanto quando le consideriamo appartenenti al genere letterario delle parabole rabbiniche» (p. 279).
L’autore insiste poi giustamente sul fatto che molti esegeti del Nuovo Testamento, anche quando sono consci di paralleli rabbinici a testi neotestamentari, spesso non ne conoscono abbastanza il contesto letterario e storico. Quindi Flusser cerca con tutti i mezzi, inclusa una polemica a volte dura, di far notare la necessità di leggere l’insegnamento di Gesù nel suo contesto giudaico.
Tra gli esegeti del Nuovo Testamento è stata elaborata una serie di criteri per stabilire con più sicurezza quali detti nei Vangeli si possono attribuire a Gesù stesso. Non c’è unanimità su quali possano essere questi criteri, ma uno che appare praticamente in ogni elenco è il cosiddetto « criterio di dissomiglianza », vale a dire: se un detto è « dissimile » dagli interessi sia delle primitive comunità cristiane sia del giudaismo del tempo, è da considerare autenticamente di Gesù.
Flusser va proprio nella direzione opposta: considera autentici di Gesù quei testi che più riflettono un pensiero consono a quello dei rabbini e dei farisei del tempo. Con questo mette il dito su un problema che molti esegeti hanno già superato, ma che si trova ancora in molti testi di teologia, anche recenti: spesso si mette l’accento soltanto sul fatto che Gesù era diverso da tutti gli altri, e non sul fatto che il Verbo si è fatto carne come ebreo ed è vissuto, ha insegnato ed è morto come un figlio del suo popolo, del suo tempo e della sua terra. Molto diverso dall’approccio di Flusser è quello del Vermes. Anch’egli ha una conoscenza profonda sia del Nuovo Testamento che della letteratura ebraica del periodo. Il Vermes ha scritto un libro dal titolo semplice ma provocatorio: « Gesù l’ebreo »(19). In esso cerca di analizzare prima il contesto della vita e dell’insegnamento di Gesù e poi i vari titoli dati a Gesù. La sua intenzione non è di esporre un punto di vista specificamente ebraico. Infatti il sottotitolo dell’edizione originale era « Lettura dei Vangeli da parte di uno storico ». Tuttavia suggerisce, citando Martin Buber, che «noi ebrei conosciamo Gesù negli impulsi e nelle emozioni della sua essenza giudaica, in una maniera che rimane inaccessibile ai gentili a Lui sottomessi»(20). Il Vermes cerca di evitare, in quanto gli è possibile, i preconcetti ideologici o teologici. Afferma che «ai Vangeli ci si avvicina per lo più con idee preconcette. I cristiani li leggono alla luce della loro fede, gli ebrei mossi da vecchi sospetti, gli agnostici pronti a scandalizzarsi e gli studiosi del Nuovo Testamento con i paraocchi del loro mestiere»(21). Tali generalizzazioni naturalmente dicono al massimo una parte della verità, ma può risultare utile l’essere coscienti della varietà dei punti di vista.
Tra i suggerimenti più interessanti del Vermes è quello di vedere Gesù in legame particolarmente stretto con l’ambiente della Galilea e con un tipo di giudaismo carismatico di cui conosciamo alcuni esponenti galilei(22). Anche se il Vermes non esaurisce l’argomento, ci induce a prendere più sul serio la domanda: in che tipo di ambiente giudaico Gesù è cresciuto?
La seconda parte del libro di Vermes è dedicata ad alcuni titoli cristologici di Gesù (profeta, signore, Messia, figlio dell’uomo, figlio di Dio). In contrasto con molti esegeti che attribuiscono la maggior parte di questi titoli alla comunità cristiana postpasquale, egli accetta tutti come storicamente attendibili, soltanto che Gesù non avrebbe mai usato o accettato il titolo di Messia quando altri glielo attribuivano. Il Vermes adopera un metodo di per sé molto valido, cioè l’analisi di che cosa significavano questi termini per un ebreo del primo secolo. Afferma che profeta, signore, figlio di Dio erano termini applicati a una varietà di persone, e ne cita esempi soprattutto dalla letteratura rabbinica. La controversia più grande si è accesa attorno all’interpretazione del termine « figlio dell’uomo » data da Vermes ( in questo libro e in altri suoi studi sin dal 1965). Egli ritiene che « l’espressione figlio dell’uomo seguendo un uso armonico serve alla persona che parla per alludere velatamente a se stessa per motivi di timore, modestia o umiltà »; in altre parole, nella bocca di Gesù essa sarebbe stata semplicemente una circonlocuzione per il pronome personale « io »(23). Qui non è il luogo per discutere questa affermazione controversa, ma notiamo solo che anche se è attestato l’uso di essa in senso di circonlocuzione, ciò non toglie l’importanza, nella stessa epoca, della figura escatologica del « figlio dell’uomo », conosciuto dal libro di Daniele (7, 13) e dalla seconda parte del libro di Enoch (cc. 37-71).
Evidentemente, per comprendere pienamente le problematiche toccate dal Vermes ci vuole una base di conoscenza del Nuovo Testamento e del giudaismo contemporaneo ad esso, ma l’autore scrive sia per lo specialista (con ampia documentazione nelle note a piè di pagina) sia per un pubblico più vasto. Certamente la sua non è l’ultima parola sull’argomento: anche il Vermes stesso vede il suo libro come l’inizio di una serie di tre volumi(24). Ma forse finora il suo è il tentativo più riuscito per collocare Gesù nel giudaismo del suo tempo.
Negli ultimi anni, specialmente in Nord America, dove sempre di più gli ebrei sono una minoranza accanto a altre minoranze, di cui varie di stampo cristiano, il dialogo fra ebrei e cristiani ha fatto dei progressi notevoli anche se rimane sempre molta strada da fare. Le persone coinvolte in questo dialogo a vari livelli sono sempre una piccola minoranza nella minoranza, sia da parte ebraica sia da parte cristiana. Un frutto di questo clima è anche tutta una serie di libri sul nostro argomento.
Uno è quello di Harvey Falk, dal titolo « Gesù il fariseo »(25). L’autore è un rabbino ortodosso, con una conoscenza delle fonti ebraiche molto vasta, seppur tradizionale piuttosto che scientifica. Falk prende spunto dalla affermazione di un suo famoso antenato, il rabbino Jacob Emden (1697-1776), che Gesù sarebbe venuto a fondareuna religione nuova per i Gentili, basata sui cosiddetti sette comandamenti dati a Noè(26). Seppure l’atteggiamento molto positivo di Emden verso Gesù, Paolo e il cristianesimo in generale vada visto nel contesto della sua polemica durissima con altri gruppi di ebrei (specialmente i seguaci di un falso Messia, Sabbatai Zevi), i suoi scritti sul rapporto fra cristianesimo e giudaismo rimangono dei documenti importanti, adesso più facilmente accessibili grazie al lavoro del Falk.
Abbiamo già notato che il tentativo di collocare del tutto Gesù all’interno del fariseismo è destinato a fallire; ma nonostante ciò il lavoro del Falk, che usa le fonti secondo metodi tradizionali e non in modo storico-critico, è molto interessante. Cerca di dimostrare come in molti casi Gesù si trovasse in accordo sostanziale con la scuola farisaica di Hillel, che allora rappresentava una minoranza ma diventò più tardi la forza determinante. Al di là dei dettagli, è davvero segno di un clima nuovo se una tale opera può essere scritta da un rabbino ortodosso e pubblicata da una casa editrice cattolica.
Se un clima di dialogo, nato dopo la tragedia indescrivibile dell’era nazista, ha dato la possibilità a ebrei di avvicinare Gesù più serenamente, va anche detto che in molti autori ebrei ancora l’ansia di prevenire un possibile antisemitismo cristiano è un elemento importante nel trattare l’argomento.
Se soprattutto nelle opere di Flusser e Vermes vediamo un dibattito a volte acceso con posizioni di esegeti cristiani, il Borowitz va un passo più in là. In un clima influenzato da qualche decennio di dialogo fruttuoso fra studiosi ebrei e cristiani, egli ha deciso di studiare come alcuni teologi cristiani di oggi vedono Gesù. Non cerca tanto di arrivare al Gesù storico, ma di fare una valutazione di vari studi di cristologia. Dice:
«Sentivo che una investigazione dettagliata di un’area teologica in cui cristianesimo e giudaismo hanno delle vedute radicalmente diverse offrirebbe molti esempi interessanti per la logica della discussione interreligiosa… Se colloqui fra ebrei e cristiani devono avere un significato, si dovranno affrontare senza ambiguità le questioni inerenti nella dottrina cristiana del Cristo»(27).
Aiutato nella selezione dei testi da alcuni teologi cattolici e protestanti, cerca di vedere quanto queste cristologie diano un’immagine adeguata del contesto giudaico di Gesù e soprattutto che atteggiamento esprimono verso gli ebrei e il giudaismo. Le sue conclusioni sono che anche se nei testi scelti non trova antisemitismo, spesso ancora il giudaismo in generale o il fariseismo in particolare servono come sfondo negativo per la novità del Vangelo e l’unicità di Gesù. Alcuni autori sono sensibili al fatto di Gesù, ebreo del suo tempo, ma anche nelle loro opere questo elemento sembra dimenticato poi in altri contesti. Troppo spesso ancora vale il titolo di una recente opera del noto esegeta cattolico Norbert Lohfink: « La dimensione ebraica nel cristianesimo: dimensione perduta »(28).
Si è parlato molto della differenza tra il Gesù storico e il Cristo della fede cristiana. Spesso autori cristiani vedono solo « il Cristo », o perché danno meno importanza al fatto storico o perché, come Bultmann, ritengono pressoché impossibile giungere al Gesù storico attraverso il doppio filtro degli autori del Nuovo Testamento e della comunità cristiana del primo secolo. Autori ebrei invece riconoscono con più facilità un Gesù « storico » e riconoscono in esso dei lineamenti molto familiari dalla letteratura rabbinica e da altri scritti di origine ebraica.L’esegesi neotestamentaria, nel desiderio di trovare il Gesù autentico, ha troppo spesso sottolineato solo ciò che è unico nel suo insegnamento e quindi tendenzialmente lo ha separato sia dal giudaismo del suo tempo che dalla Chiesa primitiva. Anche se questa operazione è metodologicamente necessaria in certi momenti, non ci dà il Gesù autentico, ma o un genio di creatività o una persona eccentrica (a seconda del proprio punto di vista), comunque un personaggio staccato dal suo ambiente.
Dall’altro lato, molti autori, e non solo ebrei, cercano di vedere Gesù esclusivamente nel suo contesto ebraico e attribuiscono quasi ogni conflitto con esso agli evangelisti o allo sviluppo della Chiesa primitiva. Tendenzialmente quindi in questa visione si vede Gesù solo come un ebreo pio, fondamentalmente leale e osservante, con forse qualche idea eccezionale(29).
Da un punto di vista storico non sembra che ci sia una soluzione facile a questo dilemma di un Gesù o totalmente separato o totalmente inglobato nel suo ambiente. Per questo anche da un punto di vista soltanto storico, è importante il dialogo costante fra queste due tendenze. Questo poi ha effetti non solo per lo studio di Gesù, ma anche per lo studio del giudaismo. Infatti, forse ancora timidamente, si sta facendo strada l’idea, espressa per esempio da Alan Segal, che né cristianesimo né giudaismo «possono essere compresi pienamente in isolamento l’uno dall’altro. La testimonianza dell’uno è necessaria per dimostrare la verità dell’altro e viceversa»(30).
L’interesse nel Gesù storico in questi ultimi anni sembra in continua crescita, sia fra cattolici e protestanti sia fra persone di altre fedi o convinzioni. Nel catalogo della Library of Congress dal 1975 in poi si riscontrano 66 titoli sotto la sola voce « Jesus Christ-Jewish Interpretations ». Quindi è impossibile tentare qui un quadro anche approssimativamente completo. Ma vorrei concludere questa rassegna con riferimento almeno a due volumi. Jacob Neusner, prendendo spunto da vari testi matteani, si propone di rispondere a Gesù, con rispetto, esprimendo il proprio dissenso(31). Per lui, il dialogo deve iniziare dal riconoscimento esplicito della alterità dell’altro. Non ha paura di mettere sul tavolo subito le differenze fra l’insegnamento di Gesù e quello dei rabbini, come egli le percepisce. A parte possibili critiche a punti particolari di questo libro divulgativo, può essere rinfrescante per il dialogo sottolineare non soltanto ciò che accomuna Gesù ad altri ebrei del suo e del nostro tempo ma anche ciò che lo differenzia da essi.
Un progetto che sarebbe stato considerato impossibile ancora pochi anni fa ha trovato espressione in un piccolo ma sostanzioso volume intitolato « Ebrei e cristiani parlano di Gesù »(32). Esso contiene i contributi di otto studiosi, ebrei e cristiani, a una serie di colloqui su questo tema, colloqui a cui secondo la prefazione hanno partecipato ogni volta circa mille persone. Quindi, almeno in alcuni ambienti, oggi è possibile parlare insieme di Gesù, senza remore o forzature, e senza falsi irenismi.Forse oggi possiamo riaffermare con convinzione che Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani. La valutazione teologica su chi egli sia rimane naturalmente un fatto che ci divide. Però possiamo insieme riconoscere in lui un maestro e la vittima di un’oppressione. C’è una lunga tradizione ebraica, attualizzata in modo speciale durante la Shoah (la persecuzione nazista), che riconosce in Gesù un ebreo perseguitato: a volte dai cristiani stessi(33). Se in qualche modo possiamo fare nostra questa nozione, non solo riportiamo Gesù nel suo contesto ebraico ma la sofferenza che in passato troppo spesso ha diviso ebrei e cristiani, forse può diventare sempre più profondamente un elemento di solidarietà e un nuovo punto di partenza(34).

*Questa è una versione aggiornata di un articolo apparso precedentemente su Nuova Umanità 64/65 (luglio-ottobre 1989) 125-136 e, in forma abbreviata, su Unità e Carismi 6 (novembre/dicembre 1996) 33-38.

NOTE SUL SITO

Publié dans:DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO |on 24 avril, 2012 |Pas de commentaires »

23 April, Saint George

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http://holy-icons.com/category/saints/page/10/

Publié dans:immagini sacre |on 23 avril, 2012 |Pas de commentaires »

TI RINGRAZIAMO…

TI RINGRAZIAMO…    

Grazie, Signore, per i fiori dei prati,
per il vento, per il mare,
per lo splendore dei campi di frumento!

Grazie, Signore, per il vero amore,
per i campi verdeggianti,
per l’aria, per il sole, per l’azzurro del cielo,
per il Tuo amore.

Grazie, Signore, perché sei con noi,
anche quando noi non siamo con te!

Grazie, Signore,
per tutti coloro che, con la loro vita semplice,
con le loro azioni generose, e con il sorriso dell’amore,
hanno ispirato in noi un desiderio di Santità.

Per tutto questo, e per tutto quello
che ancora non comprendiamo,
ma che un giorno sapremo,
Grazie, Signore!

( PIETRO LOMBARDO )

http://www.atma-o-jibon.org/italiano10/preg_ringraziamento.htm

Publié dans:LA PREGHIERA ( AUTORI VARI) |on 23 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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