Archive pour avril, 2012

RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

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RISORGEREMO, MA COME? DAL NOTO ALL’IGNOTO (1COR 15,35-53)

Marcheselli Casale C.

L’interrogativo attraversa la storia umana, da sempre appassiona, tormenta da sempre. Una domanda posta in due momenti, il che è prova di una procedura editoriale indicativa di un dilemma che inquieta il cuore dell’uomo: cosa c’è dopo la morte? Cosa ci attende? Risorgeremo, sì, ma come?[1] Il grande quesito-inchiesta circola a Corinto: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo essi ritorneranno?» (v. 35). L’attenzione è posta sul «corpo-persona: sôma» nel momento in cui, risorto, si presenta nella sua nuova vita. L’Apostolo non si appoggia al dualismo ellenistico (anima e corpo), piuttosto al monismo semitico (totalità della persona).[2]Sôma indica così la totalità della persona vista come «corpo vivente» in marcia verso il proprio compimento: se cioè Cristo è vincitore della morte, anche noi parteciperemo alla sua vittoria con la totalità del nostro «io». Prospettiva storico-teologica, come si vede, e non pragmatico-empirica. Ma seguiamo l’Apostolo nella sua meditata argomentazione, ben cinque momenti articolati in una progressione retorica, ancor sempre motivo di studio.[3]

1. La dinamica della seminagione (vv. 36b-38)
Per rendere efficace la sua catechesi, Paolo si avvale di analogie. La prima è tolta dal mondo vegetale: a) il chicco di grano seminato (v. 36b) non è ancora vivo (zôopoieitai) e non prende sviluppo se prima non muore (cf. Gv 12,24); b) quel chicco poi non è ancora il corpo che ne verrà fuori,ma un semplice granello di una qualunque possibile futura realtà (v. 37); c) è Dio a dare poi a questo seme il corpo che ha stabilito, il corpo che è suo, il suo profilo (v. 38).
Quale il senso di questa analogia? Essa ci disvela che, se per Paolo è chiaro affermare che Cristo è risorto, quindi anche noi risorgeremo, non è altrettanto chiaro il modo in cui un tale risveglio-risurrezione avvenga. Di qui l’uso dell’analogia, strumento per comunicare un dato che egli avverte nella sua dimensione soteriologico-escatologica, ma che ancora non gusta, perché appesantito dalla carne e dal sangue (v. 50). Solo «l’uomo pneumatico» se ne approprierà in pienezza. Intanto, la novità e la ricchezza di quel «fatto» e la non immediata percepibilità del suo contenuto rendono necessario il ricorso all’analogia.
L’Apostolo svolge l’analogia sul chicco di grano seminato nel modo magistrale che gli è proprio: spiega che la nostra risurrezione trova un primo momento di oggettiva verità nella morte; è attraverso di essa che si risorge a una vita più ampia e perfetta (v. 36).[4] Perché nella morte vi è già il germe della vita; nel suo stesso marcire, il seme «si vivifica» e germoglia in un’incantevole efflorescenza; meglio, «è vivificato» da Dio (15,38) e passa da un primo tipo di vita a un secondo del tutto diverso; così sarà per ogni creatura di Dio. Si tratta di cogliere non tanto il normale e naturale sviluppo del seme in albero, quanto il processo di radicale trasformazione che il seme subisce. L’immagine del seme è sorta nello spirito dell’Apostolo, sollecitata dal loghion di tradizione giovannea (Gv 12,24) e da lui riformulato in 1Cor 15,36. Più che essere una semplice immagine, quella del seme è dunque una parabola, di forte eco evangelica.
Paolo fornisce poi un secondo elemento di risposta che è anche nuova indicazione ermeneutica: è attraverso la morte che si risorge (v. 36); il Dio della storia, autore libero in ogni sua determinazione, dà a ogni seme il suo proprio corpo (v. 38). Si ascolta qui una preziosa non trascurabile allusione a Gn 1,11: i corinzi osservino il «seme che si trasforma» in un nuovo essere vivente, totalmente altro, e colgano l’assoluta garanzia di una tale possibilità nel Dio creatore. Questi è sempre all’opera e rinnova nel credente quanto ha già compiuto per la prima volta in Gesù Cristo: in lui anche «noi saremo vivificati» (v. 22b).
«Quel che tu semini non è il corpo che poi dovrà nascere, ma un nudo granello» (v. 37). L’immagine-parabola focalizza la completa disponibilità del granello a divenire quello che deve essere per normale evoluzione del suo marcimento. Dal seme non si riconosce quel che esso diventerà. Esso è nudo, virtualmente ricco di vitalità, ma quella ricchezza è nascosta. Quello che sarà poi, è un vero miracolo, un’esplosione di vita nuova.[5]
Così è per chi si addormenta nella morte: nudo come un seme, quegli è totalmente disponibile per l’operatività vitale e vivificante di Dio, è pronto a essere creato di nuovo, a ricevere una nuova vita, a essere rivivificato, trasformato, rifinalizzato nella totalità del suo «io», in una «situazione» nuova, interlocutore di Dio che ora può vedere così come egli è (1Gv 3,2b).
Che questa sia la lettura dei vv. 36b-38 è suggerito ancora dal loro già rilevato genere letterario di parabola. Questa enfatizza il pensiero di Paolo, il quale non sta spiegando un fatto adducendone uno parallelo. Il suo discorso per metafora guida ad accogliere la risurrezione dei corpi come un miracolo della potenza vivificatrice di Dio.
Annuncio solo kerygmatico? Che la risurrezione corporale debba essere capita solo come uno skandalon non meno forte di quello della croce (seguita appunto dalla risurrezione del Crocifisso), dunque accettabile solo sul piano della fede e della speranza? La cosa è ben detta, ma una pura possibile possibilità di quella risurrezione corporale è davvero riduttiva.[6] Quel kêrygma viene infatti dalla storia. E non è forse quest’ultima che permette di dire che il Cristo del kêrygma ha senso e peso solo se agganciato al Gesù della storia? Dunque, se lui è risorto, e non solo nella fede, ma nella realtà della storia della salvezza, anche noi risorgeremo. Come? Come lui!(1Ts 4,14).

2. La diversità delle realtà create (vv. 39-41)
Una seconda analogia è presentata da Paolo con ricchezza di paranomia e allitterazione, il che documenta bene la familiarità dell’Apostolo con gli strumenti della comunicazione, la lingua greca e le sue tecniche.[7] Scrive: «Non ogni carne(sárx)è la stessa carne, ma altra (állê)è quella degli uomini, altra la carne degli animali, altra la carne dei volatili, altra quella dei pesci» (v. 39).
Propone, poi, una terza analogia desumendola dal mondo degli astri: «E ci sono corpi (sômata)celesti e corpi terrestri; diverso però è lo splendore(dóxa)dei corpi celesti, diverso quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro è lo splendore della luna, altro è lo splendore delle stelle: una stella, infatti, differisce da un’altra stella per splendore» (vv. 40-41). Svariati tipi non tanto di corpi, quanto di corporeità. È il senso di sômata: i molti corpi si diversificano già in natura per il loro modo diverso di essere, cioè per la loro corporeità. Essi descrivono le infinite possibilità che Dio ha di realizzare la trasformazione finale del nostro «io»: dalla personalità psichica (materiale) a quella pneumatica, spiritualizzata.[8] Dal corpo alla corporeità,[9] da ciò che è sempre visibile (ha-olam hazzeh) a ciò che è sempre nascosto (ha-olam habba).
Paolo coglie così un’inarrestabile dinamica della storia protesa nel suo insieme e in ogni sua creatura verso il «corpo glorioso (sôma tês dóxês)» (Fil 3,21), quello trasfigurato e glorificato del Risorto al quale ogni realtà sarà conformata, in una progressiva trasformazione della personalità umana e della creaturalità globale da psichica in pneumatica. È opera dello Spirito;[10] la risurrezione per trasformazione è, infatti, già in corso. La stessa molteplicità creaturale è promessa e prefigurazione della realtà risurrezionale:[11] se Dio è capace di creare le cose in qualità svariate, è anche capace di ricrearle trasformate.[12] Meglio: egli presiede giorno per giorno il processo di trasformazione in atto nelle realtà vegetali, animali e cosmo-astrologiche. L’Apostolo ne coglie i fanalini spia, segni significanti, e punta l’occhio nel mistero dell’aldilà del tempo e della storia, inaugurato e disvelato dalla «primizia di coloro che si sono addormentati» (Fil 2,6): Gesù il Cristo.
Dunque, i corinzi siano attenti osservatori dell’ordinamento naturale e vi sappiano cogliere il lavoro di Dio creatore e trasformatore. Quel lavoro è sotto gli occhi di tutti. Ebbene: «Così sarà anche la risurrezione dei corpi» (v. 42a).

3. Trasformazione: una personalità pneumatica (vv. 42-44a)
«Così è anche la risurrezione dei corpi: si semina nella corruzione, risorge nella incorruzione; si semina nell’ignominia, risorge nella gloria; si semina nella debolezza, risorge nella forza; si semina un corpo materiale, risorge un corpo spirituale» (vv. 42-44a).
È chiara la centralità del v. 42a: «Così è anche la risurrezione dei corpi». Esso presiede il potenziale delle quattro antitesi, sforzo dell’Apostolo di dipingere il corpo trasformato, avvalendosi una volta ancora dei buoni uffici dell’analogia: tutti noi abbiamo esperienza di una cosa che si corrompe.[13] Ebbene, il corpo risorto lo sarà nell’incorruttibilità: da corpo psichico (materiale) a corpo pneumatico (spiritualizzato, glorificato). Ecco il risultato della trasformazione (metaschêmasis: Fil 3,21) che investe la totalità di quel corpo e lo trasforma in una realtà nuova, glorificata, spiritualizzata.
Si osservi la tensione escatologica in cui Paolo inserisce la sua discussione sul modo della risurrezione dei corpi: solo oltre la morte, dunque attraverso il «sacramento» della morte, ogni realtà creaturale raggiungerà il suo vero profilo, nel tempo di Dio, oltre il tempo. Infatti – e continua la serie delle antitesi analogiche – ciò che in qualità terrestre porta in sé il seme dell’ignominia, risorgerà corpo pneumatico avente in sé il seme della gloria, altro termine escatologico (v. 43); il corpo terrestre, che ha in sé il seme della debolezza, nella risurrezione, trasformato, porta in sé il seme della forza (v. 43). E ciò che porta in sé il germe dell’animalità, nella risurrezione sarà trasformato e porterà in sé il seme della spiritualità perché è certo che in ogni corpo animale è irreprimibile la tensione al suo vero profilo di corpo spirituale. Ignominia, corruzione, debolezza, animalità e materialità in genere, sono state superate nella morte, risolvendosi, al di là di essa, nelle qualità loro contrarie: la personalità psichico-somatica si trasforma in quella pneumatica, spiritualizzata.
Se, dunque, Dio può creare tanti corpi-persone materiali (vv. 38-41), come mai non potrebbe dar vita anche a corpi-persone risorte e spiritualizzate? (vv. 42-44). Tanto più che ne ha già dato la prova storica: Gesù Cristo risorto e trasfigurato, glorioso. La prova non è apologetica, bensì analogica.

4. Il primo Adamo e l’ultimo Adamo (vv. 45-49.53)
L’esposizione incalza, epidittica e parenetica a un tempo. Se il primo Adamo divenne persona vivente (Gn 2,7), l’ultimo Adamo è persona vivificante (v. 45b): egli porta in sé i semi dell’incorruzione (v. 42), della gloria, della forza (v. 43), dell’immaterialità (v. 44) e, come tale, «è divenuto spirito vivificante» (v. 45), datore di vita, perché ha in sé il germe esplosivo della vita nuova: lo Spirito del Padre, Dio della vita.
Con antitesi ritmiche, Paolo conduce il suo pensiero ai vv. 45-49. Esse sono riducibili a una fondamentale: il primo Adamo e l’ultimo Adamo, ad ambedue i quali ogni uomo è legato; essi sono personalità corporative, rispettivamente sul piano terrestre e celeste. Ma è sul secondo Adamo che l’Apostolo punta il suo focus: ogni uomo gli è legato ed è destinato a livelli più alti. Egli infatti è spirito vivificante, capace di operare la trasformazione di ciò che è terrestre in una realtà nuova, che è quella sua propria: glorificata, trasformata, spiritualizzata. Uno spirito vivificante è, infatti, di qualità nuova e superiore a un essere vivente. Quest’ultimo è infatti vivo per aver ricevuto la vita (Gn 2,7b); il primo invece porta in sé il germe della vita.Il primo Adamo è «essere vivente» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, lo saranno come lui; il secondo Adamo è «spirito vivificante» e quanti gli appartengono, a lui incorporati, saranno vivificati in tutta la loro umanità, risorgendo dai morti per la potenza dello Spirito di Dio (cf. Rm 1,11). Come il primo Adamo ha vissuto una vita terrena, attivando in essa il suo seme, il secondo Adamo vive una vita celeste, partecipandola ai suoi, una vita animata dallo Spirito, opera dello Spirito: «Riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito» (2Cor 3,18b); quel nuovo Adamo è persona in situazione nuova: pneumatica, spiritualizzata, secondo il profilo del Risorto-trasfigurato: non più corpo materiale, ma corporeità spiritualizzata. Paolo non è interessato a fornire una risposta diretta alla domanda dei corinzi (v. 34), piuttosto è impegnato a creare una mentalità di risurrezione per trasformazione-glorifificazione-spiritualizzazione: da realtà (eikôna) terrestri a realtà celesti (v. 49). Allo scopo, ci si rivesta di lui (v. 53).

5. Spirito vivificante (vv. 45-49)
Ma chi è costui? Di certo lo Spirito di Dio che ha reso vivente Gesù Cristo morto, immettendolo nella sua nuova definitiva situazione: nuovo Adamo, risorto e glorificato. Così è dei suoi: ogni creatura dovrà aver parte, con il Risorto, della sua vera nuova situazione. Ma ancor prima, nella fase terrena, ogni «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26) viva uno stile di vita ispirato al Risorto, da creatura nuova; ancora nel tempo, essa è già oltre il tempo (eschaton), testimone di una vita che dona lo Spirito. Siamo al cuore della pneumatologia paolina.[14]
Quando Paolo pensa alla trasformazione, gli interessa la totalità biologica e spirituale della creatura. La risurrezione della creatura umana avviene così per trasformazione di tutta la sua realtà, del suo «io». Tutto l’uomo cioè (antropologia monista) viene trasformato (v. 51b: «Saremo trasformati, allaghêsómetha»). E tale trasformazione della totalità creaturale è imprescindibile, se si vuole essere ammessi al possesso integrale del regno di Dio (v. 50). Un corpo solo «psichico», cioè corpo e sangue, non potrà mai entrare nel regno di Dio, essendo corruttibilità. E il corruttibile non potrà mai abitare nel mondo dell’incorruttibilità.
In quel mondo incorruttibile è già entrato lui, la vivente primizia di coloro che si sono addormentati (Fil 2,6). Come può essere dunque ancora possibile che i corinzi pongano quella domanda? (v. 35). «Stolto! Ciò che tu semini, non prende vita se prima non muore» (v. 36).
Nell’uomo pneumatico, spiritualizzato nella sua totalità, la nudità del granello ha ora il suo pieno rivestimento: l’uomo nuovo, anch’egli nuovo Adamo, è ora rivestito della sua personalità celeste (2Cor 5,2b). Guai però a essere trovati ignudi (v. 3), sarebbe ascrivibile solo alla propria negligenza.
Tutti, in verità, viventi e non al momento della parusia, saremo trasformati (vv. 51-52), risorgendo nell’incorruzione. Da rivestiti di corruzione, i rivivificati rivestiranno l’incorruttibilità; da mortali, l’immortalità. Più di questo, Paolo non riesce a dire. Ma ha già detto davvero tanto, e ha dato solido fondamento a un ben motivato ottimismo antropologico.[15] Aiutati dalla loro cultura ellenistica, i corinzi continuino a sondare tanto nuovo annuncio; nella fede storica del Gesù di Nazareth, morto e risorto e trasfigurato, meditino la loro morte e risurrezione per trasfigurazione-trasformazione: creature nuove, dalla personalità spiritualizzata. In questa speranza, ognuno gestisca il proprio cammino nella fede, «saldo e irremovibile» (v. 58), consapevole di muoversi su un fondamento solido: «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (v. 55). In lui (v. 57), la morte è stata ingoiata dalla vita (cf. v. 54b). Ebbene, come per lui, anche per noi.
——————————————
[1] Esamino la questione nella religiosità giudaico-ellenistica, dal II sec. a.C. al II sec. d.C., nel mio volume Risorgeremo, ma come?, EDB, Bologna 1988. Che Paolo in 1Cor 15 risenta della testimonianza religiosa documentata in questa fascia letteraria, lo prova H.C.C. Cavallin, Life after Death. Paul’s Argument for the Resurrection of the Dead in 1Cor 15. Part I: Enquiry into the Jewish Background, Brill, Leiden 1974. Gli ho riservato l’attenzione dovuta nella mia monografia appena menzionata.
[2] Che se «corpo-carne» da un lato e «vita-anima» dall’altro (v. 35) dovessero rispondere alla concezione dualistica, ebbene di essa Paolo non fa più parola in tutto il c. 15. Preziosa indicazione ermeneutica.
[3] Di recente se ne occupa K.J. O’Mahony, «The Rhetoric of Resurrection (1Cor 15): an Illustration of a Rhetorical Method», in Milltown Studies 43 (1999) 112-144.
[4] Non si tratta di una progressione da vita a vita, quasi un evoluzionismo, ma di una discontinuità in radice: da morte a vita. Cf. G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1996, p. 840.
[5] Segnalo J. Kremer, «La risurrezione di Gesù, causa e modello della nostra risurrezione», in Concilium 6 (1970) 102-116. Di recente lo stesso J. Kremer riprende l’argomento in Geist und Leben 71/6 (1998) 406-410.
[6] Si legga W. Marxen, La risurrezione di Gesù di Nazareth, EDB, Bologna 1970, p. 141. Ma quella pura possibilità è una restrizione indebita del pensiero dell’Apostolo la cui argomentazione per induzione dal noto all’ignoto prova sufficientemente che ci si trova ben al di là della pura possibilità. Così G. Barbaglio, La Prima Lettera ai Corinzi, cit., pp. 838-856 nella sua dettagliata analisi di 1Cor 15,35-58. Già S. Cipriani, «La risurrezione di Cristo e la nostra nella prospettiva di 1Cor 15», in Asprenas 2 (1976) 112-135.
[7]Paranomia e allitterazione documentano bene l’andamento retorico dell’argomentazione.
[8] Con «trasformazione spiritualizzata» intendo dare atto a tutto il periodo ellenistico intertestamentario da me esaminato nella monografia citata in nota 1: Risorgeremo, ma come? Le si oppone una risurrezione materializzata, tendente a ridare al corpo risorto i connotati che già gli furono propri. Questa linea perde in attendibilità critica ed è del tutto scalzata dal Nuovo Testamento che indica nel Gesù trasfigurato sull’alto monte (Tabor) il suo vero profilo di risorto. Cf. Mc 9,2-9 parr.
[9] Dal corpo psichico-materiale, a quello pneumatico-spiritualizzato. Corporeità esprime bene la nuova situazione del risorto. Così già R. Fabris, Le Lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, vol. I, pp. 533-541.
[10] Espone ampiamente la questione S. Reyero, «”estin kai (sôma) pneumatikon” (1Cor 15,44b)», in StMad 15 (1975) 151-187.
[11] Si veda E. Pfammatter, «Risurrezione del Cristo, risurrezione dei cristiani e compimento della storia della salvezza nella concezione paolina», in E. Rückstühl – J. Pfammatter (edd.), La risurrezione di Gesù Cristo, AVE, Roma 1971, pp. 135-149, qui p. 143.
[12] Così già Giovanni Crisostomo, Tommaso d’Aquino. Per l’interesse dei Padri alla questione, segnalo la monografia di F. Altermath, Du corps psychique au corps spirituel. Interprétation de 1Cor 15,35-49 par les auteurs chrétiens des quatre premiers siècles (jusqu’au Concile de Calcedonie), Mohr-Siebeck, Tübingen 1977.
[13] Ne ha ben descritta la dinamica G.M. Hensell, Antithesis and Transformation. A Study of 1Cor 15,50-54, S. Louis University 1975.
[14] Originale inversione della formula «Spirito vivificante» (v. 45). Se ne occupa R.B. Gaffin, «Life giving Spirit: Probing the Center of Paul’s Pneumatology (1Cor 15,45)», in Journal of the Evangelical Theological Society 41/4 (1998) 573-589.
[15] Ma a riguardo, si legga R. Penna, «Cristologia adamica e ottimismo antropologico in 1Cor 15,45-49», in AA.VV., L’uomo nella bibbia e nelle culture ad essa contemporanee. Atti del Simposio per il XXV Simposio ABI, Paideia, Brescia 1975, pp. 181-208.

Publié dans:Lettera ai Corinti - prima |on 2 avril, 2012 |Pas de commentaires »

« IN CRISTO SI ATTUA LA SIGNORÌA DI DIO » – Omelia del card. Scola in occasione della Domenica delle Palme

http://www.zenit.org/article-30156?l=italian

« IN CRISTO SI ATTUA LA SIGNORÌA DI DIO »

Omelia del card. Scola in occasione della Domenica delle Palme

letture Domenica delle Palme liturgia Ambrosiana:

http://www.chiesadimilano.it/cms/almanacco/letture-rito-ambrosiano/anno-b-2011-2012/is-52-13-53-12-sal-87-eb-12-1b-3-gv-11-55-12-11-1.56152

MILANO, domenica, 1 aprile 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia tenuta dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nel Duomo del capoluogo lombardo, in occasione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore.
***
1. «Sei benedetto Signore! Tu che salisti al monte, tu che spirasti in croce, tu che gustasti la morte, tu che glorioso regni» (Alla Comunione). Così ci farà pregare il Canto alla Comunione delineando, con un potente “crescendo”, l’ultimo tratto del cammino umano del nostro Redentore, dalla Passione alla Gloria. «Gustasti la morte», cioè ne bevesti il calice fino all’ultima goccia, assaporandola fino in fondo.
Sorelle e fratelli carissimi, questo è il nostro Dio: Uno che non si sottrasse in nulla all’orrore della sofferenza e della morte. Uno che sovrabbondò nell’amore per aprirci l’accesso alla sovrabbondanza della vita. Con la processione, le palme, gli ulivi, i canti ed i salmi abbiamo voluto immedesimarci con il popolo che accolse l’ingresso di Gesù a Gerusalemme con gli Osanna.
La Domenica delle Palme è il portico della Settimana Autentica: i fatti della vita di Gesù che la Chiesa nostra Madre, a partire da oggi, ci farà vivere rappresentano la verità presente nell’Eucaristia illuminata dalla Parola di Dio. Danno senso pieno all’esistenza di ciascuno di noi e di tutti gli uomini di ogni tempo, di tutta la storia. Viviamo quindi con fede questa Settimana eminente come figura del percorso della nostra vita.
2. «Osanna al re d’Israele!» (Vangelo, Gv 12,13) grida la folla uscendo incontro a Gesù. Con la sua acclamazione esprime la speranza che l’attesa messianica del popolo d’Israele finalmente si realizzi. «Non temere figlia di Sion, il tuo re viene…» (Vangelo, Gv 12,15). Ma inevitabilmente il popolo riveste questa attesa con le sue immagini. Le stesse che suscitano sentimenti opposti nei capi del popolo e nei sacerdoti che giungono fino a tramare di ucciderLo.
Anche il contesto in cui Giovanni colloca la narrazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è ad un tempo carico di segnali di morte (oltre alla decisione del sinedrio, per cui Egli sarà costretto a nascondersi, l’unzione di Betania interpretata da Gesù stesso come annuncio della sua sepoltura…), ma anche da promesse e presagi di vita (le folle che Lo seguono, la fede di molti Giudei, l’episodio dei Greci che vogliono vedere Gesù…).
L’evento dell’entrata a Gerusalemme è quindi un evento dalle varie valenze, vissuto in maniera profondamente diversa dalla folla, dai capi e dal Signore Gesù. Come lo stiamo vivendo noi, qui ed ora?
Come sciogliamo questa ambivalenza?
Noi sappiamo che Gesù ci rivela chi è il nostro Dio: un Padre che ama la libertà dei figli a tal punto da non sopraffarla mai, senza mai cessare di pro-vocarla con la forza della verità. Essa ci scuote dalla “gaia rassegnazione” in cui spesso, quasi senza accorgercene, scivoliamo, incapaci – o semplicemente – stanchi di cercare il senso pieno della nostra esistenza.
3. «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Prima Lettura, Zc 9,9) annuncia il profeta. E Giovanni ne dà piena conferma.
Benedetto XVI nel primo volume del suo Gesù di Nazaret ci spiega che la parola greca per dire mansueto, umile (praýs) – la stessa impiegata anche nelle Beatitudini – è una parola usata tanto per descrivere chi è Gesù come per dire l’identità della Chiesa. Una parola che dice la natura della nuova “regalità” inaugurata da Gesù. La Sua mansuetudine è la sua obbedienza al disegno del Padre. Questa deve essere anche la nostra, di noi che portiamo il Suo nome: cristiani. La Chiesa nasce dal costato di Cristo e deve ogni giorno rinascere dal cuore di ogni fedele.
4. «I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte» (Vangelo, Gv 12,16). I discepoli sciolgono l’ambivalenza di cui, come il popolo erano vittime, solo di fronte alla Sua glorificazione. Con questo termine il Vangelo di Giovanni sintetizza l’evento della Pasqua di morte e resurrezione. È il termine che indica la manifestazione, il peso di Gesù nel mondo.
Così afferma San Paolo: al nostro Dio «è piaciuto che abiti in Cristo tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (cf. Epistola, Col 1,20).
La profezia di Zaccaria – «Egli annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra» (Prima Lettura, Zc 9,10) -si compie quindi non tanto nell’accoglienza di Gesù all’entrata a Gerusalemme, ma sul Calvario.
Gesù «con la sua obbedienza ci chiama dentro questa pace, la pianta dentro di noi» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 1,106). Infatti nell’azione eucaristica il Re della pace ci educa a riconoscere che non c’è possibilità di bene per sé e di edificazione di vita buona a tutti i livelli dell’umana convivenza che non passi dal dono di sé. Se questo è vero, come è vero, a nessuno sfugga la grande attualità della Pasqua di nostro Signore.
5. «Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti,perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose» (Epistola, Col 1, 18). In Cristo si attua la signorìa di Dio sul mondo creato e redento, di cui Egli ci vuole partecipi. Ma di quale signorìa, di quale regalità si tratta? Ce lo indica il CCC 1884. Il Signore «non ha voluto riservare solo a sé l’esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di esercitare, secondo le capacità proprie della sua natura. Questo modo di governare deve essere imitato nella vita sociale. Il comportamento di Dio nel governo del mondo, che testimonia un profondissimo rispetto per la libertà umana, dovrebbe ispirare la saggezza di coloro che governano le comunità umane. Costoro devono comportarsi come ministri della provvidenza divina» (CCC 1884).
6. Apprestiamoci a vivere, qui nella nostra cattedrale e nelle nostre comunità, la potente liturgia della Settimana autentica. Lasciamoci com-muovere dall’invito di Andrea di Creta: «Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro, non però per stendere davanti a Lui, lungo il suo cammino, rami di olivo o di palme, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione, dinnanzi ai suoi piedi, le nostre persone».
«… stendere le nostre persone…». Che significa in concreto? Prostrarci nell’umile riconoscimento dei nostri peccati nel sacramento della Confessione, donare qualcosa di noi stessi e dei nostri beni a chi è nel bisogno materiale e spirituale, fare, mediante la partecipazione alla liturgia, intenso spazio al Crocifisso glorioso nelle nostre giornate, conformarci non a questo mondo ma al pensiero di Cristo. In una parola, con l’intercessione della Vergine Santissima, di San Giuseppe, di Sant’Ambrogio e di San Carlo invocare quel profondo cambiamento che abbiamo inseguito lungo tutta la Quaresima: la nostra conversione. Nella morte e Risurrezione di Gesù, la nostra morte e la nostra risurrezione. Amen.

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