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Ora il principe di questo mondo è gettato fuori, Padre Cantalamessa

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Ora il principe di questo mondo è gettato fuori, Padre Cantalamessa

2001-04-13- Venerdì Santo – Basilica di S. Pietro

(non riesco a ricostruire quale anno liturgico fosse il 2001, ABC, scusate)

L’Evangelista san Luca termina il racconto delle tentazioni di Gesù dicendo che “il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4, 13). Quale fosse questo “tempo fissato”, ce lo fa capire Cristo stesso quando dice, nell’imminenza della sua passione: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12, 31).
Questa è l’interpretazione unanime che hanno dato della morte di Cristo gli autori del Nuovo Testamento. Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, “ha ridotto all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2, 14-15).
La Passione di Cristo non si riduce, certo, alla vittoria su Satana. Il suo significato è ben più vasto e positivo; egli “doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (cf. Gv 11, 52). Tuttavia si banalizza la passione di Cristo se le si toglie questo aspetto di vittoria sul demonio, oltre che sul peccato e sulla morte.
Questa lotta continua dopo Cristo, nel suo corpo. L’Apocalisse dice che, sconfitto da Cristo, “il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12, 17). Per questo l’apostolo Pietro raccomanda ai cristiani: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).
?Tutto questo ha dato all’esistenza cristiana di tutti i tempi un carattere drammatico, di lotta, e di lotta “non solo contro creature fatte di carne e di sangue” (cf. Ef 6,12). Il rito del battesimo riflette tutto ciò con quella drastica “scelta di campo” che lo precede: “Rinunci a Satana? -Credi in Cristo?”.
?Nulla, allora, è cambiato con la morte di Cristo? Tutto è come prima? Al contrario! La potenza di Satana non è più libera di agire per i suoi fini. Egli crede di agire per uno scopo e ottiene esattamente il suo contrario; serve involontariamente la causa di Gesù e dei suoi santi. Egli è “quella potenza che sempre vuole il male e opera il bene” . ?Dio fa servire l’azione del demonio alla purificazione e all’umiltà dei suoi eletti. “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi” (2 Cor 12, 7). Un canto spiritual negro lo dice in tono leggero ma teologicamente perfetto: “Il vecchio Satana è matto, è cattivo. Ha sparato un colpo per uccidere la mia anima. Ma ha sbagliato mira e ha colpito il mio peccato”.
Ma ora tutto questo è finito. Il silenzio è calato su Satana; la lotta è diventata solo contro “la carne e il sangue”, cioè contro mali alla portata dell’uomo. L’inventore della demitizzazione ha scritto: “Non si può usare la luce elettrica e la radio, non si può ricorrere in caso di malattia a mezzi medici e clinici e al tempo stesso credere al mondo degli spiriti” . Nessuno è stato mai così contento di essere demitizzato come il demonio, se è vero – come è stato detto – che “la sua più grande astuzia è far credere che egli non esiste” .
?L’uomo moderno manifesta una vera e propria allergia a sentir parlare di questo argomento. Si è finito per accettare una spiegazione tranquillizzante. Il demonio? È la somma del male morale umano, è una personificazione simbolica, un mito, uno spauracchio, è l’inconscio collettivo o l’alienazione collettiva.
?Quando Paolo VI osò ricordare ai cristiani la “verità cattolica” che il demonio esiste (“Il male –disse in un’occasione- non è soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa” ), una parte della cultura reagì stracciandosi le vesti scandalizzata.
?Lo stesso si è ripetuto di recente, quando un vescovo ha richiamato l’attenzione su questo punto della fede cristiana. “Abbiamo dimenticato che in passato ci si è serviti del demonio per perseguitare streghe, eretici e altra gente simile?”. No, non lo abbiamo dimenticato; ma, per questi e altri scopi simili, ci si è serviti –e purtroppo ci si serve – di Dio ancor più che del demonio. Aboliamo anche Dio?
?Perfino molti credenti e alcuni teologi si lasciano intimidire: “Sì, ma potrebbe, effettivamente, bastare l’ipotesi simbolica, la spiegazione mitica o quella psicanalitica …”. Qualcuno pensa che la Chiesa stessa stia rinunciando a questa credenza, dal momento che ne parla sempre meno.
?Ma qual è il risultato di questo silenzio? Un cosa stranissima. Satana, scacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra; scacciato dalla fede è rientrato dalla superstizione. Il mondo moderno, tecnologico e industrializzato, pullula di maghi, di spiritisti, di dicitori di oroscopi, di venditori di fatture e di amuleti e di sètte sataniche vere e proprie.
?La nostra situazione non è molto diversa da quella dei secoli XIV-XVI, tristemente famosi per l’importanza accordata in essi ai fenomeni diabolici. Non ci sono più roghi di indemoniati, caccia alle streghe e cose simili; ma le pratiche che hanno al centro il demonio, come pure le vittime fisiche o morali di tali pratiche, non sono meno numerose di allora, e non solo tra i ceti poveri e popolari. È divenuto un fenomeno sociale -e commerciale!- di ingenti proporzioni.
?Un settimanale americano a diffusione mondiale ha dedicato qualche tempo fa tutto un servizio alla credenza del demonio ai giorni nostri. Mi colpì la conclusione tirata da uno degli intellettuali intervistati. L’oblio del demonio, diceva, non ha reso più serena e razionale la vita degli uomini sul pianeta, ma al contrario ci ha reso più ottusi e assuefatti di fronte agli orrori del male. Niente ci fa più rabbrividire.
Quelli che negano l’esistenza del demonio, una scusa, a dir vero, ce l’hanno. Quello che conoscono al riguardo -casi di possessione diabolica, storie e film di esorcismi- ha quasi sempre una spiegazione patologica, facilmente riconoscibile. Se c’è un appunto che si può loro muovere è di fermarsi qui, di ignorare tutto un altro livello in cui la spiegazione patologica non basta più.
?Si ripete l’equivoco in cui è caduto Freud e tanti dopo di lui: a forza di occuparsi di casi di nevrosi religiosa (perché per questo si ricorreva a lui) egli finì per credere che la religione in sé non è che una nevrosi. Come se uno volesse stabilire il livello di sanità mentale di una città, dopo aver visitato il locale manicomio!
?La prova più forte dell’esistenza di Satana non si ha nei peccatori o negli ossessi, ma nei santi. È vero che il demonio è presente e operante in certe forme estreme e “disumane” di male, sia individuale che collettivo, ma qui egli è di casa e può celarsi dietro mille sosia e controfigure. Avviene come con certi insetti, la cui tattica consiste nel mimetizzarsi, posandosi su un fondo del loro stesso colore.
?Al contrario, nella vita dei santi egli è costretto a venire allo scoperto, a mettersi “contro luce”; la sua azione si staglia nero su bianco. Nel vangelo stesso la prova più convincente dell’esistenza dei demoni non si ha nelle storie di liberazione di ossessi (a volte è difficile distinguere in esse la parte che svolgono le credenze del tempo sull’origine di certe malattie), ma si ha nell’episodio delle tentazioni di Gesù.
?Chi più chi meno, tutti i santi e i grandi credenti (alcuni dei quali, come san Giovanni della Croce, intellettuali di prim’ordine), testimoniano della loro lotta con questa oscura realtà. San Francesco d’Assisi un giorno confidò a un suo intimo compagno: “Se sapessero i frati quante e che gravi tribolazioni e afflizioni mi danno i demoni, non ci sarebbe alcuno di loro che non si muoverebbe a compassione e pietà di me” .
?Il Francesco che compone il sereno Cantico delle creature è lo stesso che lotta con i demoni; Caterina da Siena che incide nella storia anche politica del suo tempo, è la stessa che il confessore dichiara “martirizzata” dai demoni ; il Padre Pio che progetta la Casa sollievo della sofferenza è lo stesso che di notte sostiene lotte furibonde con i demoni. Non si può vivisezionare la loro personalità e prenderne solo una parte. Non lo permette l’onestà e neppure una sana psicologia. Questa gente non ha lottato contro i mulini a vento! Quello che san Giovanni della Croce dice, descrivendo la notte oscura dello spirito, non è campato in aria.
?Si ripete la vicenda di Giobbe (cf. Gb 1, 6 ss). Dio “consegna” nelle mani di Satana i suoi amici più cari per dare ad essi l’occasione di dimostrare che non lo servono solo per i suoi benefici e per potersi “vantare” di loro di fronte al suo nemico. Gli dà potere non solo sul loro corpo, ma a volte, misteriosamente, anche sulla loro anima, o almeno su una parte di essa. Nel 1983 fu beatificata una carmelitana, Maria di Gesù Crocifisso, detta la Piccola Araba perché di origine palestinese. Nella sua vita, quando era già molto avanti nella santità, vi furono due periodi di vera e propria possessione diabolica, documentata negli atti del processo . E il caso è tutt’altro che isolato…
Perché allora, anche tra i credenti, alcuni sembrano non accorgersi di questa tremenda battaglia sotterranea in atto nella Chiesa? Perché così pochi mostrano di sentire i sinistri ruggiti del “leone” che gira cercando chi divorare? È semplice! Essi cercano il demonio nei libri, mentre al demonio non interessano i libri, ma le anime e non si incontra frequentando gli istituti universitari, le biblioteche, ma le anime.
?Un altro equivoco regna a volte tra i credenti. Ci si lascia impressionare da quello che pensano, dell’esistenza del demonio, gli uomini di cultura “laici”, come se vi fosse una base comune di dialogo con loro. Non si tiene conto che una cultura che si dichiara atea non può credere nell’esistenza del demonio; è bene, anzi, che non vi creda. Sarebbe tragico se si credesse nell’esistenza del demonio, quando non si crede nell’esistenza di Dio. Allora sì che sarebbe da disperarsi.
?Che cosa può sapere di Satana chi ha avuto a che fare sempre e solo, non con la sua realtà, ma con l’idea, le rappresentazioni e le tradizioni etnologiche su di lui? Quelli che passano in rassegna i fenomeni che la cronaca presenta come diabolici (possessione, patti con il diavolo, caccia alle streghe…), per poi concludere trionfalmente che è tutta superstizione e che il demonio non esiste, somigliano a quell’astronauta sovietico che concludeva che Dio non esiste, perché lui aveva girato in lungo e in largo per i cieli e non lo aveva incontrato da nessuna parte. In tutti e due i casi, si è cercato dalla parte sbagliata.
Detto questo, possiamo e dobbiamo anche ridimensionare il demonio. Nessuno è pronto a farlo più del credente. Satana non ha, nel cristianesimo, un’importanza pari e contraria a quella di Cristo. Dio e il demonio non sono due principi paralleli, eterni e indipendenti tra di loro, come in certe religioni dualistiche. Per la Bibbia, il demonio non è che una creatura di Dio “andata a male”; tutto ciò che esso è di positivo viene da Dio, solo che egli lo corrompe e lo svia, usandolo contro di lui. Abbiamo, con ciò, spiegato tutto? No. L’esistenza del Maligno rimane un mistero, come è quella del male in genere, ma non è l’unico mistero della vita…
?Non è neppure giusto dire che noi crediamo “nel” demonio. Noi crediamo “in” Dio e “in” Gesù Cristo, ma non crediamo “nel” demonio, se credere significa fidarsi di qualcuno e affidarsi a qualcuno. Crediamo “il” demonio, non nel demonio; egli è un oggetto e, per giunta, negativo della nostra fede, non il movente o il termine di essa. ?Non c’è da avere eccessiva paura di lui. Dopo la venuta di Cristo, dice un antico autore, “il demonio è legato, come un cane alla catena; non può mordere nessuno, se non chi, sfidando il pericolo, gli va vicino…Può latrare, può sollecitare, ma non può mordere, se non chi lo vuole. Non è infatti costringendo, ma persuadendo, che nuoce; non estorce da noi il consenso, ma lo sollecita” . ?La credenza del demonio non sminuisce la libertà umana. Bisogna solo stare attenti a non addossare su di lui la responsabilità di ogni nostro sbaglio o di ogni malanno che ci capita addosso. Vedere il demonio dappertutto non è meno fuorviante che non vederlo da nessuna parte. “Quando viene accusato, il diavolo ne gode. Addirittura, vuole che tu lo accusi, accoglie volentieri ogni tua recriminazione, se questo serve a non farti fare la tua confessione!” .
Concludiamo tornando alla nostra liturgia. Un Padre della Chiesa descrive così ciò che avvenne sul Calvario il Venerdì Santo. Immagina, dice, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno della città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, semplice spettatore; non hai combattuto, non hai faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore . ?Ricordiamoci di queste parole, quando, fra poco, sarà elevato in mezzo a noi il Crocifisso e noi ci accosteremo per baciargli i piedi.

La liturgia di Gerusalemme secondo Egeria (IV sec.) – Settimana Santa e Solennità pasquali

http://www.christusrex.org/www1/jhs/TSeger04_It.html#Target21a

La liturgia di Gerusalemme secondo Egeria (IV sec.)


Settimana Santa e Solennità pasquali

Sabato delle Palme – Stazione a Betania
Quando viene la settima settimana, cioè quando restano due, compresa la settima, a Pasqua si fa lo stesso come nei singoli giorni delle altre settimane precedenti; soltanto  che le veglie, fatte in quelle sei settimane all’Anastasis, nella settima settimana, cioè nel venerdì, vengono fatte sul Sion, nel modo che sono
state fatte nelle sei settimane all’Anastasis. Nelle singole ore si dicono salmi e antifone sempre appropriate  al luogo e al giorno
Ma quando incomincia il sabato mattina a farsi chiaro, il vescovo fa l’Offerta in quel sabato mattina. Arrivati al momento del congedo, l’arcidiacono dice a voce alta: « Oggi all’ora settima cerchiamo tutti di essere presenti al Lazzario ». E così dunque, quando inizia l’ora settima, tutti vanno al Lazzario. Il Lazzario, cioè Betania, è distante quasi due miglia dalla città(di Gerusalemme).
Quelli che da Gerusalemme vanno al Lazzario, giunti a circa cinquecento passi da quel luogo, trovano sulla strada una chiesa in quel posto dove Maria, sorella di Lazzaro, andò incontro al Signore. Là quando arriva il vescovo, vanno ad incontrarlo tutti i monaci, e il popolo entra (in chiesa); si dice un inno un’antifona, e si legge quel brano del Vangelo dove la sorella di Lazzaro incontrò il Signore
Appena si arriva al Lazzario, tutta la moltitudine (dei fedeli) si raduna in modo che non solo quel luogo, ma anche tutti i campi all’intorno sono pieni di gente. Si dicono ancora inni ed antifone appropriate al giorno e al luogo; similmente anche le letture che si fanno, sono appropriate al giorno. Quando si da il congedo si annunzia la Pasqua, cioè un sacerdote sale in un posto più alto e legge quel brano che si trova scritto nel Vangelo: « Essendo venuto Gesù in Betania sei giorni prima della Pasqua », eccetera. Letto dunque  quel brano e annunziata la Pasqua, si da il congedo.
In quel giorno si fa tale funzione, per il motivo che nel Vangelo è scritto che questo fatto avvenne in Betania sei giorni prima della Pasqua; infatti dal sabato fino al giovedi, in cui il Signore fu preso(dai Giudei) di notte dopo la cena, sono sei giorni, Tutti ritornano in città direttamente  all’Anastasis, e si fa secondo il solito(l’ufficiatura) del lucernare

Domenica delle Palme: Uffici in varie chiese
Nel seguente giorno ossia la domenica, con cui si entra nella settimana di Pasqua, che qui chiamiamo la settimana maggiore, si celebrano al canto del gallo le solite funzioni all’Anastasis e alla Croce fino al mattino. La domenica mattina dunque(la funzione) ha luogo nella chiesa maggiore, chiamata Martirio. Si chiama Martirio, per il fatto che si trova presso il Golgota, cioè dopo la Croce, dove il Signore patì, e per questo(si chiama) Martirio.
Secondo l’uso tutte le funzioni si svolgono nella chiesa maggiore; prima che avvenga il congedo, l’arcidiacono dice ad alta voce da principio: « Durante questa settimana, cioè da domani, all’ora nona, raduniamoci tutti nel Martirio, ossia nella chiesa maggiore ». Poi di nuovo dice a voce alta: « Oggi, all’ora settima cerchiamo di essere tutti pronti all’Eleona ».
Dato il congedo nella chiesa maggiore, cioè al Martirio, si accompagna il vescovo all’Anastasis dicendo inni, e fatte là le cerimonie che secondo la consuetudine sogliono  farsi in giorno di domenica all’Anastasis dopo il congedo dal Martirio, ognuno si affretta ad andare alla propria casa per mangiare; e all’inizio dell’ora settima tutti si trovano pronti nella chiesa che è l’Eleona, ossia sul monte Oliveto, dove vi sta quella grotta, in cui insegnava il Signore.

Processione delle Palme dal Monte degli Ulivi
All’ora settima tutto il popolo sta pronto nella chiesa, cioè all’Eleona; il vescovo si siede; si dicono inni ed antifone appropriate al giorno e al luogo, parimenti anche le letture. Quando inizia l’ora nona, si va dicendo inni verso l’Imbomon, ossia a quel luogo da cui il Signore salì al cielo; là ci si siede perché, quando è presente il vescovo, tutto il popolo è invitato a sedersi, mentre soltanto i diaconi stanno sempre in piedi. Là vengono detti inni e antifone appropriate al giorno e al luogo; lo stesso si fa per le letture intercalate e per le preghiere.
All’inizio dell’ora undecima si legge quel brano del Vangelo, dove i ragazzi con rami(d’olivo) o di palma andarono incontro al Signore dicendo: « Benedetto Colui che viene nel nome del Signore ». Il vescovo immediatamente si alza e il popolo con lui e tutti si muovono a piedi dalla cima del Monte degli Ulivi, e il popolo cammina davanti a lui con inni e antifone, rispondendosi gli uni agli altri: « Benedetto Colui che viene nel nome del Signore ».
AE tutti i bambini di quei paesi, anche quelli che non possono camminare a piedi, perchè sono di tenera età e i genitori li tengono sul collo, tutti tengono rami: alcuni di palma, altri d’olivo; e così si accompagna il Signore in quella circostanza.
Tutti camminano a piedi, dalla sommità del monte fino alla città, e poi, attraversando tutta la città, fino all’Anastasis, anche se vi sono delle matrone o dei gran signori, accompagnano  il vescovo rispondendo(ai salmi e agl’inni). E così(camminando)pian piano per non far stancare la gente, si arriva all’Anastasis, che è già sera. Giunti là, sebbene sia tardi, pure si fa il lucernare e si dice nuovamente la preghiera davanti alla Croce, e si licenzia il popolo.

Lunedi Santo
Parimenti nel giorno successivo, cioè nel Lunedì, si fanno quelle funzioni che sono d’uso farsi all’Anastasis al primo canto del gallo fino alla mattina. A terza e a sesta si fanno le stesse funzioni come durante la Quaresima. Però a nona tutti si radunano nella chiesa maggiore, cioè al Martirio, e là fino all’ora prima di notte sempre si dicono inni e antifone; si leggono letture appropriate al giorno e al luogo; e s’interpongono sempre le preghiere.
Là pure si fa il lucernare, quando incomincia la sua ora; e così avviene che anche  quando è notte, si dà il congedo al Martirio. Appena è stato dato il congedo, si conduce il vescovo da lì all’Anastasis dicendo inni. Entrando nell’Anastasis, si dice un solo inno; si fa la preghiera, vengono benedetti  i catecumeni,  poi i fedeli, e si dà il congedo.

Martedì Santo
Poi nel martedì tutte le funzioni si fanno allo stesso modo del lunedi. Nel martedi si aggiunge soltanto una cosa: che a notte inoltrata, dopo che è stato dato il congedo al Martirio e si è andato all’Anastasis, e poi di nuovo mell’Anastasis è stati dato il congedo, tutti, in quell’ora di notte, vanno alla chiesa che sta sul monte dell’Eleona.
Giunti a quella chiesa, il vescovo entra in quella grotta nella quale il Signore soleva istruire i suoi discepoli, prende il libro del Vangelo, ed egli, lo stesso vescovo, stando in piedi, legge  le parole del Signore che sono scritte nel Vangelo di San Matteo, là dove dice: « State attenti che nessuno v’inganni », e il vescovo legge per intero tutto quel discorso. Finito di leggerlo tutto, si fa una preghiera, vengono benedetti i catecumeni, poi anche i fedeli, si dà il congedo, e tutti ritornano alla propria casa quando la notte è già molto inoltrata.

Mercoledì Santo
Poi nel mercoledì dal primo canto del gallo per tutta la giornata si fanno le funzioni come il lunedì e il martedì; però dopo che è stato dato il congedo di notte al Martirio, e accompagnato  il vescovo all’Anastasis con inni, il vescovo entra subito nella grotta che sta nell’Anastasis e rimane all’interno della cancellata. Il sacerdote, che sta davanti al cancello, prende il libro e legge quel brano dove Giuda l’Iscariota andò presso i Giudei per stabilire cosa gli dovevano dare per consegnare loro il Signore. Appena letto quel bramo, si sente un mormorio tale e lamenti da parte di tutto il popolo, che nessuno non può non commuoversi fino alle lacrime in quel momento. Dopo si fa una preghiera, vengono benedetti i catecumeni, poi i fedeli, e si dà il congedo.

Giovedì Santo: doppia celebrazione
Parimenti nel giovedì, al primo canto del gallo si fanno quelle funzioni che si svolgono fino alla mattina nell’Anastasis; e similmente all’ora terza e sesta. Però all’ora ottava, secondo la consuetudine, tutto il popolo si raduna al Martirio e in tale circostanza si raduna un po’ più per tempo che nei restanti giorni, perché è necessario che il congedo venga fatto più presto. Quindi, radunatosi tutto il popolo, si fanno le funzioni che bisogna fare; in quello stesso giorno si fa l’Offerta al Martirio, e là stesso si dà il congedo all’ora undecima. Ma prima di dare il congedo, l’arcidiacono dice ad alta voce: « Nella prima ora della notte raduniamoci tutti nella chiesa che sta all’Eleona, perché in questa notte ci attende il massimo impegno ».
Dato dunque il congedo al Martirio, si va dietro la Croce, e là si dice soltanto un inno, si fa una preghiera, e il vescovo presenta l’Offerta, e tutti fanno la Comunione. Ad eccezione di quel solo giorno, mai per tutto l’anno si offre il Sacrificio dietro la Croce, se non quell’unico giorno. Dato quindi là il congedo, si va all’Anastasis, si fa una preghiera, vengono benedetti secondo l’uso i catecumeni, poi i fedeli, e si dà il congedo.

Stazione della notte sul Monte degli Ulivi
Ognuno quindi si affretta a ritornare alla propria casa per mangiare, perchè appena hanno finito di mangiare, tutti vanno all’Eleona, in quella stessa chiesa in cui vi sta la grotta, dove nello stesso giorno stette il Signore coi suoi discepoli
E là quasi fino all’ora quinta di notte sempre vengono detti inni ed antifone appropriate  al giorno e al luogo; poi si dicono le lezioni, s’intercalano le preghiere, si leggono anche quei brani del Vangelo(che trattano come)il Signore parlò ai suoi discepoli nello stesso giorno, sedendo nella medesima grotta che si trova nella medesima chiesa.
E si arriva quasi all’ora sesta della notte quando si va su all’Imbomon dicendo inni, (ossia)in quel posto dove il Signore salì al cielo. E là nuovamente si dicono lezioni, inni e antifone appropriate  al giorno; anche le orazioni, qualunque siano, dette dal vescovo, sono sempre dette appropriate  al giorno e al luogo.

Stazione al Getsemani
E così quando comincia il canto del gallo si scende dall’Imbomon dicendo inni, e si va al medesimo luogo dove pregò il Signore, come si trova scritto nel Vangelo: « E si allontanò ad un tiro di sasso e pregò », eccetera. La chiesa che sta su quel posto è artistica. Vi entra il vescovo e tutto il popolo; si dice là una preghiera appropriata al luogo e al giorno; si dice pure un inno appropriato, e nel Vangelo si legge di quel luogo quando (il Signore)disse ai suoi discepoli: « Vigilate, per non entrare in tentazione ». Quel brano viene letto tutt’intero là, e di nuovo si fa una preghiera.
Tutti, fino al più piccolo bambino, scendono da quel luogo dicendo inni insieme al vescovo. A causa della grande moltitudine dei fedeli, stanchi per le veglie e deboli per i quotidiani digiuni, siccome sono costretti a scendere da un monte tanto grande, si arriva al Getsemani adagio-adagio, dicendo inni. Per far luce a tutto il popolo sono accese più di duecento candele di chiesa.
Arrivati al Getsemani, si fa da principio una preghiera appropriata, e poi si dice un inno; poi si legge quel brano del Vangelo che tratta della cattura del Signore. Durante la lettura di questo brano, si sente un mormorio tale e lamenti da parte di tutto il popolo insieme a pianti, che quei gemiti di tutto il popolo potrebbero essere uditi fino alla città.

Ritorno a Gerusalemme
E da quel momento si va a piedi alla città dicendo inni, e si giunge alla porta in quell’ora in cui un uomo comincia a distinguere un altro uomo. Poi dentro la città tutti, nessuno escluso, grandi e piccoli, ricchi e poveri, si ritrovano là pronti; specialmente in quel giorno nessuno tralascia di fare le veglie fino alla mattina. In tal modo si accompagna il vescovo dal Getsemani fino alla porta(della città), e da li si attraversa tutta la città fino alla Croce.

Venerdì Santo: Ufficio all’alba
Appena si è arrivati davanti alla Croce, la luce(dell’alba) già comincia ad essere chiara. Là si legge nuovamente quel brano del Vangelo che parla come il Signore fu condotto a Pilato; e si leggono tutte quelle parole che Pilato disse al Signore e ai Giudei.
Dopo il vescovo rivolge la parola al popolo incoraggiandolo,  perchè si erano stancati tutta la notte e che ancora si sarebbero affaticati in quel giorno; (lo esorta) a non cedere alla stanchezza, ma ad avere speranza in Dio, che per quella fatica li avrebbe ricompensati con un più grande premio. E così li conforta come egli può, e parlando dice loro: »Nel frattempo andate alle vostre casette, riposatevi un pochettino, e circa l’ora seconda del giorno, state qui tutti pronti, perchè da quell’ora fino all’ora sesta possiate vedere il santo legno della Croce, riflettendo che esso gioverà alla salvezza di ciascuno di noi. Dall’ora sesta è nuovamente  necessario radunarci tutti in questo posto, cioè davanti alla Croce, per dedicarci alle letture e alla preghiera fino alla notte ». 
La Colonna della Flagellazione
Dopo di ciò, dato il congedo davanti alla Croce, cioè prima che il sole s’innalzi, subito tutti i (fedeli)zelanti vanno a pregare sul Sion a quella colonna, alla quale fu flagellato il Signore. Poi ritornati siedono un pochino nelle loro case, e poi subito sono tutti pronti. 
Venerazione della Croce
Viene messa presso il Golgota, dietro la Croce, una sedia per il vescovo, dove sta adesso; il vescovo si siede su quella sedia; davanti a lui viene messo un tavolino(coperto da)una mappa di lino; i diaconi stanno in piedi attorno al tavolino; viene portata una cassetta di argento indorato, in cui è conservato il santo legno della Croce; viene aperta e la si espone; e si mette sul tavolino sia il legno della Croce che la soprascritta
Postolo sul tavolino, il vescovo. stando seduto, preme con le sue mani la parte superiore del santo legno; ma i diaconi, che stanno attorno, sorvegliano. Viene sorvegliato da loro, perchè è consuetudine che tutto il popolo, venendo ad uno ad uno, sia fedeli che catecumeni, inchinandosi sul tavolino, baciano il santo legno e passano avanti. Si dice, che un tale, non so quando, abbia dato un morso e portato via un pezzo del santo legno; per questo adesso viene sorvegliato dai diaconi che stanno attorno, in modo che chi viene(a baciare), non osi ripetere quel fatto.
AE in tal modo tutto il popolo passa ad uno ad uno chinandosi; toccano, prima con la fronte e poi cogli occhi la Croce e la soprascritta, e così baciano la Croce e passano oltre; ma nessuno allunga la mano per toccarla. Dopo aver baciato la Croce e passati avanti, un diacono sta in piedi tenendo l’anello di Salomone e il corno con cui venivano unti i re(israeliti). Baciano anche il corno e osservano anche l’anello dall’ora più o meno seconda. In tal modo, fino all’ora sesta, tutto il popolo passa davanti entrando per un uscio ed uscendo per un altro, perché questa cerimonia si fa in quel posto, in cui il giorno innanzi, cioè il giovedì, fu fatta l’Offerta. 
Stazione davanti alla Croce: alle ore tre
Quando poi è giunta l’ora sesta, si va davanti alla Croce, sia che piova sia che faccia caldo, perchè quel luogo è allo scoperto; rassomiglia ad un grande cortile ed è molto bello, e si trova tra la Croce e l’Anastasis. Là dunque si raduna tale numeroso popolo, che non si possono aprire più (i passaggi).
Si mette la sedia per il vescovo davanti alla Croce, e dall’ora sesta fino alla nona non si fa altro che leggere le letture in questo modo: dapprincipio si leggono brani di salmi che si riferiscono alla Passione(del Signore), poi si leggono brani dell’Apostolo(Paolo) o dalle epistole degli Apostoli, oppure dagli Atti degli Apostoli si leggono quei brani che si riferiscono alla Passione(del Ssignore), e anche si leggono brani dei Vangeli che si riferiscono ai suoi patimenti; poi si leggono brani tolti dai Profeti, dov’essi parlano della Passione del Signore, e poi si leggono brani dei Vangeli che narrano la Passione.
E così dall’ora sesta fino all’ora nona si leggono sempre le letture e si dicono inni, per mostrare a tutto il popolo che ciò che dissero i Profeti intorno a ciò che sarebbe avvenuto circa la Passione del Signore, viene provato che si avvera tanto per mezzo dei Vangeli che per mezzo degli scritti degli Apostoli. E in tal modo durante quelle tre ore s’insegna a tutto il popolo che nulla è avvenuto che non sia stato detto prima, e niente è stato detto, che non sia stato compiuto.(Alle letture) s’intercalano sempre le preghiere, le quali sono appropriate al giorno.
Alle singole letture e preghiere sono tali i sentimenti espressi e i pianti di tutto il popolo da stupire; infatti non vi è persona, grande o piccola, che in quel giorno non pianga in quelle tre ore; ma ancor più non può credere come mai il Signore abbia sofferto per noi tanti(patimenti). Dopo di questo, quando comincia l’ora nona, si legge quel brano del Vangelo di Giovanni dove tratta della morte del Signore; lettolo, si fa una preghiera e il congedo. 
Ufficio della sera
Dato il congedo davanti alla Croce, subito tutti si radunano nella chiesa maggiore, al Martirio, e si fanno quelle funzioni che durante quella settimana all’ora nona, in cui ci si raduna al Martirio, si solevano fare fino alla sera durante quella stessa settimana. Dato il congedo, dal Martirio si va all’Anastasis. Giunti là, si legge quel luogo del Vangelo dove Giuseppe(d’Arimatea) chiede a Pilato il corpo del Signore e lo mette in un sepolcro. Letto questo brano, si fa la preghiera; vengono benedetti i catecumeni, e così si dà il congedo.
In quel giorno(il diacono)non dà l’avviso a voce alta per vegliare all’Anastasis, perché sa che il popolo è stanco; però l’uso è che là si faccia la veglia. E di conseguenza chi del popolo vuole, anzi chi può, fa la veglia; ma chi non può, non veglia fino al mattino; i chierici vegliano là, cioè quelli che sono più forti o quelli che sono più giovani, e tutta la notte vengono recitati inni e antifone fino al mattino. La maggio parte della gente veglia, alcuni dalla sera, altri da mezzanotte,secondo come possono.

Vigilia pasquale
Nel giorno seguente, sabato, secondo la consuetudine si fa (la funzione) all’ora terza, e lo stesso si fa all’ora sesta; all’ora nona non si fa niente in quel sabato, ma ci si prepara alla veglia pasquale nella chiesa maggiore, cioè nel Martirio. La veglia pasquale si fa come da noi, soltanto che si fa in più: che i bambini, appena siano stati battezzati e vestiti, quando escono dal fonte battesimale vengono condotti insieme col vescovo prima all’Anastasis.
Il vescovo entra nella cancellata dell’Anastasis; si dice un solo salmo, e quindi il vescovo fa una preghiera per i bambini, e dopo va con essi alla chiesa maggiore, dove, secondo l’uso, veglia tutto il popolo. Là si compiono quelle funzioni che sogliono farsi anche da noi e dopo l’Offerta si dà il congedo. Dato il congedo della veglia nella chiesa maggiore, subito si va all’Anastasis dicendo inni, e là si legge nuovamente quel brano del Vangelo che concerne la risurrezione(del Signore); si fa una preghiera e il vescovo di nuovo fa lì l’Offerta; ma tutto questo si compie in breve tempo a causa del popolo, perché non ritardi più a lungo(per riposare); e quindi il popolo viene congedato. Si dà il congedo della veglia in quell’ora in cui si dà anche da noi.

Uffici dell’Ottava di Pasqua
Le funzioni di quei giorni di Pasqua si compiono come da noi nella tarda mattinata, e si fanno ordinatamente i congedi per gli otto giorni pasquali, come si fa dovunque per il giorno di Pasqua fino al giorno ottavo. Però qui l’ordinamento e la sua disposizione dura dappertutto per tutti gli otto giorni di Pasqua, che è lo stesso per l’Epifania, sia nella chiesa maggiore che nell’Anastasis, davanti alla Croce, nell’Eleona, come pure a Betlemme e anche  al Lazzario, perchè sono giorni di Pasqua.
Nella prima domenica si va nella chiesa maggiore, cioè al Martirio, e così il lunedì e il martedì; ma dopo il congedo dato al Martirio si va all’Anastasis dicendo inni. Il mercoledì si va all’Eleona, il giovedì all’Anastasis, al venerdì si va al Sion, nel sabato si va davanti alla Croce, nella domenica, cioè nell’ottavo giorno, si va di nuovo nella chiesa maggiore, cioè al Martirio.
MIn quegli otto giorni di Pasqua ogni giorno nel pomeriggio il vescovo va all’Eleona con tutto il clero e con tutti i bambini, cioè quelli che sono stati battezzati, e con gli apotattiti, uomini e donne , ed anche con quelli, che vogliono, del popolo. Si dicono inni, si fanno preghiere, sia nella chiesa che nell’Eleona, in cui vi è la grotta nella quale Gesù istruiva i discepoli, sia anche nell’Imbomon, ossia in quel posto da dove il Signore salì al cielo.
Dopo che sono stati detti i salmi e fatta una preghiera, si scende da lì all’Anastasis all’ora lucernare dicendi inni: e questo si compie in tutti i giorni(di Pasqua).

Stazione serale al Sion la Domenica di Pasqua
Però la domenica di Pasqua, dopo il congedo dato al lucernare, cioè dato all’Anastasis, tutto il popolo conduce il vescovo sul Sion dicendo inni.
Arrivati là, si dicono inni appropriati al giorno e al luogo, si fa una preghiera, e si legge quel brano del Vangelo in cui si parla che nel medesimo giorno e nel medesimo luogo, dove attualmente sul Sion esiste una chiesa, il Signore entrò a porte chiuse dai suoi discepoli, ossia quando uno dei discepoli era assente, cioè Tommaso; questi ritornò là, e agli altri Apostoli che dicevano di aver visto il Signore, egli rispose: « Se non vedo, non credo ». Letto questo brano, si fa nuovamente una preghiera, vengono benedetti i catecumeni, poi i fedeli, e ciascuno nella serata ritorna a casa sua quasi nella seconda ora della notte.

Domenica dopo Pasqua
Nell’ottava di Pasqua, cioè nella domenica, subito dopo l’ora sesta tutto il popolo col vescovo sale all’Eleona; dapprincipio ci si siede per un certo tempo nella chiesa che si trova là; si dicono inni e antifone appropriate al giorno e al luogo. Da lì si va di nuovo all’Imbomon, ed anche lì si fa la medesima ufficiatura che si è fatta all’Eleona. Giunto il momento, tutto il popolo e tutti gli apotattiti accompagnano il vescovo, dicendo inni, fino all’Anastasis. Nel momento in cui si giunge all’Anastasis, è il tempo in cui si suole fare il lucernare.
Si fa quindi il lucernare sia all’Anastasis che alla Croce, e da lì tutto il popolo, nessuno escluso, conducono il vescovo sul Sion dicendo inni. Arrivati là, si dicono parimenti inni appropriati al luogo e al giorno, si legge nuovamente quel brano del Vangelo, in cui si parla che otto giorni dopo la Pasqua il Signore entrò dov’erano i discepoli, e rimprovera Tommaso perché non aveva creduto. Si legge quella lettura tutt’intera, dopo si fa la preghiera; benedetti secondo l’uso i catecumeni e i fedeli, ciascuno ritorna alla propria casa, come nella domenica di Pasqua, alla seconda ora di notte.

Mat-26,26_The last supper_La Cene » 2nd_15th_Siecle

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Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose (sul triduo pasquale)

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Omelia  di ENZO BIANCHI, priore di Bose

Giovanni 13,1-15
1 Corinti 11,23-32

Carissimi,

iniziamo a celebrare il santo sacramento del Triduo pasquale, cominciamo a vivere il mistero pasquale di Gesù, il mistero che si è consumato in tre giorni, mistero sintetizzato nella sua passione, morte e resurrezione. Ma va subito detto con chiarezza: noi non celebriamo gli ultimi giorni di Gesù in quanto ultimi giorni della sua vita, ma perché in essi c’è stata la rivelazione, la narrazione di tutta la vita di Gesù e di tutta l’opera di Dio a favore di noi uomini.
Con questo tramonto siamo all’inizio del primo giorno, il giorno della passione e morte che si apre significativamente con la cena di Gesù, nella quale egli, con dei gesti, ha voluto raccontare in anticipo quello che sarebbe accaduto nelle ore successive dello stesso giorno, il primo dei tre giorni pasquali. Gesù, volendo dire ai suoi discepoli che dava la vita liberamente e mosso soltanto dall’amore, volendo istruire i discepoli sul significato di quegli eventi terribili ormai incombenti, secondo i vangeli sinottici compie un gesto e secondo il quarto vangelo compie un altro gesto. Ma i due gesti hanno lo stesso significato, la stessa intenzione: uno è il gesto eucaristico della frazione del pane, l’altro è il gesto della lavanda dei piedi. Le letture che abbiamo ascoltato ci danno la narrazione di questi gesti: nel brano della Prima lettera ai Corinti Paolo racconta, in fedeltà alla tradizione che troviamo nei sinottici, la frazione del pane; nel quarto vangelo Giovanni ci parla della lavanda.
Questa sera voglio sostare sulla lavanda, ma non dimentico che il gesto eucaristico, così come la lavanda, vuole manifestare l’amore di Gesù, svelare l’amore di cui Gesù è stato capace, dirci come Gesù aveva speso la vita e l’ha voluta anche dare subendo l’ingiustizia, la violenza degli uomini, subendo il tradimento di chi mangiava con lui lo stesso pane (cf. Sal 41,10; Gv 13,18) e sedeva alla stessa tavola, ma mentiva; subendo il tradimento all’alleanza comunitaria da lui vissuta interamente; subendo anche l’incomprensione e la non vicinanza di quelli che aveva scelto «perché stessero con lui» (Mc 3,14). Gesù ha vissuto questo senza contraddire l’amore, senza venir meno all’amore; e in questo Gesù non ha solo vissuto con forza ciò che gli apparteneva nella sua vita umana, ma ha anche raccontato Dio e lo ha raccontato non nella quantità delle sofferenze, non nel soffrire e nel morire, ma nel vivere sofferenze e morte ingiusta in un preciso modo, mai venendo meno all’amore. La morte di Gesù, la sua passione hanno questo di unico e sono per noi oggetto questa sera di contemplazione: non in quanto morte, non in quanto sofferenza, ma perché Gesù è riuscito a vivere morte ingiusta e sofferenza continuando ad amare e mai contraddicendo l’amore.
Durante l’ultima cena Gesù è con i discepoli e dice, secondo Paolo che si rifà alla tradizione: «Questo è il mio corpo che è per voi … Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Che cosa significano queste parole? Significano: «La mia vita è stata, è e sarà nelle prossime ore vita donata a voi, spesa per voi. E la mia morte, fino al sangue versato, è un nuovo patto, una nuova alleanza, ultima e definitiva, con voi». Pensiamo almeno un momento al contesto reale di queste parole. Con Gesù ci sono i discepoli, uomini ai quali egli si è dato e per i quali ha consumato la vita: tra di loro c’è uno che lo tradisce, che vive nella menzogna ormai da tempo ma continua a stare con Gesù; uno che lo rinnega, e solo dopo si pentirà nonostante gli avvertimenti che Gesù gli aveva dato personalmente; e gli altri, impauriti, ignavi, inerti, che lo abbandonano tutti. Gesù dice: «Io vi do il mio corpo»; gli altri – Paolo legge la comunità di Corinto, ma era la comunità del Signore quella sera, è la nostra comunità questa sera, è la comunità della chiesa –, gli altri tengono il «proprio» (ciò di cui pensano di avere proprietà); addirittura, pur partecipando alla cena in cui il Signore dà tutto, anche il suo corpo – «il mio corpo che è per voi» –, gli altri tengono il «proprio» per sé fino a mangiare – dice Paolo – il «proprio» cibo e dunque in realtà non sono partecipi della cena del Signore (cf. 1Cor 11,17-22). Ma leggiamo anche come la lavanda dei piedi da parte di Gesù dica la stessa cosa, e come Gesù per entrambi i gesti comandi: «Fate questo in memoria di me», oppure: «Fate questo come io ho fatto a voi». Due gesti, due memorie comandate per una sola realtà: Gesù che dà la vita per noi. Conosciamo bene questa narrazione della lavanda, descritta con precisione e con una lentezza che ci invita a sostare anche sui particolari dell’agire di Gesù. È impressionante, ma è una scena in cui le parole sono semplicemente di troppo. È un fare di Gesù; di più, direi che per Giovanni è veramente l’opera, quell’opera di cui più volte ha parlato nel quarto vangelo, l’opera di Gesù, l’opera del Figlio, ma che adesso diventa un’azione, un fare.
Avete sentito: Gesù si alza da tavola, depone le vesti, prende l’asciugamano, se lo cinge ai fianchi, versa l’acqua nel catino, lava i piedi ai discepoli. È Gesù che opera, che fa, totalmente protagonista, non ha né inservienti né assistenti. Perché quel gesto che riassumeva tutta la sua vita e che prefigurava la sua morte, in sintonia a come aveva vissuto al servizio degli altri, lui solo e solo così poteva farlo. È il fare dello schiavo – lo sappiamo bene – verso il suo Signore; ma è anche il gesto che può essere fatto per amore da parte del discepolo verso il suo rabbi; ed è anche il gesto che poteva essere fatto per amore da parte del figlio verso il padre vecchio e anziano. Solo in quei casi era possibile quel gesto: o per amore del figlio e del discepolo, o per obbedienza dello schiavo. Un gesto, dunque, che è di umiliazione ma che può anche essere di relazione, di affetto. E non possiamo dimenticare che, se questo è il gesto compiuto quella sera da Gesù verso i suoi discepoli, l’unica che aveva fatto a lui quel gesto, l’unica – non glielo hanno mai fatto i discepoli –, l’unica era quella prostituta che gli lavò i piedi e per la quale Gesù ha dovuto dire che quel gesto era una narrazione di amore (cf. Lc 7,36-47; Mc 14,3-9). In ogni caso, Gesù opera un’inversione dei ruoli: si fa schiavo, si fa discepolo, si fa figlio. Ecco lo scandalo di Pietro: il gesto compiuto da Gesù dice la sua identità, e Pietro, da buon ebreo, non può accettare una tale identità per il suo rabbi, per il suo profeta e Messia. Così egli protesta, e non accettando l’opera di Gesù non accetta neppure l’opera di Dio. Gesù deve dunque dirgli: «Se tu non accetti che io ti lavi i piedi non avrai parte con me». Cioè: «Tu non puoi avere nessuna comunione con me, né qui e ora, ma neanche nel Regno, neanche nella vita eterna». Gesù con quel gesto fonda la relazione essenziale tra lui e il discepolo, tra lui e il credente futuro, tra lui e il cristiano.
Il cristiano, ciascuno di noi, per entrare in relazione con Gesù dovrà lasciarsi lavare i piedi; dovrà accettare di vedere andare in frantumi l’immagine religiosa, teologica che ha di Dio, che ha del suo Inviato; dovrà accettare un amore che non si può misurare umanamente, ma che è un amore sempre preveniente, un amore, soprattutto, che non si deve meritare. Sì, perché ciascuno di noi, e questo è il grande ostacolo alla fede in Gesù Cristo, pensa di dover meritare l’amore. Qui davvero sta la differenza tra gli uomini che sono pronti a credere in Dio ma che sono lenti a credere in Gesù Cristo. Questa è la verità: Gesù ci dice che l’amore di Dio non va meritato. Gesù conosce questa difficoltà umana, per la quale l’uomo non arriva a credere, non arriva a credere in Cristo e non arriva a «credere all’amore», come dice con molta intelligenza spirituale Giovanni nella sua Prima lettera (cf. 1Gv 4,16). Per questo Gesù chiede solo che ci lasciamo lavare i piedi da lui e ci promette che capiremo più tardi il perché. Ecco allora l’exeghésato (Gv 1,18) attuato nella lavanda: Gesù che ci narra Dio, che ci narra l’amore di Dio, un amore che non dobbiamo meritare, un amore per il quale i piedi ci sono lavati anche quando noi non comprendiamo. Pietro capirà più tardi, dopo essere passato anche attraverso l’infedeltà. Anche Giuda si lascia lavare i piedi quella sera, ma non capirà; anzi, proprio perché Gesù gli ha lavato i piedi, proprio perché gli ha dato il boccone eucaristico, accresce la sua capacità di inimicizia fino a permettere che Satana si impadronisca completamente di lui (cf. Lc 22,3). Ecco allora il messaggio: lasciarsi lavare i piedi da Gesù Cristo. Qui noi decidiamo se la nostra fede è autenticamente cristiana, o se resta ancora nell’economia veterotestamentaria, o se è semplicemente una fede monoteista. Perché solo da una tale comprensione di Gesù, da una tale inversione dei ruoli noi decidiamo la comunione con Dio o il suo rifiuto.
Ma dopo il gesto e dopo il dialogo con Pietro, Giovanni ci parla di un dialogo avvenuto anche con i discepoli: «Avete capito quello che vi ho fatto?». Qui però ciò che è richiesto nella comprensione non riguarda l’identità di Gesù, ma riguarda il comportamento dei discepoli. Gesù instaura un’altra logica nelle sue parole: si passa così dal piano cristologico circa l’identità di Gesù, al piano etico, o – se si vuole – al piano ecclesiologico, al piano delle relazioni tra i discepoli, che è poi il piano della relazione tra i cristiani e tutti gli uomini che il cristiano decide semplicemente di incontrare, credenti o non credenti, cristiani o non cristiani. La lavanda dei piedi operata da Gesù è stata sì una rivelazione di chi Gesù è, ma qui diventa un esempio, un paradigma – potremmo dire nel nostro linguaggio – che viene proposto ai discepoli. Ecco come dalla fede scaturisce il fare, l’etica: «Dimmi che immagine tu hai di Dio e ti dirò come tu vivi da uomo. Se dunque tu credi che Dio, il Signore, può lavare i piedi a te, allora tu sarai capace, anzi sentirai la responsabilità e il dovere di lavare i piedi agli altri».
E non dimentico neppure qui, in questo passaggio dalla rivelazione all’etica, il racconto di Paolo, perché anche l’Apostolo ci fa passare dalla liturgia all’etica, da una celebrazione rituale a un entrare in quella logica del «per voi», smettendo di avere per sé il proprio. In ogni caso, dai gesti fatti da Gesù, lavanda o istituzione, scaturisce l’etica ecclesiale, il fare dei cristiani. L’interpretazione liturgica della chiesa romana ha privilegiato questo paradigma della lavanda; ha privilegiato, per così dire, il versante etico del gesto di Gesù e ha considerato la lavanda dei piedi come ministerium, come un compito necessario nella vita fraterna, a imitazione di Gesù che presiedendo la comunità ha lavato i piedi ai suoi. Ed è per questo che nella chiesa latina chi presiede la chiesa, chi presiede una comunità monastica lava i piedi agli altri. Ma va ricordato che l’interpretazione ambrosiana privilegia il significato cristologico e fa addirittura della lavanda un gesto battesimale; certo, con un significato penitenziale, che noi facciamo fatica a comprendere.
Ma è significativo che nella tradizione monastica, dove si è iniziata a vivere la lavanda, prima ancora che all’interno delle chiese, questo gesto sia un gesto che dice, rivela, racconta come i cristiani vivono l’amore. Mi ha sempre impressionato che nella Regola di Benedetto si ordina che l’abate versi l’acqua sulle mani degli ospiti che arrivano e, aiutato dalla comunità, lavi i piedi a tutti gli ospiti che giungono in monastero: «Pedes hospitibus omnibus tam abbas quam cuncta congregatio lavet» (RB 53,12-13). Pensate, se io dovessi lavare i piedi a tutti gli ospiti che arrivano qui… Però questo è significativo, perché non è solo un gesto di umiltà, di servizio verso l’ospite che nella tradizione monastica è comunque sacramento di Cristo (cf. RB 53,1), ma io credo voglia essere soprattutto una dimostrazione di umanità. Non a caso san Benedetto ha appena affermato: «Omnis ei exhibeatur humanitas», «si mostri all’ospite tutta l’umanità» (RB 53,9). Quasi a dire che la lavanda dei piedi è un cammino di umanizzazione per l’ospitante, abate e comunità monastica, ma anche per l’ospite che giunge, sconosciuto o conosciuto. Questo gesto della lavanda dei piedi, segno di un servizio all’altro, segno di umiliazione personale riguarda tutti: riguarda noi monaci e riguarda anche voi, amici e ospiti. È vero che nella liturgia lo compie solo chi presiede la chiesa o la comunità monastica, e certamente lo fa, se pur indegnamente, a nome di Cristo, per ricordare l’abbassamento del Kýrios, l’atteggiamento di Dio verso ciascuno; ma poi, secondo la volontà di Gesù, questo gesto dovrebbe essere compiuto dalla comunità tutta, dai cristiani tra di loro, dovrebbe essere un gesto reciproco.
Ora chi presiede lo compie, a nome del Signore, per raccontare chi era Gesù, come inveramento del suo esempio; ma lo compie anche per dire che il rapporto fraterno nella comunità cristiana è dato dal servizio dello schiavo o dall’affetto del discepolo verso il maestro, del figlio verso il padre. È un gesto dunque che noi reiteriamo perché Gesù ce lo ha chiesto, per il suo comando, alla stessa maniera con cui rifacciamo il gesto sul pane e sul vino. Che il Signore ci conceda di accettare questo suo gesto. E soprattutto ci conceda, attraverso questo gesto, di modificare la nostra immagine di Dio e di accogliere il suo amore: un amore che non dobbiamo meritare perché ci previene, un amore che non chiede neppure reciprocità, ma chiede solo di essere accolto e creduto. Perché noi cristiani dobbiamo essere, secondo la volontà di Gesù, nient’altro che quelli che credono all’amore (cf. 1Gv 4,16).

Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose

SANTA MESSA DEL CRISMA – OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II (2004)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/2004/documents/hf_jp-ii_hom_20040408_chrism-mass_it.html

SANTA MESSA DEL CRISMA NELLA BASILICA VATICANA

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II (2004)

Giovedì Santo, 8 aprile 2004

1. « Pontefice della nuova ed eterna alleanza ». Così Gesù ci appare, in modo singolare, nell’odierna Santa Messa del Crisma, che mostra il profondo legame esistente tra l’Eucaristia e il Sacerdozio ministeriale. Cristo è il Sommo Sacerdote di quella Nuova Alleanza, già preannunciata dal Profeta dell’esilio babilonese (cfr Is 61,1-3). L’antica profezia si compie in Lui, come Egli stesso proclama nella sinagoga di Nazareth, proprio all’inizio della vita pubblica (cfr Lc 4,21). Il Messia promesso, l’ »Unto del Signore », porterà a compimento sulla Croce la liberazione definitiva degli uomini dall’antica schiavitù del Maligno. E, risuscitando il terzo giorno, inaugurerà la vita che non conosce più la morte.
2. « Oggi si è adempiuta questa Scrittura » (Lc 4, 21). L’ »oggi » evangelico si rinnova, in maniera singolare, in questa Messa del Crisma, che rappresenta un vero e proprio preludio al Triduo Pasquale. Se la Messa in Cena Domini sottolinea il mistero dell’Eucaristia e la consegna del comandamento nuovo dell’amore, questa che stiamo celebrando, detta Messa del Crisma, sottolinea il dono del sacerdozio ministeriale.
Ho voluto ribadire questa stretta unità esistente fra Eucaristia e Sacerdozio nella Lettera ai Sacerdoti che, proprio in occasione del Giovedì Santo, ho loro indirizzato. L’Eucaristia e il Sacerdozio sono « due Sacramenti nati insieme, le cui sorti sono indissolubilmente legate fino alla fine del mondo » (n. 3).
3. Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, vi saluto tutti con affetto e vi ringrazio per la vostra numerosa presenza e devota partecipazione. Tra poco rinnoveremo le promesse sacerdotali, rendendo grazie a Dio per il dono del nostro Sacerdozio. Ribadiremo, al tempo stesso, il fermo proposito di essere immagine sempre più fedele di Cristo, Sommo Sacerdote. Egli, Buon Pastore, ci chiama a seguire il suo esempio, e ad offrire giorno dopo giorno la vita per la salvezza del gregge che ha affidato alle nostre cure.
Come non ritornare, con il pensiero carico di commozione, all’entusiasmo del primo ‘sì’, pronunciato il giorno dell’Ordinazione presbiterale? « Eccomi! ». Abbiamo risposto a Colui che ci chiamava a lavorare per il suo Regno. « Eccomi! ». Dobbiamo ripetere ogni giorno, consapevoli di essere stati inviati a servire, a speciale titolo, la comunità dei salvati in persona Christi.
Veramente straordinario è il « dono e mistero » che abbiamo ricevuto. L’esperienza quotidiana ci insegna che esso va conservato, grazie a una indefettibile adesione a Cristo, alimentata da costante preghiera. Il popolo cristiano vuole vederci anzitutto come « uomini di preghiera ». Chi ci incontra deve poter sperimentare dalle nostre parole e dai nostri comportamenti l’amore fedele e misericordioso di Dio.
4. Cari Fratelli e Sorelle! L’odierna Messa crismale vede, in ogni Diocesi, il popolo cristiano riunito attorno al proprio Vescovo e all’intero presbiterio. Si tratta di una solenne e significativa celebrazione, durante la quale sono benedetti il sacro Crisma e gli olii degli infermi e dei catecumeni. Questo rito invita a contemplare Cristo, che ha assunto l’umana nostra fragilità e l’ha resa strumento di salvezza universale. A sua immagine ogni credente, ricolmo dell’unzione dello Spirito Santo, è « consacrato » per diventare offerta gradita a Dio.
La Vergine Maria, Madre di Cristo Sommo Sacerdote, che ha cooperato intimamente all’opera della redenzione, aiuti noi sacerdoti a riprodurre sempre più fedelmente, nella nostra esistenza e nel nostro servizio ecclesiale, l’immagine del suo figlio Gesù. Renda tutti i cristiani sempre più consapevoli della vocazione a cui ciascuno è chiamato, perché la Chiesa, nutrita dalla Parola e santificata dai sacramenti, continui a compiere appieno la sua missione nel mondo.

La Via Crucis non è una devozione triste – Javier Echevarría

http://www.it.josemariaescriva.info/articolo/la-via-crucis-non-egrave-una-devozione-triste

La Via Crucis non è una devozione triste

Javier Echevarría           

“La Via Crucis non è una devozione triste. Mons. Escrivá ha insegnato spesso che la gioia cristiana ha le sue radici a forma di croce. Se la Passione di Cristo è via dolorosa, è anche il cammino della speranza e della sicura vittoria”. (Mons. Alvaro del Portillo, Prologo del libro Via Crucis di San Josemaría).
La Via Crucis consiste nella considerazione dei 14 momenti della strada percorsa da Gesù verso il Calvario il primo venerdì santo, per meditare le sofferenze di Gesù Cristo e unirsi interiormente a lui. San Josemaría aveva molta devozione per questa pratica di pietà, come ricorda Mons. Javier Echevarría nei ricordi che qui raccogliamo:
Viveva la devozione ai simboli della Via Crucis. In occasione di una festa dell’Epifania decidemmo di regalargli un piccolo trittico in cui erano rappresentate, quasi in miniatura, le diverse stazioni: l’aveva così sotto mano e poteva contemplare le scene della Passione, che tanto amava.
Ho recitato spesso assieme a lui e a don Álvaro i testi delle stazioni e ho potuto vedere la devozione con cui si metteva in ginocchio dopo aver pronunciato il titolo di ciascuna. Di solito meditava le scene della via al Calvario tutti i venerdì e in modo speciale nei giorni della Quaresima.
Ci sollecitava a conservare nella memoria, come se fosse un film, i momenti in cui si compie la redenzione dell’umanità, in modo da poterci sempre inserire nella scena come un personaggio fra gli altri, per pentirci delle nostre mancanze, per stare insieme a Gesù, per sentire l’obbligo di essere corredentori.
Il 14 settembre 1969, mentre ci mostrava, con attenzione e rispetto, una reliquia della Santa Croce, ci parlò a lungo della Passione e Morte di Nostro Signore. Riporto alcune delle parole che disse: “Noi amiamo la Croce, dobbiamo amarla, sinceramente, perché dove c’è la Croce c’è Cristo con il suo Amore, con la sua presenza che tutto avvolge. Figli miei, con lo spirito dell’Opera in noi non potremo mai fuggire dalla Croce, da questa Croce Santa in cui si ritrova la pace, la gioia, la serenità, la forza… In questo reliquiario che conserviamo si venera un pezzo del Lignum Crucis custodito a San Toribio di Liebana. Me lo regalò tanti anni fa il vescovo di Leon. A me dà fastidio sentir citare la croce come sinonimo di avversità, di mortificazione. La Croce è una realtà positiva, è il luogo da cui Dio volle donarci la vera vita… Dopo avere ricevuto la benedizione, baceremo la croce e ripeteremo sinceramente che la amiamo, perché non vediamo più nella Croce ciò che ci costa o che ci può costare, bensì la gioia di poterci donare, spogliandoci di tutto per ritrovare tutto l’amore di Dio… sotto il reliquiario ho fatto incidere: iudaeis quidem scandalum, gentibus autem stultitiam! (scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, 1 Corinti 1, 23); infatti, per chi non la capisce, la Croce è scandalosa e priva di senso”.
Nel ’70 ci stimolava: “Solo se ci uniamo continuamente alla Passione di Cristo, diverremo strumenti utili, anche se siamo carichi di miserie”. È impossibile riportare le sue molteplici e innumerevoli considerazioni su questo tema, ma penso che ve ne sia una che in qualche modo riassuma il senso della sua unione al Sacrificio della Croce; gliela sentii fare durante la Settimana Santa del 1970: “La Passione del Signore: ecco da dove proviene tutta la nostra forza. Quando penso alla Passione di Cristo, mi torna subito in mente ciò che ho fatto in questi quarantadue anni di vita nell’Opus Dei e negli anni precedenti, in cui Egli mi stava preparando. E mi vedo come un nulla, mano di nulla: sono stato solo un intralcio. Per questo, ogni giorno avverto il bisogno di farmi piccolo, molto piccolo nelle mani di Dio. E mi consolo nel modo che ho scritto tante volte: che cosa fa un bambino? Regala a suo padre un soldatino senza testa, un rocchetto vecchio, una biglia di vetro. Così anch’io: quel poco che ho lo voglio donare interamente e per davvero. Così, la mia pochezza, fondendosi con la Passione di Cristo, acquista tutta l’efficacia redentivi e salvifica: nulla si perde!”.

Memoria del Beato Josemaría Escrivá, Javier Echevarría Rodríguez e Salvador Bernal Fernández, Leonardo International 2001

Van Gogh, Pietà

Van Gogh, Pietà dans immagini sacre vangogh_pieta

http://www.artbible.info/art/large/590.html

Publié dans:immagini sacre |on 2 avril, 2012 |Pas de commentaires »
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