COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA DI DOMENICA 22 APRILE 2012: ATTI 3,13-15.17-19
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COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA DI DOMENICA 22 APRILE 2012
TESTO DELLA PRIMA LETTURA
Atti 3,13-15.17-19
In quei giorni, Pietro disse al popolo: 13 « Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; 14 voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino 15 e avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni.
17 Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; 18 Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. 19 Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati ».
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati ».
COMMENTO
Atti 3,13-15.17-19
Secondo discorso di Pietro
L’annunzio del vangelo nella città di Gerusalemme, che costituisce il tema della prima sezione degli Atti (1,15- 8,4), riceve una forte accelerazione dalla guarigione di uno storpio. La curiosità che essa suscita attira una grande folla, alla quale Pietro rivolge il suo secondo discorso missionario (3,12-26). Esso è composto sulla falsariga del primo (At 2,17-36) e rivela il metodo seguito dai primi predicatori cristiani quando si rivolgevano a un pubblico giudaico. La liturgia riprende la parte iniziale del discorso, tralasciando però gli accenni alla situazione concreta che l’ha provocato (vv. 12.16).
Nell’introduzione del discorso Pietro si rifà alla guarigione dello storpio, ma solo per dire che essa non deve venire attribuita a particolari poteri suoi e del suo compagno (v. 12). Poi inizia il suo annunzio cominciando dalla glorificazione di Gesù dopo la sua morte. Egli afferma che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (v. 13a). Con queste parole Pietro riassume quanto aveva detto più in lungo nel giorno di Pentecoste (cfr. 2,22-32). La designazione di JHWH come il Dio dei padri è comune nell’AT (cfr. per es. Es 3,6.15) e contiene in sé una sintesi di tutta la storia passata di Israele: lo stesso Dio che un giorno ha scelto Abramo e la sua discendenza ha operato nella persona di Gesù.
Gesù riceve qui l’appellativo di «servo», mediante il quale la sua persona viene interpretata alla luce del protagonista dei quattro carmi del “Servo di JHWH” contenuti nel Deuteroisaia (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13–52,12). Il riferimento è reso ancora più esplicito dall’uso del verbo «glorificare» (doxazô), utilizzato appunto all’inizio del quarto carme: «Ecco il mio servo sarà … molto glorificato» (Is 52,13). Come avviene in questo carme, Pietro anticipa l’annunzio della glorificazione di Gesù per poi accennare, in questa prospettiva, alla sua morte. Egli lo fa interpellando direttamente gli ascoltatori e accusandoli di aver «consegnato» e «rinnegato» Gesù davanti a Pilato, il quale invece aveva deciso di liberarlo (v. 13b). Anche il verbo «consegnare» (paradidômi) è ispirato al quarto carme del servo di JHWH nella traduzione dei LXX, dove indica però l’azione di Dio che offre il suo servo alla morte (cfr. 53,6.12). Pietro fa riferimento al fatto che Pilato aveva tentato di liberare Gesù conferendo a lui la grazia che veniva data normalmente a un detenuto in occasione della Pasqua, mentre la folla aveva chiesto la liberazione di Barabba.
Dopo aver messo in luce la responsabilità dei presenti, Pietro sottolinea l’assurdità di quanto essi hanno compiuto: essi hanno rinnegato il Santo e il giusto e hanno chiesto che fosse graziato un assassino, e così hanno ucciso l’«autore della vita» (vv. 14-15a). Che Barabba fosse un assassino risulta dai racconti della passione (cfr. Mc 15,7; Lc 23,19). L’appellativo di «giusto» attribuito a Gesù rispecchia ancora il linguaggio del quarto carme del Servo (Is 53,11: «il giusto mio servo giustificherà molti»), mentre la santità è una prerogativa che compete a Dio stesso. Mediante l’espressione «autore» (archêgos, guida) della vita Pietro non vuole mettere Gesù sullo stesso piano di Dio, attribuendogli il ruolo di “creatore” della vita, ma semplicemente designarlo come colui che, ad immagine di Mosè, “conduce alla vita”. Per Pietro è importante sottolineare la scandalosa contrapposizione tra la grazia data a chi ha tolto la vita e l’uccisione di colui che invece conduce alla vita. Pietro prosegue affermando che Dio ha risuscitato Gesù dai morti (v. 15b). Dio non ha abbandonato alla morte il santo e il giusto, l’«autore della vita», ma lo ha richiamato in vita, riabilitandolo così agli occhi di tutti. Siccome però il fatto non poteva essere conosciuto dai presenti, Pietro aggiunge: «E di questo noi siamo testimoni» (v. 15c): in queste parole è riassunta in breve la testimonianza dei primi discepoli, ai quali Gesù si è fatto vedere dopo la sua risurrezione.
Pietro fa poi un secondo accenno alla situazione concreta, osservando che, proprio per la fede riposta in lui, il «nome di Gesù» ha risanato lo storpio (v. 16): con questa espressione egli vuole attirare l’attenzione sulla potenza salvatrice della persona di Gesù, che è racchiusa nel suo nome stesso (JHWH salva). Poi riprende il filo del discorso, attenuando l’accusa fatta agli ascoltatori di aver ucciso l’autore della vita: sia essi che i loro capi hanno compiuto ciò per ignoranza (v. 17): pur avendo commesso un crimine enorme, essi sono in parte scusabili perché non conoscevano la vera natura di chi mettevano a morte. Per di più, proprio attraverso il loro crimine Dio compiva quanto aveva fatto sapere per bocca di tutti i profeti, i quali avevano preannunziato la morte di Cristo (v. 18): in questo modo l’oratore fa passare, senza citare alcun testo specifico della Bibbia, l’idea che Gesù era il Cristo promesso da Dio e che la sua morte era stata preannunziata nelle Scritture.
Tutto ciò è sufficiente per fondare l’esortazione finale: «Pentitevi e cambiate (vita), perché siano cancellati i vostri peccati» (v. 19). I due verbi «pentirsi» (metanoeô) e «cambiare» (epistrefô) sono traduzioni diverse della stessa radice ebraica shub che significa «ritornare», cioè rivolgersi nuovamente a Dio dopo essersi allontanati da lui con il peccato. Per gli ascoltatori di Pietro questa conversione ha come scopo l’eliminazione dei «peccati», non solo di quello compiuto uccidendo il santo e il giusto, ma di tutti i peccati che li tengono lontani da Dio.
Nella seconda parte del discorso (vv. 20-26), omessa nel testo liturgico, l’oratore porta gli argomenti scritturistici che fondano le sue affermazioni precedenti. La conversione di cui ha parlato renderà possibile la venuta dei tempi della consolazione, cioè del tempo finale della salvezza, che coinciderà con il momento in cui Dio manderà nuovamente come Cristo glorioso quel Gesù che attualmente tiene presso di sé nei cieli. A riprova di ciò egli porta il testo di Dt 18,15.19 applicando alla seconda venuta di Gesù il tema del “profeta come Mosè” che un giorno Dio avrebbe inviato al suo popolo. Riprendendo l’esordio, in cui aveva parlato del Dio dei padri, Pietro si appella infine ai presenti ricordando loro che sono figli dei profeti e dell’alleanza che Dio ha stabilito con i loro padri quando disse ad Abramo: «Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra» (Gen 12,3; 22,18). E conclude sottolineando che a loro per primi, dopo averlo risuscitato dai morti, Dio ha mandato il suo «servo», per portare loro una benedizione che consiste in ultima analisi nella possibilità di convertirsi dalla loro iniquità: è implicito che, successivamente, egli sarà mandato a tutte le nazioni della terra, che secondo la promessa fatta ad Abramo avrebbero dovuto un giorno essere anch’esse benedette in lui.
Linee interpretative
In questo importante discorso missionario Luca fa attribuire da Pietro a Gesù per ben due volte l’appellativo di «servo» che non gli è mai attribuito altrove, sebbene la cristologia del «Servo di JHWH» sia presente in tutto il Nuovo Testamento. Questo titolo è accostato a quello tradizionale di «Cristo» (Messia) e ad altri due non usati altrove di «santo» e «giusto». Sullo sfondo inoltre c’è anche l’applicazione a Gesù dell’attesa riguardante il profeta degli ultimi tempi. In tal modo Pietro fa convergere sulla persona di Gesù tre attese fondamentali del giudaismo: il Servo di JHWH, il Messia e il Profeta. È precisamente attraverso il sovrapporsi di queste diverse concezioni che la figura di Gesù appare nella sua vera identità. Egli infatti può essere presentato come il Messia che ha inaugurato gli ultimi tempi e un giorno li porterà al pieno compimento solo perché è il portavoce di Dio (profeta) e il suo Servo, che ha affrontato la morte per il suo popolo. La gloria sgorga dall’umiliazione più profonda. Ma si tratta di un’umiliazione che porta già in se stessa la gloria in quanto rappresenta il punto di arrivo di una vita spesa per gli altri, in obbedienza al progetto di Dio che voleva riaggregare il suo popolo disperso a causa del peccato, non con la forza ma con la manifestazione più radicale del suo amore.
Luca ritiene senz’altro che questa lettura della vicenda di Gesù alla luce delle Scritture sia pienamente comprensibile da parte di un pubblico giudaico che, dopo essere stato coinvolto nella condanna dell’inviato di Dio, si sente ora invitato a superare la sua ignoranza e ad accoglierlo come colui da cui dipende la venuta della salvezza finale. La stessa presentazione però potrebbe non essere capita proprio da quei gentili ai quali pure l’annunzio evangelico dovrà essere rivolto. Per loro sarà necessario reinterpretare le immagini bibliche, mostrando che Gesù non si è addossato compiti prefabbricati, ma è entrato nell’ottica della grande tradizione ebraica (che lui stesso d’altronde ha contribuito a interpretare) per la quale la salvezza è frutto di un profondo coinvolgimento di Dio in una ricerca umana che ha come meta la riconciliazione di tutto un popolo. La sua vicenda mostra che egli ha raggiunto questa meta non in modo meccanico, ma mediante il dono di sé fino alla fine. Proprio per aver fatto ciò Gesù riceve dai suoi discepoli quei titoli che hanno caratterizzato i grandi uomini della storia di Israele.
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