Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose (sul triduo pasquale)
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Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose
Giovanni 13,1-15
1 Corinti 11,23-32
Carissimi,
iniziamo a celebrare il santo sacramento del Triduo pasquale, cominciamo a vivere il mistero pasquale di Gesù, il mistero che si è consumato in tre giorni, mistero sintetizzato nella sua passione, morte e resurrezione. Ma va subito detto con chiarezza: noi non celebriamo gli ultimi giorni di Gesù in quanto ultimi giorni della sua vita, ma perché in essi c’è stata la rivelazione, la narrazione di tutta la vita di Gesù e di tutta l’opera di Dio a favore di noi uomini.
Con questo tramonto siamo all’inizio del primo giorno, il giorno della passione e morte che si apre significativamente con la cena di Gesù, nella quale egli, con dei gesti, ha voluto raccontare in anticipo quello che sarebbe accaduto nelle ore successive dello stesso giorno, il primo dei tre giorni pasquali. Gesù, volendo dire ai suoi discepoli che dava la vita liberamente e mosso soltanto dall’amore, volendo istruire i discepoli sul significato di quegli eventi terribili ormai incombenti, secondo i vangeli sinottici compie un gesto e secondo il quarto vangelo compie un altro gesto. Ma i due gesti hanno lo stesso significato, la stessa intenzione: uno è il gesto eucaristico della frazione del pane, l’altro è il gesto della lavanda dei piedi. Le letture che abbiamo ascoltato ci danno la narrazione di questi gesti: nel brano della Prima lettera ai Corinti Paolo racconta, in fedeltà alla tradizione che troviamo nei sinottici, la frazione del pane; nel quarto vangelo Giovanni ci parla della lavanda.
Questa sera voglio sostare sulla lavanda, ma non dimentico che il gesto eucaristico, così come la lavanda, vuole manifestare l’amore di Gesù, svelare l’amore di cui Gesù è stato capace, dirci come Gesù aveva speso la vita e l’ha voluta anche dare subendo l’ingiustizia, la violenza degli uomini, subendo il tradimento di chi mangiava con lui lo stesso pane (cf. Sal 41,10; Gv 13,18) e sedeva alla stessa tavola, ma mentiva; subendo il tradimento all’alleanza comunitaria da lui vissuta interamente; subendo anche l’incomprensione e la non vicinanza di quelli che aveva scelto «perché stessero con lui» (Mc 3,14). Gesù ha vissuto questo senza contraddire l’amore, senza venir meno all’amore; e in questo Gesù non ha solo vissuto con forza ciò che gli apparteneva nella sua vita umana, ma ha anche raccontato Dio e lo ha raccontato non nella quantità delle sofferenze, non nel soffrire e nel morire, ma nel vivere sofferenze e morte ingiusta in un preciso modo, mai venendo meno all’amore. La morte di Gesù, la sua passione hanno questo di unico e sono per noi oggetto questa sera di contemplazione: non in quanto morte, non in quanto sofferenza, ma perché Gesù è riuscito a vivere morte ingiusta e sofferenza continuando ad amare e mai contraddicendo l’amore.
Durante l’ultima cena Gesù è con i discepoli e dice, secondo Paolo che si rifà alla tradizione: «Questo è il mio corpo che è per voi … Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Che cosa significano queste parole? Significano: «La mia vita è stata, è e sarà nelle prossime ore vita donata a voi, spesa per voi. E la mia morte, fino al sangue versato, è un nuovo patto, una nuova alleanza, ultima e definitiva, con voi». Pensiamo almeno un momento al contesto reale di queste parole. Con Gesù ci sono i discepoli, uomini ai quali egli si è dato e per i quali ha consumato la vita: tra di loro c’è uno che lo tradisce, che vive nella menzogna ormai da tempo ma continua a stare con Gesù; uno che lo rinnega, e solo dopo si pentirà nonostante gli avvertimenti che Gesù gli aveva dato personalmente; e gli altri, impauriti, ignavi, inerti, che lo abbandonano tutti. Gesù dice: «Io vi do il mio corpo»; gli altri – Paolo legge la comunità di Corinto, ma era la comunità del Signore quella sera, è la nostra comunità questa sera, è la comunità della chiesa –, gli altri tengono il «proprio» (ciò di cui pensano di avere proprietà); addirittura, pur partecipando alla cena in cui il Signore dà tutto, anche il suo corpo – «il mio corpo che è per voi» –, gli altri tengono il «proprio» per sé fino a mangiare – dice Paolo – il «proprio» cibo e dunque in realtà non sono partecipi della cena del Signore (cf. 1Cor 11,17-22). Ma leggiamo anche come la lavanda dei piedi da parte di Gesù dica la stessa cosa, e come Gesù per entrambi i gesti comandi: «Fate questo in memoria di me», oppure: «Fate questo come io ho fatto a voi». Due gesti, due memorie comandate per una sola realtà: Gesù che dà la vita per noi. Conosciamo bene questa narrazione della lavanda, descritta con precisione e con una lentezza che ci invita a sostare anche sui particolari dell’agire di Gesù. È impressionante, ma è una scena in cui le parole sono semplicemente di troppo. È un fare di Gesù; di più, direi che per Giovanni è veramente l’opera, quell’opera di cui più volte ha parlato nel quarto vangelo, l’opera di Gesù, l’opera del Figlio, ma che adesso diventa un’azione, un fare.
Avete sentito: Gesù si alza da tavola, depone le vesti, prende l’asciugamano, se lo cinge ai fianchi, versa l’acqua nel catino, lava i piedi ai discepoli. È Gesù che opera, che fa, totalmente protagonista, non ha né inservienti né assistenti. Perché quel gesto che riassumeva tutta la sua vita e che prefigurava la sua morte, in sintonia a come aveva vissuto al servizio degli altri, lui solo e solo così poteva farlo. È il fare dello schiavo – lo sappiamo bene – verso il suo Signore; ma è anche il gesto che può essere fatto per amore da parte del discepolo verso il suo rabbi; ed è anche il gesto che poteva essere fatto per amore da parte del figlio verso il padre vecchio e anziano. Solo in quei casi era possibile quel gesto: o per amore del figlio e del discepolo, o per obbedienza dello schiavo. Un gesto, dunque, che è di umiliazione ma che può anche essere di relazione, di affetto. E non possiamo dimenticare che, se questo è il gesto compiuto quella sera da Gesù verso i suoi discepoli, l’unica che aveva fatto a lui quel gesto, l’unica – non glielo hanno mai fatto i discepoli –, l’unica era quella prostituta che gli lavò i piedi e per la quale Gesù ha dovuto dire che quel gesto era una narrazione di amore (cf. Lc 7,36-47; Mc 14,3-9). In ogni caso, Gesù opera un’inversione dei ruoli: si fa schiavo, si fa discepolo, si fa figlio. Ecco lo scandalo di Pietro: il gesto compiuto da Gesù dice la sua identità, e Pietro, da buon ebreo, non può accettare una tale identità per il suo rabbi, per il suo profeta e Messia. Così egli protesta, e non accettando l’opera di Gesù non accetta neppure l’opera di Dio. Gesù deve dunque dirgli: «Se tu non accetti che io ti lavi i piedi non avrai parte con me». Cioè: «Tu non puoi avere nessuna comunione con me, né qui e ora, ma neanche nel Regno, neanche nella vita eterna». Gesù con quel gesto fonda la relazione essenziale tra lui e il discepolo, tra lui e il credente futuro, tra lui e il cristiano.
Il cristiano, ciascuno di noi, per entrare in relazione con Gesù dovrà lasciarsi lavare i piedi; dovrà accettare di vedere andare in frantumi l’immagine religiosa, teologica che ha di Dio, che ha del suo Inviato; dovrà accettare un amore che non si può misurare umanamente, ma che è un amore sempre preveniente, un amore, soprattutto, che non si deve meritare. Sì, perché ciascuno di noi, e questo è il grande ostacolo alla fede in Gesù Cristo, pensa di dover meritare l’amore. Qui davvero sta la differenza tra gli uomini che sono pronti a credere in Dio ma che sono lenti a credere in Gesù Cristo. Questa è la verità: Gesù ci dice che l’amore di Dio non va meritato. Gesù conosce questa difficoltà umana, per la quale l’uomo non arriva a credere, non arriva a credere in Cristo e non arriva a «credere all’amore», come dice con molta intelligenza spirituale Giovanni nella sua Prima lettera (cf. 1Gv 4,16). Per questo Gesù chiede solo che ci lasciamo lavare i piedi da lui e ci promette che capiremo più tardi il perché. Ecco allora l’exeghésato (Gv 1,18) attuato nella lavanda: Gesù che ci narra Dio, che ci narra l’amore di Dio, un amore che non dobbiamo meritare, un amore per il quale i piedi ci sono lavati anche quando noi non comprendiamo. Pietro capirà più tardi, dopo essere passato anche attraverso l’infedeltà. Anche Giuda si lascia lavare i piedi quella sera, ma non capirà; anzi, proprio perché Gesù gli ha lavato i piedi, proprio perché gli ha dato il boccone eucaristico, accresce la sua capacità di inimicizia fino a permettere che Satana si impadronisca completamente di lui (cf. Lc 22,3). Ecco allora il messaggio: lasciarsi lavare i piedi da Gesù Cristo. Qui noi decidiamo se la nostra fede è autenticamente cristiana, o se resta ancora nell’economia veterotestamentaria, o se è semplicemente una fede monoteista. Perché solo da una tale comprensione di Gesù, da una tale inversione dei ruoli noi decidiamo la comunione con Dio o il suo rifiuto.
Ma dopo il gesto e dopo il dialogo con Pietro, Giovanni ci parla di un dialogo avvenuto anche con i discepoli: «Avete capito quello che vi ho fatto?». Qui però ciò che è richiesto nella comprensione non riguarda l’identità di Gesù, ma riguarda il comportamento dei discepoli. Gesù instaura un’altra logica nelle sue parole: si passa così dal piano cristologico circa l’identità di Gesù, al piano etico, o – se si vuole – al piano ecclesiologico, al piano delle relazioni tra i discepoli, che è poi il piano della relazione tra i cristiani e tutti gli uomini che il cristiano decide semplicemente di incontrare, credenti o non credenti, cristiani o non cristiani. La lavanda dei piedi operata da Gesù è stata sì una rivelazione di chi Gesù è, ma qui diventa un esempio, un paradigma – potremmo dire nel nostro linguaggio – che viene proposto ai discepoli. Ecco come dalla fede scaturisce il fare, l’etica: «Dimmi che immagine tu hai di Dio e ti dirò come tu vivi da uomo. Se dunque tu credi che Dio, il Signore, può lavare i piedi a te, allora tu sarai capace, anzi sentirai la responsabilità e il dovere di lavare i piedi agli altri».
E non dimentico neppure qui, in questo passaggio dalla rivelazione all’etica, il racconto di Paolo, perché anche l’Apostolo ci fa passare dalla liturgia all’etica, da una celebrazione rituale a un entrare in quella logica del «per voi», smettendo di avere per sé il proprio. In ogni caso, dai gesti fatti da Gesù, lavanda o istituzione, scaturisce l’etica ecclesiale, il fare dei cristiani. L’interpretazione liturgica della chiesa romana ha privilegiato questo paradigma della lavanda; ha privilegiato, per così dire, il versante etico del gesto di Gesù e ha considerato la lavanda dei piedi come ministerium, come un compito necessario nella vita fraterna, a imitazione di Gesù che presiedendo la comunità ha lavato i piedi ai suoi. Ed è per questo che nella chiesa latina chi presiede la chiesa, chi presiede una comunità monastica lava i piedi agli altri. Ma va ricordato che l’interpretazione ambrosiana privilegia il significato cristologico e fa addirittura della lavanda un gesto battesimale; certo, con un significato penitenziale, che noi facciamo fatica a comprendere.
Ma è significativo che nella tradizione monastica, dove si è iniziata a vivere la lavanda, prima ancora che all’interno delle chiese, questo gesto sia un gesto che dice, rivela, racconta come i cristiani vivono l’amore. Mi ha sempre impressionato che nella Regola di Benedetto si ordina che l’abate versi l’acqua sulle mani degli ospiti che arrivano e, aiutato dalla comunità, lavi i piedi a tutti gli ospiti che giungono in monastero: «Pedes hospitibus omnibus tam abbas quam cuncta congregatio lavet» (RB 53,12-13). Pensate, se io dovessi lavare i piedi a tutti gli ospiti che arrivano qui… Però questo è significativo, perché non è solo un gesto di umiltà, di servizio verso l’ospite che nella tradizione monastica è comunque sacramento di Cristo (cf. RB 53,1), ma io credo voglia essere soprattutto una dimostrazione di umanità. Non a caso san Benedetto ha appena affermato: «Omnis ei exhibeatur humanitas», «si mostri all’ospite tutta l’umanità» (RB 53,9). Quasi a dire che la lavanda dei piedi è un cammino di umanizzazione per l’ospitante, abate e comunità monastica, ma anche per l’ospite che giunge, sconosciuto o conosciuto. Questo gesto della lavanda dei piedi, segno di un servizio all’altro, segno di umiliazione personale riguarda tutti: riguarda noi monaci e riguarda anche voi, amici e ospiti. È vero che nella liturgia lo compie solo chi presiede la chiesa o la comunità monastica, e certamente lo fa, se pur indegnamente, a nome di Cristo, per ricordare l’abbassamento del Kýrios, l’atteggiamento di Dio verso ciascuno; ma poi, secondo la volontà di Gesù, questo gesto dovrebbe essere compiuto dalla comunità tutta, dai cristiani tra di loro, dovrebbe essere un gesto reciproco.
Ora chi presiede lo compie, a nome del Signore, per raccontare chi era Gesù, come inveramento del suo esempio; ma lo compie anche per dire che il rapporto fraterno nella comunità cristiana è dato dal servizio dello schiavo o dall’affetto del discepolo verso il maestro, del figlio verso il padre. È un gesto dunque che noi reiteriamo perché Gesù ce lo ha chiesto, per il suo comando, alla stessa maniera con cui rifacciamo il gesto sul pane e sul vino. Che il Signore ci conceda di accettare questo suo gesto. E soprattutto ci conceda, attraverso questo gesto, di modificare la nostra immagine di Dio e di accogliere il suo amore: un amore che non dobbiamo meritare perché ci previene, un amore che non chiede neppure reciprocità, ma chiede solo di essere accolto e creduto. Perché noi cristiani dobbiamo essere, secondo la volontà di Gesù, nient’altro che quelli che credono all’amore (cf. 1Gv 4,16).
Omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose
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