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Omelia (04-03-2012): Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi

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Omelia (04-03-2012)

don Roberto Rossi

Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi

C’è un libro intitolato  » I monti della Bibbia ». Nella Bibbia la montagna è luogo della presenza di Dio, quindi della bellezza, del silenzio meditativo, della perfezione e della prova. Si fa così simbolo dell’elevazione dell’uomo.
Nella liturgia di oggi abbiamo m i racconti di ciò che avvenuto su due di questi monti, il monte Moria (1) e il Tabor.
E’ descritta l’intensa e durissima prova di Abramo che sale sul monte con il figlio Isacco per offrirlo al Signore che glielo ha chiesto in sacrificio. Ma al culmine di questa offerta della fede e del cuore, il Signore risparmia ad Abramo il suo figlio e procura un ariete da sacrificare al suo posto. Ma Dio non ha risparmiato il proprio Figlio e lo ha consegnato sul monte, sulla Croce per tutti noi.
E Gesù per preparare i suoi apostoli all’esperienza durissima del suo sacrificio, della sua morte, per non si scandalizzino, perché non si perdano, offre loro il momento sublime della trasfigurazione.
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì su un alto monte e si trasfigurò davanti a loro. Fece vedere e gustare la luce, la gloria, la potenza del suo essere Figlio si Dio. Lui che avrebbe accettato e offerto la passione e la morte, non era uno qualsiasi, era il Figlio dell’Altissimo, il Salvatore di tutti. Apparvero Mosè ed Elia a conversare con lui, della sua passione. Tutta la legge e i profeti avevano annunciato la missione del Figlio di Dio, del Salvatore, e ora ne davano testimonianza. Cioè la grande opera della salvezza del mondo sarebbe avvenuta nella passione e morte e risurrezione del Figlio di Dio.
Discesero e li invitò a non parlare a nessuno di quello che avevano visto e udito, finche non fosse risorto dai morti. Ma si chiedevano cosa volesse dire « risuscitare dai morti »:
I tre apostoli scelti sono gli stessi tre che chiamerà nell’orto degli ulivi durante la sua agonia e la sua intensa preghiera di affidamento al Padre.
Sul Tabor abbiamo Pietro che dice: « E’ bello per noi stare qui ». Ed è importante sperimentare la bellezza, la gioia, la profondità della preghiera che dà gioia al cuore.
Nell’orto degli ulivi non saranno cagaci di vegliare un’ora con lui, sperimenteranno tutta la loro debolezza e la fragilità del loro amore al Signore. Ma Gesù insegnerà che soprattutto nei momenti difficili è necessario affidarsi alla preghiera e alla volontà del Padre, che è sempre volontà di bene, anche se muore.
Sul Tabor Gesù si fa vedere n tutto lo splendore della sua gloria di Figlio di Dio, sul Calvario mostrerà tutta la passione e la morte come di un condannato. Ma occorre vivere nella speranza, che è la certezza che Dio ridà la vita. E’ la risurrezione che conta. Non lo capiranno ora gli apostoli, lo comprenderanno dopo. Anche noi non lo comprendiamo, lo comprenderemo. Questa è la fede: la fede di Abramo, la fede in Cristo risorto degli apostoli, la fede di ciascuno di noi.
(1) Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma (Ravasi).

DOMENICA 4 MARZO 2012 – II DOMENICA DI QUARESIMA

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DOMENICA 4 MARZO 2012 – II DOMENICA DI QUARESIMA

MESSA DEL GIORNO LINK:

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MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Rm 8,31b-34
Dio non ha risparmiato il proprio Figlio

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?
Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Esodo 13, 17 – 14, 9

Il cammino del popolo fino al Mare Rosso
Quando il faraone lasciò partire il popolo, Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: «Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto». Dio guidò il popolo per la strada del deserto verso il Mare Rosso. Gli Israeliti, ben armati uscivano dal paese d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto giurare solennemente gli Israeliti: «Dio, certo, verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accamparono a Etam, sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte.
Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon; di fronte ad esso vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: Vanno errando per il paese; il deserto li ha bloccati! Io renderò ostinato il cuore del faraone ed egli li inseguirà; io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che io sono il Signore!».
Essi fecero in tal modo. Quando fu riferito al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che abbiamo fatto, lasciando partire Israele, così che più non ci serva!».
Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati.
Prese seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone, re di Egitto, il quale inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare: tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito si trovarono presso Pi-Achirot, davanti a Baal-Zefon.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 51, 3-4. 8; PL 54, 310-311. 313)

La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo
Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore, che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo.
Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della santa Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato soggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel Capo.
Di questa gloria lo stesso Signore, parlando della maestà della sua seconda venuta, aveva detto: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13, 43). La stessa cosa affermava anche l’apostolo Paolo dicendo: «Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8, 18). In un altro passo dice ancora: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 3. 4).
Ma, per confermare gli apostoli nella fede e per portarli ad una conoscenza perfetta, si ebbe in quel miracolo un altro insegnamento. Infatti Mosè ed Elia, cioè la legge e i profeti, apparvero a parlare con il Signore, perché in quella presenza di cinque persone di adempisse esattamente quanto è detto: «Ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni» (Mt 18, 16).
Che cosa c’è di più stabile, di più saldo di questa parola, alla cui proclamazione si uniscono in perfetto accordo le voci dell’Antico e del Nuovo Testamento e, con la dottrina evangelica, concorrono i documenti delle antiche testimonianze?
Le pagine dell’uno e dell’altro Testamento si trovano vicendevolmente concordi, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo viene rivelato dallo splendore della gloria presente. Perché, come dice san Giovanni: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 17). In lui si sono compiute le promesse delle figure profetiche e ha trovato attuazione il senso dei precetti legali: la sua presenza dimostra vere le profezie e la grazia rende possibile l’osservanza dei comandamenti.
All’annunzio del Vangelo si rinvigorisca dunque la fede di voi tutti, e nessuno si vergogni della croce di Cristo, per mezzo della quale è stato redento il mondo.
Nessuno esiti a soffrire per la giustizia, nessuno dubiti di ricevere la ricompensa promessa, perché attraverso la fatica si passa al riposo e attraverso la morte si giunge alla vita. Avendo egli assunto le debolezze della nostra condizione, anche noi, se persevereremo nella confessione e nell’amore di lui, riporteremo la sua stessa vittoria e conseguiremo il premio promesso.
Quindi, sia per osservare i comandamenti, sia per sopportare le contrarietà, risuoni sempre alle nostre orecchie la voce del Padre, che dice: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5).

The tabernacle in the Sinai desert

The tabernacle in the Sinai desert dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 1 mars, 2012 |Pas de commentaires »

PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO (PAPA PAOLO VI, 1975)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1975/documents/hf_p-vi_hom_19750212_it.html

PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

12 febbraio 1975  

Eccoci Fratelli, ancora una volta, ed in circostanze speciali, quali sono quelle dell’Anno Santo, che stiamo celebrando, al principio della quaresima; in capite jeiunii, come dicevano i nostri antichi maestri di spirito. Nulla di nuovo; ma procuriamo di capire, e poi anche di fare. La pedagogia della Chiesa attribuisce grande importanza a questo periodo dell’anno liturgico. Quaresima è, si può dire, sinonimo di penitenza. La prima questione, che sorge negli animi, anche in quelli fedeli alla Chiesa, al suo spirito, ai suoi riti, si domanda se sia oggi giustificata la penitenza. Non è castigo la penitenza? non è tristezza, non è mortificazione, non è rinuncia, non è frustrazione? perché la religione cristiana deve presentarsi con questo aspetto, punto simpatico? come predicare all’uomo moderno, ch’è tutto teso alla conquista e al godimento della vita, una prassi penitenziale, che esula da ogni sua concezione, da ogni sua aspirazione, e, possiamo aggiungere, dalla sua pratica possibilità? chi può oggi digiunare, come la Chiesa fino a ieri prescriveva severamente di fare, e come, parzialmente almeno, ancora adesso, prescrive? Ai giovani specialmente, perché non presentare, fin da principio, la vita cristiana come una pienezza, una gioia, una felicità? Il cristianesimo, nella sua essenza, non è felicità? Non ha forse detto Gesù, proprio Gesù: «Io sono venuto affinché (gli uomini) abbiano la vita, e l’abbiano più abbondantemente»? (Io. 10, 10)
Un missionario, venuto in questi giorni a visitarci, ci diceva dei felici risultati d’una sua iniziativa, intitolata «l’apostolato della gioia»; non è questa un’autentica e sapiente interpretazione del Vangelo, il messaggio della buona novella? Così pure, e con altra voce, un autorevole Uomo di Chiesa si domandava recentemente se non sia oggi un errore, almeno di metodo, quello della tradizione ecclesiale di presentare l’adesione alla fede, e allo stile di vita ch’essa comporta, sotto condizione di pratiche ascetiche restrittive, di osservanze di norme di pensiero e di costume molto esigenti: perché non rendere facile e gradevole l’appartenenza alla Chiesa, allargando e spianando la via, che ne qualifica il cammino e ne assicura la mèta? Non saremmo noi colpevoli di rendere difficile e complicato l’incontro degli uomini del nostro tempo con la religione? Non sarebbe venuta l’ora di rendere dunque «permissiva», come oggi si dice, l’alleanza del mondo con la professione cristiana? il Concilio non ci ha elargito questa nuova concezione del cristianesimo contemporaneo? un cristianesimo facile, senza precetti esigenti e molesti, un cristianesimo moderno? e se questo vuole sopravvivere alle condizioni della vita contemporanea, non deve forse abolire i freni della sua vecchia concezione penitenziale?
Ragionamenti che contengono certamente una parte di verità; ma isolati dal disegno organico e completo della concezione cristiana sono incompleti, sono capziosi, e possono generare gravi errori; possono deformare e vanificare il Vangelo; il più grande di tutti gli errori di questo genere sarebbe quello di togliere la croce dal centro della fede e della vita cristiana. Ricordate la parola di S. Paolo: «che non sia resa vana la Croce di Cristo»! (1 Cor. 1, 17) vana nel suo mistero redentore, e vana nel suo insegnamento morale; infatti ricordiamo sempre: non solo Gesù porta la croce, ma anche i suoi seguaci con lui devono portarla: «se qualcuno vuol venire dietro a me, Egli disse, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, e mi segua» (Matth. 16, 24). E questo, perché?
S. Agostino, in un suo sermone circa l’utilità di fare penitenza, diceva: «quanto sia utile e necessaria la medicina della penitenza, assai facilmente lo comprendono gli uomini, che si ricordano d’essere uomini» (S. AUGUSTINI Serm. 351, 1; PL 39, 1535; et Serm. 352; ibid. 1539 ss). Ripetiamo: perché questo? perché l’uomo è un essere spiritualmente e moralmente malato; ha bisogno della medicina della penitenza, cioè ha bisogno di riparazione; lo sviluppo e il funzionamento delle sue facoltà naturali non sono regolari e ordinati; il suo comportamento, in seguito al peccato originale, è facilmente sbagliato; lasciato a se stesso, produce atti contrari al dovere e genera stati d’animo disordinati; occorrerà per l’uomo sano, per l’uomo «nuovo» secondo la concezione cristiana, una «conversione», cioè un cambiamento di spirito che chiamiamo penitenza, la quale predispone alla fede e alla grazia (Cfr. DENZ.-SCHÖN. 1525-1530), e esige da noi volontà, contrizione, sforzo, perseveranza; esige cioè una penitenza duplice, sacramentale e morale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 84.90).
Oggi la liturgia parla principalmente di quest’ultima, la penitenza morale, e la drammatizza con un rito assai espressivo, con la imposizione delle ceneri sul capo del cristiano, quasi per disilluderlo del valore unico e supremo della vita presente, in cui noi facilmente poniamo le nostre cure e le nostre speranze. È un errore fatale di calcolo il nostro, se noi poniamo la nostra fiducia nei beni propri dell’ordine temporale, la durata della nostra esistenza presente, il benessere economico e edonistico, la fiducia nella ricchezza più che nella virtù, il materialismo ideologico e pratico, che sembra comprendere e risolvere tutti i problemi personali, sociali e politici, verso i quali si vorrebbe da molti rivolgere con priorità prevalente la mentalità e l’attività dell’uomo finalmente edotto circa la vera, ma inesatta e incompleta, filosofia della vita. Non udiamo noi forse in questo momento la severa, ma sapiente parola di Cristo rivolta all’homo oeconomicus, che aveva posto tutti i suoi progetti e tutta la sua fortuna nell’«abbondanza dei beni posseduti», senza riflettere all’inanità dei suoi preventivi: «Stolto, questa notte stessa l’anima tua (cioè la tua esistenza temporale), ti sarà ridomandata (cioè dalla morte imprevista e improvvisa); e quanto hai preparato di chi sarà? così, aggiunge il Signore, è chi tesoreggia per sé, e non arricchisce presso Dio» (Luc. 12, 20-21).
Così che questa radicale svalutazione dei beni propri della concezione materialista della vita, propria della visione penitenziale della sapienza cristiana, non si risolve in un disperato pessimismo, ma in un orientamento finalistico superiore e migliore della nostra esistenza, il possesso finale, desiderato e meritato, della pienezza della nostra vita immortale nel Dio della suprema beatitudine. La mèta escatologica, cioè ultima ed ultra terrena, deve governare le mète temporali, nelle quali siamo impegnati; e ciò non solo a riguardo dei beni economici, ma d’ogni altro bene di questo nostro pellegrinaggio nel tempo. Siamo pellegrini, siamo di passaggio nella vicenda faticosa o fortunata che sia nel secolo del tempo; questa è la coscienza della penitenza, che non ci deprime nella ricerca della giustizia e dell’ordine del nostro mondo sperimentale, ma piuttosto ci stimola a compiervi la missione che gli è propria: «così conviene, dice il Signore, che noi adempiamo ogni giustizia» (Matth. 3, 15), ma con lo spirito libero e teso verso quel «regno di Dio», che solo vale la pena d’essere sopra ogni cosa desiderato e conquistato, e che i «Poveri di spirito» sanno a loro primi destinato. In quest’atmosfera di pensieri e di propositi c’introduce la quaresima, con la sua metánoia, cioè con la sua conversione. Accettiamola con fiducia e con coraggio; sappiamo dove ci guida: al mistero pasquale. Sia così, con la nostra Benedizione Apostolica.

La donna valorizzata nell’opera di S. Luca per merito di Gesù il Signore sotto l’azione dello Spirito Santo (anche Paolo)

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La donna valorizzata nell’opera di S. Luca per merito di Gesù il Signore sotto l’azione dello Spirito Santo

(anche Paolo)

Maria Luisa Rigato

Introduzione

L’evento della Pentecoste cristiana è uno dei temi più commentati e dipinti della cristianità. Essendo considerato l’evento originario della chiesa (At 11,15: «in principio»), è comunque sempre pieno di suggestione e oggetto di rinnovata interpretazione. Anziché definire le comunità cristiane delle origini come post-pasquali, in riferimento alla risurrezione del Signore Gesù, sarebbe più preciso definirle post-pentecostali, includendovi anche l’azione dello Spirito Santo, ossia dell’Inviato-dell’Apostolo da parte del Risorto che afferma[1]: «Io invio la Promessa del Padre mio su di voi» (Lc 24,49). Si noti l’enfatico «Io», grammaticalmente superfluo.
All’inizio del terzo millennio dalla venuta del Signore Gesù è forse (?) giunto il tempo di chiudere la fase della rivendicazione femminile[2], tipica dell’ultimo quarto del ventesimo secolo e frutto saporoso del concilio Vaticano II, per leggere e comprendere titoli e/o appellativi ministeriali presenti negli scritti del Nuovo Testamento – riferiti per secoli solamente agli uomini – finalmente e semplicemente in maniera inclusiva, ossia riferiti a discepoli donne e uomini, anche se grammaticalmente al maschile. Possa davvero adempiersi l’augurio-manifesto verosimilmente già pre-paolino: «né donna separatamente da uomo né uomo separatamente da donna, nel Signore» (1Cor 11,11), in un contesto non matrimoniale, ma liturgico. La prevaricazione dell’uno sull’altra e viceversa non è evangelica.
Le pagine seguenti sono una rilettura di alcuni dettagli della narrazione pentecostale lucana, per ri-scoprire una volta di più l’aspetto inclusivo – in questo caso nell’opera lucana (Vangelo secondo Luca e Atti degli Apostoli) –, ossia la graduale comprensione tra i discepoli del «Signore Gesù»[3] circa la pari dignità tra uomini e donne, capaci queste di pari responsabilità nella chiesa, anche a livello dei carismi di profezia, di invio (= apostolato), di testimonianza, di evangelizzazione (attiva), in seguito al battesimo in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,16 = Mt 3,11; senza «fuoco»: Mc 1,8; Gv 1,33; At 1,5).
Procedo pertanto dalla precomprensione, fondata sullo studio dei testi, che nella chiesa delle origini, e già in embrione nella sequela di Gesù, si possa o si debba parlare di inclusività;detto diversamente, i titoli al maschile riguardano uomini e donne. Pensiamo ad esempio al ben noto passo di Rm 16,1, dove Paolo in prima istanza raccomanda «Febe, la nostra sorella, che è anche diacono della chiesa in Cencre» (il porto orientale di Corinto). «Diacono» – come il nostro «ministro» – è dunque un titolo maschile adoperato da Paolo qui per una donna, ossia in maniera inclusiva.
Tra i discepoli del Signore Gesù si possono distinguere «i Dodici», poi la cerchia larga dei discepoli-fratelli, donne e uomini, poi – per effetto speciale della Pentecoste – un gruppo più ristretto di discepoli-apostoli, donne e uomini. Quanto a «i Dodici», – in cima alla piramide o alla base della medesima – anch’essi discepoli-apostoli[4], ma solo uomini, rappresentano nella chiesa i capostipiti, ovviamente maschi, delle dodici tribù d’Israele. Essi «nel regno» di Gesù «siederanno su troni giudicando le dodici tribù d’Israele» (Lc 22,30).
È vero, oggi si tratta spesso di cercare puntigliosamente, tra le righe, affermazioni, indicazioni, indizi, che alla fine si trovano come delle perle preziose nascoste a conferma e supporto di una interpretazione inclusiva! Ritengo comunque che qui si tratti di un nostro problema, non di un problema per i primi lettori degli scritti del Nuovo Testamento. Per essi l’inclusività era presumibilmente ovvia, per cui quando si leggeva nel testo «discepoli» questo appellativo includeva donne e uomini. Prima della riforma liturgica del Vaticano II la proclamazione del Vangelo durante la Messa iniziava spesso con la frase: «Il Signore disse ai suoi discepoli». Nella comprensione dei cristiani e nelle prediche questa espressione era l’esatto equivalente di: «Il Signore disse ai suoi apostoli, cioè ai Dodici»! È difficile superare tanti secoli di lettura ideologica al maschile!
Le analisi lessicali del testo greco ed ebraico sono giustificate dal presupposto che il vocabolario e la forma letteraria del testo sono già il contenuto del testo stesso.

Il racconto di Pentecoste

Ecco una traduzione la più letterale possibile di At 2,1-4:
1E nel compiersi il giorno della Pentecoste, erano tutti insieme nello stesso posto. 2Improvvisamente ci fu un suono come di soffio irruento violento e riempì l’intera casa dove erano seduti. 3E apparvero ad essi lingue divise come di fuoco e sedette/stette sopra ciascuno di essi 4e tutti furono ricolmi di Spirito Santo e cominciarono a parlare con altre lingue così come lo Spirito dava ad essi di esprimersi.
Chi sono i «tutti» presenti all’effusione dello Spirito Santo? La prima domanda che esige una risposta è proprio questa: chi sono i «tutti» di At 2,1.4, beneficiari dell’effusione dello Spirito Santo? Nei commentari si trovano tre diverse posizioni:

-     sono soltanto i Dodici apostoli;
-     sono gli Undici assieme al gruppo di donne e dei fratelli di Gesù elencati in At 1,13, ma non i centoventi di At 1,15;
-     sono la totalità dei presenti dichiarata per ultima, e cioè i centoventi di At 1,15, inclusi i nominati in At 1,13:«Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone lo zelota, Giuda di Giacomo, insieme a[lle] donne e a Maria la Madre di Gesù e ai fratelli [consanguinei] di Lui».

Per motivi di spazio bisogna qui rinunciare ad un’analisi minuziosa[5] dei passi significativi per l’argomento in esame in cui troviamo in Luca il termine «tutti». Riassumo pertanto sinteticamente.
Siccome letterariamente e canonicamente gli Atti degli Apostoli sono la continuazione ideale del Vangelo secondo Luca, non possiamo prescindere da esso. Dunque le persone presenti nella duplice narrazione lucana dell’ascensione del Signore Gesù e nel contesto narrativo immediato sono le medesime, sia nel Vangelo (Lc 24,33-53) sia negli Atti (At 1,1-14). In Lc 24,33 si tratta dei «due» ritornati da Emmaus, tra cui Cleofa, e «gli Undici e quelli con essi»; chi sono «quelli con essi»? Sono le stesse persone, narrativamente parlando, nominate da Luca all’inizio del capitolo 24: le donne Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo e le rimanenti con esse (Lc 24,10). Queste, avendo vissuta l’esperienza sconvolgente presso il sepolcro di uomini-angeli (Lc 24,4-23) che danno loro l’annuncio della risurrezione di Gesù, «annunziarono tutte queste cose agli Undici e a tutti i rimanenti» (Lc 24,9). Questa proposizione è letterariamente parallela con: «dicevano/ripetevano queste cose agli apostoli» (Lc 24,10), nel senso che anche «i rimanenti» sono apostoli accanto agli Undici. Anche in At 2,37 ricorre una formula analoga: «Pietro e i rimanenti apostoli» più ampia di «Pietro con gli Undici» (At 2,14). Nel capitolo 24 del Vangelo, Luca non nomina né la Madre di Gesù, né i parenti di lui: lo farà in At 1,14.
Nel prologo degli Atti, in prima battuta Gesù risorto dà disposizioni «agli apostoli [...] che si era scelto» (At 1,2). Siccome Luca fa un preciso riferimento al suo «primo libro» (At 1,1), e siccome in Lc 6,13 ricorre lo stesso termine riferito a Gesù che «di tra i discepoli si scelse dodici e li denominò anche apostoli», viene spontanea l’identificazione degli apostoli di At 1,2 con «i Dodici», rispettivamente «gli Undici» perché nel frattempo Giuda era morto. In At 1,3 «gli Undici» non sono più soli, anche se narrativamente Luca ce lo fa sapere soltanto in At 1,14 dove gli Undici sono «con donne e parenti stretti», e in occasione dell’elezione di Mattia (At 1,21-26). Nel primo caso si tratta di un numero relativamente ristretto di persone, comunque individuate e individuabili. L’aver ricordato esplicitamente la presenza di «donne», tra cui Maria la Madre di Gesù», è, a mio avviso, estremamente importante.
In At 1,24 Luca allarga l’idea di «tutti». È vero che il Signore è conoscitore del cuore di tutti in senso assoluto, ma qui si tratta del gruppo che a lui si rivolge in preghiera, ossia i «circa centoventi fratelli» (At 1,15). Per rimpiazzare Giuda, deve trattarsi di uno presente alle vicende «del Signore Gesù, incominciando dal battesimo di Giovanni fino» a quando «fu assunto di tra voi/noi» e vengono proposti due. Viene eletto tramite la sorte il dodicesimo. Deve comunque trattarsi di uno degli uomini (un essere maschile) del gruppo, «testimone della Sua risurrezione con noi uno di questi».
Mattia[6] viene annoverato «insieme agli Undici apostoli» dopo una preghiera rivolta al Signore di scegliere  tra i due (At 1,11.22.24).
In At 2,1 i «tutti» riuniti per l’evento della Pentecoste sono dunque in primo luogo il gruppo di At 1,14. In secondo luogo anche i circa centoventi fratelli (At 1,15), tenendo presente che «circa» non esprime un numero preciso, ma un gruppo ragguardevole multiplo dei Dodici. Se così non fosse, bisognerebbe escludere sia la Madre di Gesù sia il neoeletto Mattia! Questi «tutti» (At 2,4.11) furono ricolmi di Spirito Santo e incominciarono a parlare un linguaggio ispirato: «con altre lingue». Oggetto del parlare ispirato di tutti, non solo dei Dodici, sono «le grandi opere di Dio».
In At 2,7 «tutti questi che parlano» sono definiti «Galilei». Tra essi possiamo pensare ad una parte di «tutti i noti/conoscenti» a/di Gesù presenti alla crocifissione, uomini e donne, ma da lontano (Lc 23,49) e soprattutto «donne alla sequela (che seguono con) di lui dalla Galilea vedenti queste cose».
Non sarebbe giusto glissare sull’evidente enfasi lucana a proposito dei due participi al femminile «quelle che seguono con» e «quelle che hanno visto». Non soltanto queste donne vengono definite «seguaci» di Gesù, ma anche testimoni «oculari». Luca ritorna ancora sull’argomento con altri due participi al femminile e un verbo di visione al momento della sepoltura di Gesù. Rimane sempre la difficoltà di tradurre dal greco queste forme verbali: «Le donne seguaci però, le quali erano venute con lui dalla Galilea osservarono il sepolcro e come fu deposto il suo corpo» (Lc 23,55). Di queste donne i «due» sulla via verso Emmaus riferiranno a Gesù risorto – come se non lo sapesse! – «che esse vanno dicendo anche di aver visto una visone di angeli» (Lc 24,23). Difficile non pensare ad un richiamo a Lc 1,2: «come hanno trasmesso a noi coloro che fin dal principio hanno visto con i propri occhi e divennero ministri della parola».
Quanto ai «galilei» di At 2,7 – limitatamente ai sudditi della tetrarchia di Erode Antipa (Lc 3,1) – possiamo almeno pensare, quanto alle donne, a Maria di Magdala, a Giovanna moglie di Cusa amministratore di Erode, a Susanna (Lc 8,2-3; per le prime due anche Lc 24,10) e alle «molte altre le quali[7] li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). La struttura grammaticale di Lc 8,1.3 è particolarmente intrigante e permette la lettura seguente: Gesù proclama ed evangelizza il regno di Dio ««ed i Dodici con lui e alcune donne, che erano state guarite [...] e molte altre». Le «alcune donne» non sono le «molte altre». Così come tra i discepoli vi era un gruppo ristretto di dodici «con Gesù», analogamente tra le donne vi era un gruppetto ristretto di tre[8] (un quarto di dodici) «con Gesù», quasi a rappresentare le madri d’Israele – Sara (Rm 4,19; Rm 9,9; Eb 11,11; 1Pt 3,6), Rebecca (Rm 9,10), Rachele (Mt 2,18) –. L’imperativo «ricordatevi» (Lc 24,6c) riguarda le donne «galilee» in maniera del tutto particolare. I due messaggeri [angeli] ingiungono alle donne di ricordarsi la profezia di Gesù sulla sua morte-risurrezione che egli aveva fatto proprio a loro, nella Galilea. I riscontri letterari conducono alle predizioni fatte ai Dodici in particolare, e ai discepoli in generale (Lc 18,31-34; Lc 9,22). Per Luca dunque le donne erano presenti in entrambi i gruppi.
Altre seguaci galilee sono probabilmente la suocera di Simon Pietro che «li serviva» (Lc 4,39); Maria di (= moglie di) Giacomo [il piccolo cf. Mc 15,40] e «le rimanenti con esse» (Lc 24,10), definite dai «due di tra essi» (Lc 24,13) «alcune donne di tra noi» (Lc 24,22). Nella redazione lucana il villaggio di Marta e Maria è anonimo (Lc 10,38). Vuole Luca forse annoverare tra le donne «galilee» anche le due sorelle discepole?
Quanto ai fratelli-parenti possiamo pensare a Giacomo[9] consanguineo di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Gal 1,19), a Maria di (= moglie di) Joses (Mc 15,47), a Cleofa (Lc 24,18), verosimilmente il Clopa giovanneo (Gv 19,25) e ad altri della famiglia di Maria e/o di Giuseppe, non nomini esplicitamente da Luca.
Tra i non-Galilei possiamo annoverare i padroni di casa: «l’intera casa» (At 2,2) ed altri. Tra gli apostoli pentecostali – come mi piace chiamarli – vanno certamente annoverati Barnaba, Giovanni evangelista (distinto dal figlio di Zebedeo), che ho definito «ultimo dei prestigiosi Presbiteri di Gerusalemme, discepolo del Signore Gesù»[10], l’ex-cieco nato giovanneo (Gv 9,7.38), Maria di Magdala; Andronico e Giunia, e infine lo stesso Saulo-Paolo. Egli sembra voler fornire un identikit degli apostoli della prima generazione in due contesti diversi di autodifesa del suo essere apostolo: essere liberi (non schiavi), aver veduto Gesù il Signore risorto, essere ingaggiati da Lui e pere Lui, essere Ebrei (ossia di lingua ebraica), di stirpe israelitica, discendenti di Abramo (1Cor 9,1-2; 2Cor 11,22-23).
Quanto ad essere «testimoni» della risurrezione di Gesù e alla «missione» post-pentecostale, per motivi di spazio rimando al mio studio indicato nella Bibliografia.

Conclusione

Possiamo vedere un’analogia nella presentazione lucana di due eventi originari: l’inizio apostolico-profetico di Gesù e l’inizio apostolico-profetico della chiesa. Detto diversamente, «Gesù di Nazaret, come Dio lo unse di Spirito Santo e potenza» (At 10,37-38; At 4,27; Lc 4,18) e l’essere battezzati in Spirito Santo e fuoco dei discepoli (Lc 3,16) per essere apostoli-profeti-testimoni del Risorto. Per il primo evento Luca cita esplicitamente Isaia (Lc 4,18 = Is 61,1-2). Per il secondo Luca cita esplicitamente Gioele: «profeteranno i vostri figli e le vostre figlie [...] i miei servi e le mie serve» (At 2,17-18 = Gl 3,1-2). Non si può inoltre negare la vicinanza impressionante di Is 6,5-8 ad At 2,3-4. Alla luce di questi passi profetici e ad un’attenta rilettura del racconto lucano sulla Pentecoste emerge l’inclusività di tre titoli carismatico-ministeriali, nel senso che ne furono investiti uomini e donne presenti, i «tutti» di At 1,15, intimamente legati al Maestro e rappresentativi di tutta la chiesa di allora e di adesso. Nella comunità pentecostale non viene sminuito il ruolo dei Dodici ma si allarga la cerchia degli apostoli e dei testimoni, con caratteristiche ben precise. I presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza al/del Signore Gesù; sono cioè costituiti apostoli-profeti-testimoni pentecostali della sua risurrezione.
Aver rappresentato per secoli pittoricamente l’evento della Pentecoste come se riguardasse soltanto «gli Undici»/«i Dodici» e Maria la Madre di Gesù, con lo Spirito Santo discendente come una colomba, è dunque un duplice falso esegetico e teologico, perché secondo la narrazione lucana le persone presenti erano in numero maggiore e di «colomba» non c’è l’ombra. Se c’era Maria, c’erano anche gli altri «tutti»!
Possiamo allora chiederci come mai attraverso i secoli i carismi ministeriali ri-divennero sempre più esclusivi, riservati cioè al genere maschile. Mentre l’inclusività del titolo di «profeta» non ha creato problema perché si trova al femminile sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’inclusività dei titoli ministeriali di apostoli e testimoni ha rappresentato un tabù nella chiesa dei secoli successivi a quello delle origini, forse per un fenomeno di normalizzazione restaurata. La comunità originaria, nonostante i condizionamenti culturali di diversa natura, fece uno sforzo enorme sotto l’azione dello Spirito Santo, assecondando una precisa volontà del Signore risorto.
Insieme a Luca, anche Giovanni, alla sua maniera, narra della promessa e dell’effusione dello Spirito Santo. Parafrasando Gv 14,26 con Gv 16,13 e Gv 20,22: il Consolatore, lo Spirito Santo, ripresentò alla memoria dei discepoli quanto il Signore aveva detto. Egli, «lo Spirito della Verità» ossia lo Spirito di Gesù rivelatore introdusse i discepoli ad una ulteriore verità che prima non erano neppure in grado di sopportare, dopo che il Signore risorto «alitò e disse loro ricevete Spirito Santo». Nel «discorso del congedo», quando Gesù prega non soltanto per «questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in» lui (Gv 17,20), chiede al Padre «che tutti siano una cosa sola come Noi» (Gv 17,11.21.22.23). In questa preghiera del Gesù giovanneo possiamo tranquillamente collocare anche, e forse prima di tutto, l’istanza dell’unità tra discepole e discepoli.

Maria-Luisa Rigato

Sommario
È giunto il tempo di comprendere finalmente e semplicemente tutti gli appellativi ministeriali del Nuovo Testamento in maniera inclusiva, ossia donne e uomini inclusi. Senza nulla togliere all’importanza dei «Dodici» apostoli, da tutta la narrazione lucana sulla Pentecoste (At 2,1-13, ­ messa anche a confronto con Is 6,5-8) ­ emerge che «gli altri» non costituiscono una cornice decorativa per i «Dodici», ma «tutti» i presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito Santo una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza per Gesù il Signore: tutti diventanoapostoli-profeti-testimonidella sua risurrezione.

Danzare la Parola

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_0102/03%20-%20Danzare%20la%20Parola.htm

Danzare la Parola

Di Marco Dania

Assistente diocesano della pastorale giovanile

Nella società attuale, sempre più, si ravvisa il bisogno di riscopertine/coprire appieno la dimensione spirituale, poiché lo sviluppo del materialismo e del consumismo hanno fatto perdere il senso più vero della vita. L’uomo postindustriale, affetto da una profonda crisi d’identità, avverte l’urgenza di ritrovare la propria unità interiore e riscopertine/coprire la corporeità come luogo delle relazioni col mondo e con Dio. A tale proposito la danza sacra può rivestire un ruolo determinante, perché attraverso di essa l’uomo cerca la comunione con il divino ed esprime corporalmente la sua spiritualità.
Ma può esistere una forma di danza sacra cristiana che sia coerente con la nostra cultura occidentale? Per dare una risposta è necessario ricorrere ad un’indagine biblica e storica e verificare poi l’attendibilità delle esperienze attuali. Non è possibile, infatti, prescindere, nell’intento di ricercare una forma di danza sacra valida per l’oggi, da un’analisi di questo tipo, attraverso la quale poter scopertine/coprire le radici culturali e religiose di tale fenomeno.

Irradiare la Bellezza
«Nel contesto del nostro mondo occidentale, caratterizzato da demotivazioni e stanchezze – afferma il cardinal Martini -… che cosa ci può dare un colpo d’ala, un cambiamento di marcia, un orizzonte di gioia e di speranza? Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure per la nostra epoca disincantata parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche… Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio».
Spesso la vita di fede è stata concepita come l’osservanza di alcuni obblighi, mentre è dono dello Spirito, rappresentato biblicamente con immagini vive: fuoco, acqua, vento, dono che gratuitamente si riceve e solo gratuitamente si offre. La Chiesa, attraverso l’arte, può rendere non solo percepibile, ma anche affascinante il mondo dell’invisibile. La bellezza, infatti, come sostiene Giovanni Paolo II: «è richiamo al trascendente. È invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!” ».
Nell’ambito di questa ricerca del Bello con la B maiuscola, nel tentativo di rendere in qualche modo visibile la realtà futura del paradiso, la sua armonia e la sua gioia, anche la danza sacra riveste un ruolo determinante, come autentica forma di trasfigurazione dell’uomo, come apertura al trascendente, come proposta di preghiera contemplativa.

La danza sacra nel mondo biblico
Presso gli Ebrei la danza è una viva manifestazione della vitalità, dell’esultanza e della festa di un popolo, che vive i rapporti in modo naturale, in cui tutte le dimensioni umane sono perfettamente integrate: istinti, mente, cuore, spirito. Nelle feste più importanti d’Israele la danza riveste un ruolo determinante. Pur se non codificata, fa parte delle cerimonie ufficiali con cui tutto il popolo esprime la propria lode ed il riferimento al ruolo delle danzatrici nelle processioni, in alcuni passi,  è molto esplicito.
Le danze ebraiche trovano la loro origine nelle danze orientali tipiche d’altri popoli che ne fanno anche un uso espressamente rituale, idolatrico e propiziatorio. Ma quando gli Ebrei se ne appropriano lo fanno con profondo senso del sacro e con l’intento di rivolgersi unicamente a Jhwh. La danza di ringraziamento di Maria per l’attraversata del mar Rosso, le altre danze con le quali si celebrava la vittoria, ritenendone Jhwh l’artefice, ed in particolare la danza di lode di Davide sono una manifestazione del culto vitale del popolo verso Dio. Davide danzando, non solo esprime gioiosamente col suo talento artistico la lode al Signore, ma esercita anche la sua funzione regale, sacerdotale e profetica.  La sua danza è una danza processionale per l’intronizzazione dell’Arca e quindi un’autentica danza sacra, cultuale, religiosa e rituale. Anche nel libro dei Salmi, i diversi riferimenti alla danza, ci fanno supporre l’uso processionale liturgico.
L’immagine della danza, infine, è usata anche in senso metaforico per designare sia la gioia dei tempi messianici (cfr. Ger 31, 13), sia il rapporto trinitario che intercorre nella creazione (cfr. Pr 8, 27-31). La Bibbia, quindi, ci conferisce diverse informazioni sull’effettivo utilizzo della danza in senso sacro da parte del popolo ebraico e dei suoi maggiori esponenti, ed esprime, simbolicamente con essa, anche la profondità delle relazioni tra le persone divine.     

Nella storia della Chiesa
Non abbiamo documenti che attestino, nei primi secoli, la presenza della danza nelle celebrazioni liturgiche, sappiamo, però, che era utilizzata nei riti di alcune sette ed in occasione di determinate feste, in onore dei santi martiri.
I Padri della Chiesa esprimono, attraverso l’immagine della danza celeste ed il ricorso al commento di alcuni brani biblici, la realtà del paradiso ed invitano i fedeli a tendere verso  la  loro destinazione futura, danzando nello Spirito. Tra essi Ambrogio afferma che il vero cristiano può danzare di fronte a Dio, come Davide, senza temere di vergognarsi, ma con l’attiva partecipazione dell’anima e del corpo.
Nel medioevo e nei secoli successivi si sviluppa un’ostilità dell’autorità della Chiesa nei confronti della danza, dovuta da un lato agli abusi del popolo e dall’altro alla progressiva diffidenza della Chiesa nei confronti della corporeità. Si riscontrano alcune influenze pagane per via di usi derivati dal mondo romano e germanico, che raggiungono il culmine col fenomeno della danza dei folli. Parallelamente si diffondono anche la pratica delle danze macabre e della danza, come preghiera individuale. Diversi, inoltre, sono in quest’epoca gli inni sacri che invitano i cristiani alla danza.
Nel periodo che va dal rinascimento al XIX sec. si sviluppano da un lato il fenomeno delle danze frenetiche di gruppo, dovute secondo alcuni autori all’estasi, per altri a malattie, dall’altro quello delle danze del clero, che rivestono carattere paraliturgico ed hanno un grande valore simbolico. Sono eseguite nei chiostri in occasione delle feste più importanti, senza regole coreografiche ed accompagnate da canti sacri. Nell’opera dei gesuiti, e dei francescani, inoltre, la danza riveste una funzione educativa o didattica, come forma di rappresentazione della fede.
Quasi tutte le manifestazioni, però, si sono perse nell’arco dei secoli, per via del giudizio negativo da parte dell’autorità ecclesiastica, tranne la processione dei santi danzanti di Echternach in Lussemburgo, in occasione della festa di S. Willebrod e il Baile de los seises nella cattedrale di Siviglia in Spagna, per la festa del Corpus Domini. Possiamo ritenere, infine, il fenomeno della danza spirituale, che si manifesta in persone ispirate come unione mistica, quello più interessante. Il suo carattere è spontaneo e spesso le persone che assistono sono anch’esse coinvolte nella preghiera.  Lungo la storia della Chiesa, perciò, anche se non esiste una vera e propria danza liturgica, la pratica della danza sacra è diffusa e complessa.

Alcune nuove esperienze
All’inizio del ‘900, è avvenuta una vera e propria rivoluzione nel mondo della danza che ha influenzato in modo determinante quasi tutte le esperienze di danza sacra sorte negli anni successivi,  in particolare negli Stati Uniti. I maggiori esponenti di questa corrente sono: I. Duncan, R. Saint Denis e T. Shawn, D. Humphrey e M. Graham, R. Laban e M. Bejart, ciascuno dei quali o si è occupato direttamente di tematiche religiose, o ha inteso recuperare una dimensione più ricca e profonda della danza come autentica forma di comunicazione col divino.
Tra i diversi pensatori americani che si sono occupati di danza sacra H. Cox è sicuramente il più conosciuto. Egli sottolinea l’importanza del recupero della dimensione festiva della fede, considera la danza un modo di pensare col corpo e ritiene necessario valorizzare la dimensione della corporeità nel culto. In questa direzione procede il Movimento Pentecostale che nei propri incontri di preghiera favorisce l’espressione spontanea, ricorrendo all’uso di gesti e di danze improvvisate, che manifestano la presenza del dono dello Spirito. Molteplici sono inoltre le esperienze in atto negli Stati Uniti, che mirano ad utilizzare principalmente i modelli gestuali provenienti dalla danza contemporanea e da quella terapeutica. Queste esperienze comportano, però, il rischio di perdere di vista la dimensione sacramentale della fede e denotano un certo narcisismo.
In India esiste una tradizione millenaria di danza sacra che in antichità era parte integrante del rituale del tempio. Attualmente nel mondo cattolico si sta cercando di conservare il patrimonio della danza sacra classica, come forma d’evangelizzazione e di recuperare l’esperienza più vivace delle danze d’origine tribale. Non si è trovato, però, il giusto rapporto tra le due forme. Risulta molto interessante l’esperienza del sacerdote verbita F. Barboza che ha fondato a Bombay una scuola di danza sacra all’interno della quale forma alcuni professionisti coll’intento di rappresentare i misteri della fede attraverso la danza tradizionale e giungere ad una sintesi tra vita interiore e gestualità.
La cultura africana considera la corporeità il luogo che consente di entrare in comunione col mondo circostante e col soprannaturale, attraverso la danza, perciò, l’africano manifesta la propria appartenenza alla comunità ed il proprio senso religioso. La danza, pertanto è entrata a far parte anche della liturgia, come compare ufficialmente dal Messale romano per le diocesi del Congo. Lo scopertine/copo è creare un ambiente caloroso che favorisca l’incontro con l’altro. Secondo la struttura della liturgia eucaristica la danza è ammessa al Gloria e alla presentazione dei doni. I fedeli possono, inoltre, accompagnare con movimenti ritmici anche il canto d’ingresso e quello finale.
In Europa sorgono le prime esperienze a partire dalla Francia, dove negli anni ‘50 le sorelle Foatelli, costituiscono a Parigi la loro école de danse religieuse dans l’église de rite catholique utilizzando la tecnica del balletto classico. Anche C. Golovine, la più affermata delle praticanti di danza sacra, che ha ricevuto, fra l’altro, il mandato dal vescovo di Avignone di annunciare Cristo attraverso la danza, si basa sulla tecnica del balletto classico, mentre Michaëlle si ispira alla tecnica yoga e realizza delle sequenze gestuali, piuttosto che danze vere e proprie.
In Germania, R. Guardini già negli anni ‘20 prende in considerazione la liturgia come gioco evidenziandone, quindi, l’intensità, la creatività e la dimensione contemplativa. H. Rahner e S. Sequeira, approfondiscono successivamente le sue intuizioni e trattano in modo più specifico l’argomento danza sacra. T. Berger prende in considerazione la danza liturgica che considera come l’espressione corporea dell’esercizio della fede e ritiene che sia possibile danzare in diversi momenti della celebrazione eucaristica, ma le sue proposte sembrano più che altro successioni di movimenti. Particolarmente interessante è il contributo offerto da E. Kohlhaas col suo studio sulla danza nel monastero, dove presenta la propria esperienza, considera la liturgia un evento ricco di movimento e ritiene che possa essere danzato. Ella si domanda, infine, quale possa essere la forma più idonea, sobria e distinta, per realizzare danze sacre rispettose della cultura e della tradizione europea.

La danza meditativa
La danza meditativa ideata da Gazelle all’interno della comunità dell’Arca di Lanza del Vasto e realizzata su canto gregoriano, può rispondere a questa esigenza. Gazelle, infatti, approfondisce la dimensione sacrale delle danze popolari e, attraverso l’ascolto orante del canto gregoriano, realizza una forma totalmente nuova di danza sacra dallo stile sobrio, che consiste nell’imprimere la Parola su di sé, e nel conservare uno stato di autentica preghiera, come riposo sul canto ed abbandono fiducioso nel Signore. La sua danza meditativa rappresenta, perciò, una valida sintesi culturale tra la spiritualità del gregoriano ed il patrimonio gestuale delle danze europee e mediterranee, purificato secondo criteri universali di tecnica di danza sacra.
Essa, infatti, è autenticamente danza, vale a dire movimento ritmico, secondo una sequenza musicale, non semplice espressione corporea. È arte perché corrisponde a delle leggi di stile e d’equilibrio. È popolare, cioè viva e ricca di significati esistenziali, non prettamente tecnica ed artificiale come può essere la danza classica. È sacra perché si svolge nello spazio e nel tempo sacro, in modo simbolico, e perché è concepita esclusivamente come forma di preghiera sul canto sacro. È ecclesiale perché nasce da un’autentica esperienza di fede e d’ubbidienza all’interno di una comunità con una regola ben precisa. È spirituale perché idonea ad esprimere liberamente la lode a Dio attraverso il corpo. Ed infine è liturgica perché, rispettando la spiritualità del canto gregoriano, canto proprio della Chiesa, può essere utilizzata in un contesto liturgico.

L’esperienza della nostra diocesi
Nella nostra diocesi, da alcuni anni e precisamente dal 1997, è in atto una sperimentazione, attraverso la quale, un gruppo di ragazze svolge un servizio di animazione spirituale e liturgica nell’ambito della Pastorale Giovanile. L’iniziativa è nata in occasione della giornata mondiale della gioventù di Parigi; in quella circostanza, è stata realizzata la prima danza sul canto “le mani alzate” che è stata eseguita alla Messa conclusiva dell’incontro di preparazione avvenuto alla Salette. La stessa danza, poi, è stata realizzata alla celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Amedeo Grab al Monte Tamaro, durante il primo incontro nazionale dei giovani cattolici svizzeri nel settembre del 1998.
Da allora il gruppo si è allargato e si incontra regolarmente. Sono state create altre danze, rappresentate in varie circostanze, in particolare lo scorso anno a Roma, durante una delle diverse Messe organizzate per gruppi linguistici prima dell’incontro di Tor Vergata, dove è stata eseguita anche una danza realizzata sull’inno della GMG. Di recente, il 5 gennaio a Bellinzona il gruppo ha dato vita ad un incontro di preghiera, rappresentando quasi tutte le danze che sono state create ed ha animato la presentazione del tema del Sacrifico Quaresimale svoltasi l’11 marzo a Lugano.
L’aspetto più interessante della nostra esperienza è che si ispira a quella di Gazelle, e ne conserva la stessa dignità, pur se le danze sono realizzate su musica usuale e non su canto gregoriano. Evidentemente sono meno complesse, ma lo stile è il medesimo, molto sobrio ed estremamente interiore, non ha, quindi nulla a che fare, per esempio, con quello della danza classica. Infatti quando la gestualità della  danza classica viene utilizzata per la danza sacra risulta eccessivamente aggraziata e quasi artificiosa.
Il linguaggio gestuale delle danze sacre del gruppo della nostra diocesi è piuttosto semplice  basato sulla combinazione armonica di alcuni gesti universali di preghiera e sulla rappresentazione mimica stilizzata del testo sacro, proposto dal canto. Non si ricorre a nessun artificio, ma ci si lascia condurre in modo armonico dalla melodia e soprattutto dal testo. Chi danza non esprime tanto se stesso, quanto piuttosto cerca di imprimere su di sé il testo sacro. Le danzatrici, perciò, sotto l’azione dello Spirito, diventano icone viventi della Parola, dimenticano se stesse e si abbandonano con fiducia nel Signore che, teneramente, plasma la loro vita. Si comprende, allora, che la danza sacra non è uno spettacolo, ma una disciplina spirituale, un mezzo per trasfigurare se stessi, e rendere visibile la gioia e la pace del paradiso.

Io danzavo
Una preghiera scritta da Sydnei Carter, che è un vero e proprio inno a Cristo danzatore, in conclusione, può aiutarci a comprendere ancora meglio l’autentico spirito della danza sacra.

Io danzavo il mattino in cui nacque il mondo,
danzavo circondato dalla luna, dalle stelle e dal sole.
E discesi dal cielo a danzare sulla terra quando venni al mondo a Betlemme.
Io danzavo per lo scriba e per il fariseo,
ma essi non hanno voluto né danzare, né seguirmi;
danzavo per i pescatori, per Giacomo e per Giovanni,
essi mi hanno seguito e sono entrati nella danza.
Io danzavo il giorno di sabato, ho guarito il paralitico,
la gente per bene diceva che era un onta.
Mi hanno frustato, mi hanno lasciato nudo,
mi hanno appeso ben in alto su una croce per morire…
Io danzavo il venerdì santo quando il cielo divenne tenebra
(è difficile danzare con il demonio alle spalle).
Hanno seppellito il mio corpo ed hanno creduto che fossi finito,
ma io sono la danza e conduco sempre io il ballo.
Hanno voluto seppellirmi, ma sono rimbalzato ancora più in alto,
perché io sono la vita, la vita che non può morire:
io vivo in voi e voi vivete in me, perché io sono il Signore, il Signore della danza.
Danzate, ovunque voi siate,
perché io sono il Signore, il Signore della danza
e io conduco la vostra danza, ovunque voi siate,
io condurrò la vostra danza.

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