San Paolo nella letteratura moderna
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San Paolo nella letteratura moderna
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato…
L’articolo è una carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, sulla letteratura moderna — saggistica, narrativa, opere drammatiche, biografie — per rintracciare e presentare i vari atteggiamenti assunti nei riguardi di san Paolo. La carrellata prende l’avvio da Nietzsche e inquadra autori di diverse estrazioni: Gibran, Gide, Merejkowski, Papini, I. Giordani, Luzi, Citati, Taylor Caldwell, Dobraczynski, Mészoly, G. Manacorda, Fabbri, Pasolini, E. Baumann, Daniel-Rops. Le varie inquadrature mostrano l’interesse della letteratura per una personalità così densa di storia, di pensiero, di anima e di mistero come quella dell’apostolo Paolo. Il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al messaggio e all’azione del genio di Tarso.
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato. L’articolo analizza l’incontro di 17 autori moderni con san Paolo. La carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, vuole presentare i vari atteggiamenti della letteratura nei riguardi dell’Apostolo, percorrendo saggistica, narrativa, opere drammatiche e biografie, oltre che il film mancato di Pasolini.
San Paolo nella saggistica
In Ecce homo Nietzsche (1844-1900) si è autodefinito: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (1). Dinamite perché, novello messia, avrebbe scosso dalle fondamenta il vecchio mondo per costruirne uno nuovo. A frantumarsi per primo sarebbe stato il cristianesimo, fondato non da Gesù ma da Paolo di Tarso. Contro di lui egli si scaglia con violenza e disgusto, soprattutto nel capitolo 42 dell’Anticristo. «In Paolo — scrive — s’incarna il tipo opposto al “buon nunzio”, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio! Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista?» (2). Innanzitutto ha sacrificato Gesù: «Lo ha inchiodato alla sua croce». Paolo ha cancellato quanto non serviva al suo odio. Non gli serviva «il significato e il diritto dell’intero Vangelo», ma la sua contraffazione; «Non la realtà, non la verità storica [...]. E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia [...], si inventò una storia del primo cristianesimo». Non soltanto: falsificò la storia d’Israele, asservendo tutto ai suoi scopi.
La menzogna più deleteria di Paolo riguarderebbe la risurrezione di Gesù. A lui non serviva un redentore morto in croce, serviva un redentore risorto. «Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi [...]. Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi». A tale scopo serviva soprattutto la credenza nell’immortalità, vale a dire la dottrina del “giudizio”». È doveroso pertanto definire Paolo uno spaventoso impostore, negatore della vita, nemico dell’umanità. Se il cristianesimo «è stato la più grande sciagura dell’umanità» lo si deve a Paolo di Tarso.
Sulla scia di Nietzsche si è avventurato anche Kahlil Gibran (1883-1931) in Gesù figlio dell’uomo (3). La presentazione di san Paolo ha un sapore selvatico: «A volte sembra quasi un animale nella foresta, braccato, ferito, in cerca di un antro dove celare al mondo la sua sofferenza» (p. 57). «Uomo strano», dai lineamenti disarmonici; quando parla non riferisce le parole di Gesù, ma predica il Messia annunciato dai profeti dell’antichità. È un giudeo colto, gode di «poteri nascosti», è capace di ammaliare l’uditorio. Si potrebbe definire un anticristo perché la sua dottrina è antitetica a quella di Gesù. Un personaggio che ha ascoltato entrambi così afferma: «Noi che conoscemmo Gesù e udimmo i suoi discorsi possiamo affermare che ci insegnava a rompere le catene della schiavitù per liberarci dal nostro ieri. Ma Paolo sta forgiando catene per l’uomo di domani. Col suo martello intende percuotere l’incudine nel nome di uno che neppure conosce» (p. 57). L’antitesi Gesù-Paolo continua spietata e approda alla seguente conclusione: Gesù vuole armonizzare l’umanità con quanto la natura ha di bello e di vivo, è portatore di gioia terrestre, liberatore da leggi e tradizioni, pura espressione del divino che è in noi; Paolo è nemico della vita e della gioia, schiavo di leggi e prescrizioni, annunziatore di un Gesù-Messia da lui pensato per compensare le proprie frustrazioni. Come il Gesù di Gibran è espressione poetica del suo romanticismo, così il suo Saulo di Tarso rivela l’insofferenza per quanto sa di Chiesa, cioè di dogmatico e di proibito.
Meno chiassosa ma più sottile e insidiosa delle precedenti è l’accusa che André Gide (1869-1951) ha formulato nei riguardi di san Paolo. Il perché va ricercato in uno degli aspetti portanti della sua opera. Scrive nei Nuovi nutrimenti: «Ho ammirato, non ho finito di ammirare, nel Vangelo, un sovrumano sforzo verso la gioia. La prima parola che ci è riferita del Cristo è “Beati…”. Il suo primo miracolo, la metamorfosi dell’acqua in vino [...]. C’è voluta la stolta interpretazione degli uomini, per fondare sul Vangelo un culto, una santificazione della tristezza e della pena» (4). Autore di questa stoltezza interpretativa è soprattutto san Paolo; la teologia della croce, recepita dalla Chiesa e presentata come verità rivelata, è sua invenzione. Spiegare questo tradimento del Vangelo («Anche il Vangelo secondo Marco, il più antico, avrebbe già subito l’influsso di Paolo») «è di suprema importanza». In merito, il testo gidiano più esplicito si trova nel Diario. Lo sintetizziamo.
Agli occhi del mondo la vita di Gesù è stata un fallimento. In realtà, Cristo, recandosi a Gerusalemme con gli Apostoli, pensava di andare verso il trionfo, non verso la morte in croce. Bisognava pertanto fornire una giustificazione della croce e dimostrare che la fine ignominiosa era stata prevista, dunque necessaria al compimento delle Scritture e alla salvezza degli uomini. Per questo motivo l’espressione «morto a causa dei peccatori» fu sostituita con l’altra: «morto per i peccatori». La sfumatura risultò «una felice confusione in favore della predicazione di san Paolo. Il Cristo non fu più veduto che sulla croce, e questa divenne il simbolo indispensabile. Era necessario gloriarsi soprattutto del segno dell’ignominia: solo così poteva apparire, ad onta di tutto, trionfatrice l’opera di colui che si era detto figlio di Dio. Ciò era indispensabile all’inizio per legittimare e propagare la dottrina» (5).
Gide ristabilisce la verità. La croce è una contraffazione del Vangelo; Cristo ha predicato la santità dei «nutrimenti terrestri» e degli istinti naturali; la «vita eterna», da lui proposta, non ha nulla di futuro, è l’immersione nell’«ebbrezza mistica» dei sensi che dà l’esperienza dell’éternité vécue dès maintenant. I divieti, le condanne e le minacce si cercano invano nel Vangelo: Tout cela n’est que de Saint Paul. Divenuta «padrona degli spiriti e dei cuori», la dottrina paolina ha reso impossibile il recupero della gioia evangelica: «La croce aveva trionfato del Cristo stesso, il Cristo crocifisso, questo si continuava a vedere, a insegnare. Ed è così che questa religione pervenne a oscurare il mondo (enténébrer le monde)» (6). La battuta è di sapore nietzschiano, ma Gide non vuole offendere Cristo: l’«oscuramento del mondo» si deve alla «follia della croce», escogitata dagli animi malati degli Apostoli e soprattutto da san Paolo.
«Riusciamo a scorgere il volto di Paolo, ma il suo cuore ci resta celato» (7). Così inizia la presentazione di Paolo lo scrittore russo Dimitri Merejkowski (1865-1941) nel volume Tre santi in cui, analizzando l’esperienza religiosa di Paolo, Agostino e Francesco d’Assisi, presenta la sua concezione cristiana. Di Paolo è un estimatore convinto. Lo ha frequentato leggendo le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, ha interrogato i suoi esegeti e i suoi storici, ne ha avvertito la presenza nel proprio spirito. Conseguenza? Un sentimento di stupore e di smarrimento perché nell’Apostolo egli ha avvertito la presenza di una realtà sconcertante: la santità. Con Paolo «s’inizia una via lungo la quale, simili a segni misteriosi o a segnali di fuoco, sorgono mille altri santi» (p. 12). Il mistero della santità ci resta sconosciuto.
Osservando il volto dell’Apostolo, Merejkowski riesce a cogliere il segreto del suo cuore: l’amore. «Nessuno, dopo Cristo, ha mai amato più di Paolo gli uomini di maggiore amore. Ecco dove si deve ricercare e dove si trova il segreto della vittoria di Paolo, che ha vinto il mondo» (p. 41). Tale amore è, in lui, fusione della sua volontà con quella del Salvatore; in essa «sta il mistero della Predestinazione, la gioia di tutte le gioie» (p. 31). Alla forza dell’amore si accompagna, in Paolo, la passione per la libertà. È «il più libero degli uomini» perché «sempre prigioniero dello Spirito» (p. 70). Questi due elementi hanno fatto di lui — come del resto anche di Gesù — un ribelle e un perturbatore: «Il primo ribelle è Gesù, il secondo Paolo» (p. 72), «il primo tra tutti i perturbatori è Gesù, il secondo è Paolo» (p. 85).
Uno degli aspetti più significativi di san Paolo è, a parere di Merejkowski, il suo contrasto con Pietro: contrasto da lui enfatizzato fino alla contraffazione, allo scopo di far credere che «la Chiesa non proviene da Cristo» (p. 220). Pietro e la Chiesa sarebbero la legge, la schiavitù, la religiosità statica; Paolo il propulsore di una religiosità dinamica, ispirata allo spirito di libertà. «L’eterna opposizione, l’antinomia tra la legge e la libertà, lacera il cuore di Paolo e lacera il cuore di tutta la Chiesa» (p. 63). Il cristianesimo di Paolo è più genuino di quello della Chiesa perché «appreso da Cristo stesso, suo unico Maestro» (p. 45).
Questo atteggiamento anticattolico dello Scrittore russo gli deriva non soltanto dalla sua dipendenza da studiosi razionalisti e positivisti, ma soprattutto dal fatto che egli «trasfonde nella maggioranza dei suoi scritti la sua strana filosofia della religione, affettatamente profonda, ma in realtà superficiale e isterica» (8). A ciò si deve se il volto del suo san Paolo ha taluni tratti gradevoli e convincenti, altri ambigui e inaccettabili.
Di san Paolo Giovanni Papini (1881-1956) è un cultore entusiasta. Lo cita con frequenza, ne ammira la dedizione, l’energia, la passione. Nel volume Santi e poeti (9) ricerca «quel che di romano vi fu nel suo pensiero e nella sua opera»; nello stesso tempo delinea i tratti specifici della sua personalità. Partendo dall’assioma che «ogni genio ha più d’una patria», all’Apostolo assegna la Giudea come patria etnica, la Cilicia come patria carnale, Roma come patria per diritto e per desiderio.
Alla domanda: quali sono gli elementi che permettono di considerare «romani» il pensiero e l’opera di san Paolo, Papini così risponde: «L’aspirazione all’unità del genere umano, sotto una sola legge e un solo dominatore, la tendenza alla conquista dei popoli, il riconoscimento dell’autorità terrestre ai fini della giustizia e del bene, la diffidenza verso le speculazioni filosofiche che non esclude l’uso della ragione come ausiliaria per la ricerca della verità sono i punti nei quali la prassi di Roma e l’anima di Paolo si accordano» (p. 50). Naturalmente — nota lo scrittore — l’opera di Paolo fu la trasposizione a un ordine indicibilmente più elevato — spirituale e mistico invece che temporale e civico — degli elementi «romani» sopra accennati. Ma ciò non impedisce di scorgere quelle analogie e concordanze che permettono di considerare Paolo «non soltanto cittadino ma santo romano».
Igino Giordani (1894-1980), saggista e narratore, oltre a un’agile biografia di san Paolo (Paolo, apostolo martire, 1929), ha scritto su di lui un profilo preciso ed entusiasta in cui sintetizza gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano. «C’è in lui — scrive — il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro ai greci e Cesare ai romani; c’era nella sua speculazione una profondità che ricordava Platone; e c’era nel suo tratto una tenerezza e una fantasia innamorata, che l’avvicinavano a Virgilio. Ma le loro qualità le fondeva in una sintesi, la quale traeva luce e faceva da candelabro a sette braccia a una fede soprannaturale unica» (10).
In un primo tempo, influenzato da Gide e da certa letteratura nordica, Mario Luzi (1914-2005) confessa di aver visto san Paolo «con occhi distorti», considerandolo «una sorte di custode, autoritario e severo, dell’ortodossia». In seguito ha capito che questo aspetto talvolta c’è, ma in un contesto particolare. San Paolo è tutt’altro: «È una figura mirabile per l’empito e il titanismo, in un certo modo, che egli sprigiona. Veramente quando leggi le sue Lettere ti accorgi della sua estrema consapevolezza e della sua centralità: su di lui grava la decisione di un grande evento, che può finire nel nulla oppure divampare a segnacolo mondiale» (11). Luzi lo ama e lo ammira perché vede in lui «un uomo di grande umanità e di fraternità», consapevole di inaugurare una nuova èra, sovvertendo un modo di vivere e di pensare.
L’elemento che maggiormente colpisce Luzi è il «fuoco di profezia» che fa vibrare l’anima dell’Apostolo. «Mentre parla per istruire gli adepti delle comunità si illumina egli stesso di nuovo sapere, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta neppure quando amministra o governa: e si deve a questa esuberanza di profezia se egli può assumere vertiginosamente sopra di sé l’autorità esclusiva di dettare e di interpretare il vero Vangelo» (p. 156 s). Tale «fuoco di profezia» si sprigiona «da alcune rocciose certezze» che lo alimentano e conferiscono alla sua parola energia e novità. «È il primo a far sentire la fede come sublime non-senso», follia e scandalo. «Paolo esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede» (p. 16). Centro della fede è Gesù Cristo, il Vivente, il Risorto. «Il nucleo della sua [di Paolo] forza sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio» (p. 161). Paolo emerge dal «caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza» (p. 163).
Pietro Citati (1930) in un capitolo del volume La luce della notte (12) immagina che un oscuro letterato platonico, vissuto tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo d. C., legga la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani e ne resti sconvolto. «Aveva un’altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall’uomo, e sempre uguale a se stesso». Le Lettere di Paolo capovolgono questa sua immagine, soprattutto le affermazioni: che Dio si era fatto uomo e amava l’uomo di carne; che Dio si manifesta nella storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza; che il male non sta nella creazione, fuori di noi, ma nel nostro animo. Paolo inoltre derideva ogni sapienza umana e respingeva quanto era stato affermato su Dio, sull’uomo, sul tempo, sul futuro, sull’amore.
Che cosa conclude Citati? «Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell’universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all’estremo, senza attendere una soluzione» (p. 107). In verità, «dentro di noi c’è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone» (ivi).
San Paolo nella narrativa
A san Paolo la scrittrice anglo-americana Taylor Caldwell (1900-85) ha dedicato un fluviale romanzo — Il leone di Dio (13) — dopo «uno studio approfondito durato diversi anni». È da crederle perché, a lettura finita, bisogna riconoscerle larghe conoscenze dell’ambiente geografico, storico, etnico, politico, religioso. Carente è invece la preparazione biblica e la personale sensibilità religiosa nel trattare episodi e documenti.
Nell’Apostolo l’Autrice ha «voluto vedere l’uomo così come egli era, un uomo simile a noi, con gli stessi dolori, dubbi, ansie e collere, e intolleranze, e “debolezze della carne” che affliggono noi tutti» (p. 12). Aveva un geloso e tenace attaccamento alla corrente dei farisei, un’intelligenza acuta, ma intollerante e polemica, una psicologia alterata: era osservante scrupoloso della Legge, dominato da un timore di Dio fino all’ossessione e talvolta alla disperazione; soprattutto era un uomo dominato dal confuso presentimento di una grande missione da compiere senza sapere né come né dove.
Le prime due parti del romanzo si leggono con gusto e interesse, data la capacità dell’Autrice di costruire la figura del protagonista con una straordinaria forza di lineamenti, in una prosa piacevole e duttile. Nell’ultima parte — la terza — il romanzo perde mordente: ci si sofferma su descrizioni, belle ma superflue, la fantasia corre senza controllo, la figura di san Paolo sbiadisce e perde di autenticità. Il leone di Dio è un romanzo per alcuni aspetti pregevole, per altri debole e mal sicuro.
Convincente per solidità di struttura e per validità letteraria è il romanzo La spada santa di Jan Dobraczynski (14), tra i più noti, fecondi e discussi scrittori polacchi del Novecento. La storia di san Paolo è il sottotitolo del romanzo. In esso l’elemento storico è solido, il fantastico è dilatazione della storia, suo completamento e spiegazione, l’insieme risulta armonico e compatto. Il romanzo si presenta come un mosaico sul quale è ritratta la storia della primitiva comunità cristiana. Grazie a un continuo flashback, il lettore si muove sull’itinerario di Paolo, ne rivive gli incontri, le peripezie, i dilemmi, ne approfondisce il messaggio, ne intuisce il mistero che in lui si compie.
Le idee di fondo del romanzo sono quattro. Innanzitutto, la presenza di Cristo nella vita dell’Apostolo. Essa conferisce significato al suo agire, chiarezza alle sue scelte, coraggio e fiducia alle sue imprese. In secondo luogo, la consapevolezza dell’universalità della redenzione. Idea, questa, che per un ebreo come Paolo, legato a Gerusalemme e al Tempio con tutte le fibre dell’essere, costituiva un continuo martirio. La terza idea è la novità cristiana che rivoluziona pratiche secolari e proclama il loro superamento. Infine, la consapevolezza della propria nullità. Dopo aver riferito alla comunità di Gerusalemme la diffusione del Vangelo in molte regioni pagane e perfino in città ritenute dissolute (Corinto), arroganti (Atene), «impestate da mostruose superstizioni» (Efeso), dichiara: «Non io le ho conquistate, fratelli, perché io sono una nullità, e quando arriva il momento di predicare, sto davanti alla gente, debole e spaventato, e non trovo le parole, e nella testa ho una grande confusione. Ma il Signore si compiace di mostrare la Sua potenza attraverso la mia miseria. Chi sono io? Mi conoscete. Ero un criminale, figlio dell’ira, che agiva male anche se non lo sapeva. Non conquisterei nessuno, se non fosse per il Signore. Il Signore è tutto» (p. 61).
Nel presentare san Paolo, Dobraczynski ne fa vedere anche l’attualità e l’urgenza: la pace e la giustizia non vanno ricercate con la spada ma con la comprensione e la fratellanza. Cioè con l’amore. E l’amore per il Risorto abbraccia e trasfigura ogni realtà: «Ma alla fine capii — afferma Paolo —. Capii che amare Gesù significa amare tutto e che in questo amore nulla perisce. Perché quando tutto sprofonderà in esso, in esso tutto si potrà ritrovare» (p. 272).
Miklós Mészöly (1921-2001), noto scrittore ungherese, nel romanzo Saulo (15) descrive l’antitesi tra il mondo intransigente della Legge, simboleggiato da Abiatar, amico di Saulo, e quello del nuovo Verbo, fondato sull’amore e sul perdono, simboleggiato da Stefano. Saulo è impegnato a fondo nella difesa della Legge e nel punire quanti la misconoscono. Un dialogo notturno con Stefano, prima che questi venga arrestato, gli rivela la superiorità di una legge fondata sull’amore e sulla libertà. Partecipa alla lapidazione di Stefano, ma si sente braccato da una misteriosa presenza che lo sospinge verso coloro che perseguita. Andando verso Damasco, calzando i sandali che Stefano gli ha lasciato in eredità, resta accecato. Dove lo condurrà la misteriosa presenza?
San Paolo in tre opere drammatiche
Guido Manacorda (1879-1965), letterato di vasta cultura, è autore di Paolo di Tarso (16), dramma sacro in tre atti e un intermezzo, costruito con intelligenza storica, denso di contenuto, un po’ debole nella struttura drammatica.
Il primo atto si svolge a Gerusalemme, nella spianata del Tempio, a pochi giorni dalla crocifissione di Gesù. In un incalzare di voci si distinguono quelle degli Apostoli, frastornati dagli eventi. Sulla scena interviene Saulo, osserva con disgusto la gente che acclama Barabba, dichiara il suo odio per i mercanti e i sacerdoti che tradiscono la Legge. Poi, rivolto a Giovanni, incalza: «Ma più di tutti odio voi, Nazareni, perché con le vostre parole di perdono e di pace snervate le ultime forze d’Israele, e volendo tutti fratelli, ci date in balia del nemico» (p. 29).
L’intermezzo ha come sfondo la strada per Damasco. Quando Saulo incontra la Samaritana, che crede in Gesù, e un pastore che a Betlemme ha visto il Bambino e ascoltato la voce degli angeli che lo hanno proclamato «Cristo, il Salvatore del mondo», furente, punta la spada contro di loro, ma una luce violenta lo abbatte. Lo sguardo velato, le braccia aperte, «Fratelli miei in Cristo, Signore nostro…» comincia a dire, ma vacilla, come sopraffatto, è sorretto e condotto a Damasco.
Il secondo atto si svolge nell’areopago di Atene. Paolo parla ai filosofi che lo ascoltano con interesse ma ne respingono le idee: «Manca di scuola!» e «quell’accento giudaico, che peccato!». Soltanto Dionigi e Damaride, povera peccatrice convertita, lo seguono. Nel terzo atto siamo a Roma, presso un coemeterium dove i cristiani si sono radunati per la santa Cena. Presiede Pietro, partecipano Paolo e Giovanni. Si legge il Libro, si canta, si prega, si consuma l’agape, ci si esorta alla fedeltà a Cristo, in un’atmosfera di gioia ma anche di ansia per il presentimento del martirio di Pietro e Paolo.
Nel dramma Manacorda ha inteso puntualizzare lo scontro tra l’ebraismo religioso del tempo, svuotato d’interiorità, e l’adorazione «in spirito e verità», chiesta da Gesù; tra la filosofia greca e la verità della Rivelazione. In particolare il dramma mette in risalto la rivoluzione dell’amore cristiano che non conosce barriere, illumina la vita, vince il peccato e la morte. Paolo si congeda con un invito alla gioia: «Pantote chairete… Siate sempre gioiosi».
Altre due opere drammatiche hanno san Paolo come protagonista. In Al Dio ignoto Diego Fabbri (1911-80) porta sulla scena un gruppo di attori, stanchi di finzioni e di parole vuote, e assetati di verità e di consistenza. È possibile credere nella risurrezione e sperare in un traguardo trascendente e appagante? Si ribellano all’eclissi di Dio e allo scetticismo, e si impegnano ad approfondire «il punto fondamentale» della fede cristiana, la risurrezione. Così decidono di riviverla per verificarne la veridicità. L’azione drammatica si fa viva e intensa per l’intervento dei vari testimoni e la disarmante semplicità dei testi evangelici. Dopo l’apparizione di Cristo sotto forma di luce, avanza verso il gruppo degli attori Paolo, fa un gesto di tacere, e rivolge un discorso esaltante. Sì, Cristo è realmente risorto, è apparso agli Apostoli, a molti fratelli ancora vivi, infine anche a lui. Dichiara che per testimoniare la risurrezione si affrontano persecuzioni di ogni genere, e conclude: «Non si soffre, fratelli miei, come abbiamo sofferto noi, non si è imprigionati e flagellati come è accaduto a noi, non si versa il proprio sangue per delle visioni: noi abbiamo avuto e abbiamo la certezza della risurrezione. La nostra è una moltitudine pacifica ma travolgente che ha per condottiero un Risorto» (17).
Paolo fra gli Ebrei di Franz Werfel (1890-1945) (18), più che un vero dramma, è una «leggenda drammatica», fondata su due tradizioni, al cui centro sta lo scontro tra il Rabbi Gamaliele e il suo discepolo Saulo di Tarso, convertito a Cristo. L’amato Rabbi si dichiara disposto a riconoscere in Gesù un Maestro giusto, ma non il Messia, come crede Saulo. Congedandosi da Gamaliele morente, Paolo ha la rivelazione del suo drammatico destino: «Andare, andare, perché Cristo è un cacciatore infaticabile».
Il film mancato di P. P. Pasolini
Nel «progetto per un film su san Paolo» (19) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato… Partito, Chiesa… chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
Due biografie
Emile Baumann (1868-1941), narratore dagli sfondi psicologici, talvolta aspri e audaci, è l’autore di una biografia di san Paolo, notevole per validità letteraria, storica e strutturale. Dopo aver percorso gli itinerari dell’Apostolo, ne ha raccontato la «sublime e terribile avventura» con il preciso scopo di «raggiungere l’anima». Grazie alla sua capacità di scavo psicologico, di resa letteraria, di fedeltà ai testi storici, raggiunge lo scopo e offre al lettore un’immagine viva di Paolo che definisce «una delle anime più ardenti di passione, che abbiano sconvolto la terra» (20).
Suggestiva e ben definita è la biografia dell’Apostolo scritta da Henri Daniel-Rops (1901-65), noto storico della Chiesa e robusto autore di romanzi. Nella sua ottica san Paolo «è un ebreo, figlio di una cittadina ellenistica e di un cittadino romano. Ciò vuol dire che egli partecipa di tre forme di civiltà, che egli è attraversato da tre correnti differenti» (21). Il tutto in lui si fonde, si nobilita e si trasfigura nella redenzione operata da Cristo. Sotto l’aspetto psicologico, Paolo «è un essere pieno di contrasti, esigente e tenero, violento e sensibile e, nello stesso tempo, energico e meditativo» (p. 89). In particolare «la potenza della sua personalità è una potenza d’amore; non è l’umanità intera, considerata astrattamente che egli ama e vuol condurre alla salvezza; è ogni uomo in quanto persona, poiché l’amore non conosce che persone» (p. 90 s).
In Paolo — nota Daniel-Rops — si trovano quelle note, intellettuali e spirituali, che fanno di lui «un essere senza pari», diciamo pure «un genio»: «la lunga pazienza, la solidità, l’accanimento nello sforzo [...], la conoscenza lucida dello scopo da raggiungere, l’energia paziente nel tendervi [...], lo spirito di entusiasmo, la fede» (p. 92 s). È anche un «grande scrittore [...] perché possiede il dono delle formule che colpiscono», di dare alle parole un senso nuovo «con ravvicinamenti abbaglianti». Possiede inoltre la potenza di evocazione, l’arte di condensare in brevi battute concetti profondi, la varietà di toni e di formule, il balzo poetico che gli consente voli sublimi «come un grande uccello al di sopra di abissi vertiginosi». Con felice intuizione, così lo Scrittore conclude l’argomento: «Se san Paolo è un grandissimo scrittore, è perché prima è un uomo, e poi uno scrittore» (p. 175).
Chi è san Paolo? «Vien detto di lui “che egli fu il primo dopo l’unico”; il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al santo genio di Tarso, al suo messaggio, alla sua azione» (p. 235).
«Assume sul suo cuore la passione del Dio eterno»
Paolo, come Gesù, segno di contraddizione: accolto e respinto, amato e odiato. Non ci si accosta a lui impunemente: la sua parola colpisce, rivela, interpella, esalta, inquieta. La sua visione dell’uomo e della storia riceve luce dall’Alto. Paul Claudel ne descrive alcuni tratti in solenni ritmi poetici: «Vedendo Dio, [Paolo] vede con Dio questo mondo ingrato e crudele, e assume sul suo cuore umano la passione del Dio eterno. / E poiché Dio non ha voce, egli è la voce che parla per lui. / [...] Egli va dove il vento lo porta, senza fine né sosta, da un capo all’altro del mondo, come un fuoco che il vento strappa e trascina oltre il mare! [...] E vedendo quei figli ciechi e quei popoli che muoiono senza battesimo, / piange, si torce le mani e chiede di essere anatema per essi» (22).
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Note
1 F. NIETZSCHE, «Ecce homo», in Opere 1882-1895, Roma, Newton, 1993, 894.
10 I. GIORDANI, «San Paolo», in G. BARRA (ed.), Santi per oggi, Torino, Borla, 1955, 127.
11 M. LUZI, La porta del cielo, a cura di S. VERDINO, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 73.
12 Cfr P. CITATI, La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
13 Cfr T. CALDWELL, Il leone di Dio, ivi, 1972.
14 Cfr J. DOBRACZYNSKI, La spada santa. La storia di san Paolo, Torino, Gribaudi, 2002.
15 Cfr M. MÉSZÖLY, Saulo, Roma, E/O, 2001.
16 Cfr G. MANACORDA, Paolo di Tarso, Firenze, Vallecchi, 1927.
17 D. FABBRI, Tutto il teatro, vol. II, Milano, Rusconi, 1984, 2.341.
18 Il dramma — Paulus unter den Juden (1926) — non è stato tradotto in italiano.
19 Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
2 ID., L’Anticristo, ivi, 797.
20 E. BAUMANN, San Paolo, Brescia, Gatti, 1952, 340.
21 H. DANIEL-ROPS, San Paolo, Alba (Cn), Ed. Paoline, 1952, 104. Il titolo originale è Saint Paul, conquérant du Christ.
22 P. CLAUDEL, Corona benignitatis anni Dei, Parigi, Gallimard, 1920, 169.
3 Cfr K. GIBRAN, Gesù figlio dell’uomo, Milano, SE, 1987.
4 A. GIDE, «I nuovi nutrimenti», in ID., I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 169.
5 ID., Diario, vol. III, Milano, Bompiani, 1954, 44.
6 Ivi.
7 D. MEREJKOWSKI, Tre santi: Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1936.
8 N. VON ARSENJEV, Die russische Literatur der Neuzeit und Gegenwart, Mainz, 1929, 360. Il testo è riportato da B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II e III, Firenze, Mazza, 1949, 57.
9 G. PAPINI, Santi e poeti, Firenze, Lef, 1948.
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