PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO (PAPA PAOLO VI, 1975)

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1975/documents/hf_p-vi_hom_19750212_it.html

PRIMA STAZIONE PENITENZIALE IN SAN PIETRO

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

12 febbraio 1975  

Eccoci Fratelli, ancora una volta, ed in circostanze speciali, quali sono quelle dell’Anno Santo, che stiamo celebrando, al principio della quaresima; in capite jeiunii, come dicevano i nostri antichi maestri di spirito. Nulla di nuovo; ma procuriamo di capire, e poi anche di fare. La pedagogia della Chiesa attribuisce grande importanza a questo periodo dell’anno liturgico. Quaresima è, si può dire, sinonimo di penitenza. La prima questione, che sorge negli animi, anche in quelli fedeli alla Chiesa, al suo spirito, ai suoi riti, si domanda se sia oggi giustificata la penitenza. Non è castigo la penitenza? non è tristezza, non è mortificazione, non è rinuncia, non è frustrazione? perché la religione cristiana deve presentarsi con questo aspetto, punto simpatico? come predicare all’uomo moderno, ch’è tutto teso alla conquista e al godimento della vita, una prassi penitenziale, che esula da ogni sua concezione, da ogni sua aspirazione, e, possiamo aggiungere, dalla sua pratica possibilità? chi può oggi digiunare, come la Chiesa fino a ieri prescriveva severamente di fare, e come, parzialmente almeno, ancora adesso, prescrive? Ai giovani specialmente, perché non presentare, fin da principio, la vita cristiana come una pienezza, una gioia, una felicità? Il cristianesimo, nella sua essenza, non è felicità? Non ha forse detto Gesù, proprio Gesù: «Io sono venuto affinché (gli uomini) abbiano la vita, e l’abbiano più abbondantemente»? (Io. 10, 10)
Un missionario, venuto in questi giorni a visitarci, ci diceva dei felici risultati d’una sua iniziativa, intitolata «l’apostolato della gioia»; non è questa un’autentica e sapiente interpretazione del Vangelo, il messaggio della buona novella? Così pure, e con altra voce, un autorevole Uomo di Chiesa si domandava recentemente se non sia oggi un errore, almeno di metodo, quello della tradizione ecclesiale di presentare l’adesione alla fede, e allo stile di vita ch’essa comporta, sotto condizione di pratiche ascetiche restrittive, di osservanze di norme di pensiero e di costume molto esigenti: perché non rendere facile e gradevole l’appartenenza alla Chiesa, allargando e spianando la via, che ne qualifica il cammino e ne assicura la mèta? Non saremmo noi colpevoli di rendere difficile e complicato l’incontro degli uomini del nostro tempo con la religione? Non sarebbe venuta l’ora di rendere dunque «permissiva», come oggi si dice, l’alleanza del mondo con la professione cristiana? il Concilio non ci ha elargito questa nuova concezione del cristianesimo contemporaneo? un cristianesimo facile, senza precetti esigenti e molesti, un cristianesimo moderno? e se questo vuole sopravvivere alle condizioni della vita contemporanea, non deve forse abolire i freni della sua vecchia concezione penitenziale?
Ragionamenti che contengono certamente una parte di verità; ma isolati dal disegno organico e completo della concezione cristiana sono incompleti, sono capziosi, e possono generare gravi errori; possono deformare e vanificare il Vangelo; il più grande di tutti gli errori di questo genere sarebbe quello di togliere la croce dal centro della fede e della vita cristiana. Ricordate la parola di S. Paolo: «che non sia resa vana la Croce di Cristo»! (1 Cor. 1, 17) vana nel suo mistero redentore, e vana nel suo insegnamento morale; infatti ricordiamo sempre: non solo Gesù porta la croce, ma anche i suoi seguaci con lui devono portarla: «se qualcuno vuol venire dietro a me, Egli disse, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce, e mi segua» (Matth. 16, 24). E questo, perché?
S. Agostino, in un suo sermone circa l’utilità di fare penitenza, diceva: «quanto sia utile e necessaria la medicina della penitenza, assai facilmente lo comprendono gli uomini, che si ricordano d’essere uomini» (S. AUGUSTINI Serm. 351, 1; PL 39, 1535; et Serm. 352; ibid. 1539 ss). Ripetiamo: perché questo? perché l’uomo è un essere spiritualmente e moralmente malato; ha bisogno della medicina della penitenza, cioè ha bisogno di riparazione; lo sviluppo e il funzionamento delle sue facoltà naturali non sono regolari e ordinati; il suo comportamento, in seguito al peccato originale, è facilmente sbagliato; lasciato a se stesso, produce atti contrari al dovere e genera stati d’animo disordinati; occorrerà per l’uomo sano, per l’uomo «nuovo» secondo la concezione cristiana, una «conversione», cioè un cambiamento di spirito che chiamiamo penitenza, la quale predispone alla fede e alla grazia (Cfr. DENZ.-SCHÖN. 1525-1530), e esige da noi volontà, contrizione, sforzo, perseveranza; esige cioè una penitenza duplice, sacramentale e morale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 84.90).
Oggi la liturgia parla principalmente di quest’ultima, la penitenza morale, e la drammatizza con un rito assai espressivo, con la imposizione delle ceneri sul capo del cristiano, quasi per disilluderlo del valore unico e supremo della vita presente, in cui noi facilmente poniamo le nostre cure e le nostre speranze. È un errore fatale di calcolo il nostro, se noi poniamo la nostra fiducia nei beni propri dell’ordine temporale, la durata della nostra esistenza presente, il benessere economico e edonistico, la fiducia nella ricchezza più che nella virtù, il materialismo ideologico e pratico, che sembra comprendere e risolvere tutti i problemi personali, sociali e politici, verso i quali si vorrebbe da molti rivolgere con priorità prevalente la mentalità e l’attività dell’uomo finalmente edotto circa la vera, ma inesatta e incompleta, filosofia della vita. Non udiamo noi forse in questo momento la severa, ma sapiente parola di Cristo rivolta all’homo oeconomicus, che aveva posto tutti i suoi progetti e tutta la sua fortuna nell’«abbondanza dei beni posseduti», senza riflettere all’inanità dei suoi preventivi: «Stolto, questa notte stessa l’anima tua (cioè la tua esistenza temporale), ti sarà ridomandata (cioè dalla morte imprevista e improvvisa); e quanto hai preparato di chi sarà? così, aggiunge il Signore, è chi tesoreggia per sé, e non arricchisce presso Dio» (Luc. 12, 20-21).
Così che questa radicale svalutazione dei beni propri della concezione materialista della vita, propria della visione penitenziale della sapienza cristiana, non si risolve in un disperato pessimismo, ma in un orientamento finalistico superiore e migliore della nostra esistenza, il possesso finale, desiderato e meritato, della pienezza della nostra vita immortale nel Dio della suprema beatitudine. La mèta escatologica, cioè ultima ed ultra terrena, deve governare le mète temporali, nelle quali siamo impegnati; e ciò non solo a riguardo dei beni economici, ma d’ogni altro bene di questo nostro pellegrinaggio nel tempo. Siamo pellegrini, siamo di passaggio nella vicenda faticosa o fortunata che sia nel secolo del tempo; questa è la coscienza della penitenza, che non ci deprime nella ricerca della giustizia e dell’ordine del nostro mondo sperimentale, ma piuttosto ci stimola a compiervi la missione che gli è propria: «così conviene, dice il Signore, che noi adempiamo ogni giustizia» (Matth. 3, 15), ma con lo spirito libero e teso verso quel «regno di Dio», che solo vale la pena d’essere sopra ogni cosa desiderato e conquistato, e che i «Poveri di spirito» sanno a loro primi destinato. In quest’atmosfera di pensieri e di propositi c’introduce la quaresima, con la sua metánoia, cioè con la sua conversione. Accettiamola con fiducia e con coraggio; sappiamo dove ci guida: al mistero pasquale. Sia così, con la nostra Benedizione Apostolica.

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