L’antica tradizione di cercare Dio tra le righe
http://www.stpauls.it/jesus06/0607je/0607je56.htm
L’antica tradizione di cercare Dio tra le righe
di Massimo Giuliani
(7 luglio 2006)
Al di là delle mode superficiali, delle curiosità morbose, delle superstizioni facili, che cosa è realmente la qabbalà? Lo spiega in questo articolo Massimo Giuliani, studioso di ebraismo e professore all’Università di Trento.
Ripulita dalle incrostazioni che lungo i secoli l’hanno trasformata in una superstiziosa mitologia di numeri portafortuna, la qabbalà non è altro che la tradizione mistica del giudaismo che affonda le sue radici nei primi secoli dopo Cristo e che si è forgiata, come noi la conosciamo oggi, tra la Provenza e la Spagna, e poi a Safed in Galilea, tra il XII e il XVI secolo. Il termine ebraico « qabbalà » significa «recezione» nel senso di qualcosa ricevuto e trasmesso per via orale, e dunque «tradizione» della sapienza ebraica, che consiste essenzialmente in commenti esegetici e simbolici del Tanakh, ossia della Bibbia ebraica.
Poiché in ebraico i numeri si esprimono con le 22 consonanti dell’alfabeto, e dato che uno dei metodi dell’esegesi tradizionale ebraica è la ghematria, ossia il computo del valore numerico delle parole onde scoprire nuovi significati scritturistici, è stato facile per i non iniziati a questo metodo confonderlo con un’arte segreta dei numeri, da cui attingere formule semimagiche per ottenere i favori divini. Solo nel corso del XX secolo, anche grazie all’opera storiografica di Gershom Scholem (1897-1982), questa dimensione poco nota della dottrina e dell’esperienza ebraica è stata studiata con metodi scientifici e rivalutata in tutta la sua complessità teologica e antropologica.
In termini più generali, poi, per qabbalà si intende un corpus assai esteso di testi, arrivati a noi per lo più in forma di manoscritti in ebraico e/o in aramaico, che raccoglie le riflessioni e le meditazioni di circoli elitari di studiosi ebrei che avevano come ideale religioso, al pari dei mistici della tradizione cristiana e musulmana, l’unione con Dio (devequt in ebraico), ovvero l’ascesa dell’anima nei «mondi superiori»; ma anche, a differenza del misticismo di ogni altra religione, il desiderio profondo di contribuire in modo attivo alla redenzione del mondo e all’unificazione di Dio stesso. La natura elitaria di questi circoli, almeno fino all’avvento del chassidismo (XVIII secolo) che si propose di popolarizzare l’ideale della devequt, è dovuta al fatto che la conoscenza approfondita di questo corpus letterario-teologico richiede lungo apprendistato di studi sia biblici che talmudici, congiunti solitamente a una non comune pratica ascetica personale.
Tre sono i testi fondamentali, che costituiscono il fondamento del misticismo ebraico. Si ritiene che il più antico, la cui composizione è datata tra il VI e il VII secolo d.C., sia il Sefer Jezirà, ossia il «libro di formazione», di autore ignoto, nel quale si narra di come Dio abbia creato il mondo giocando, se così si può dire, con le lettere dell’alfabeto ebraico attraverso quella che nel Medioevo sarà chiamata ars combinatoria. Tradotta in latino, quest’opera esercitò una grande influenza anche nel mondo cristiano rinascimentale.
Nella Provenza del XII secolo apparve poi un altro testo, destinato ad affascinare il pensiero e la prassi dei mistici ebrei: il Sefer ha-bahir o «libro dell’illuminazione». Scritto in forma di dialogo tra alcuni maestri e i loro discepoli, condensa molte interpretazioni scritturali dove compare, per la prima volta, la dottrina delle dieci sefirot o emanazioni divine, concepite come veri e propri attributi della presenza di Dio nel mondo, e se messe in relazione tra di loro danno forma a una specie di albero, noto come albero sefirotico o albero della vita, una delle « immagini » più diffuse che sintetizzano appunto gli elementi costitutivi della qabbalà.
Un terzo testo fondamentale è il Sefer ha-zohar, o «libro dello splendore», a ragione il più noto e il più lungo, vera summa di commenti mistici sulla Torà, attribuito (per accrescerne l’autorevolezza) al maestro del II secolo Shimon bar Jochaj ma in realtà, come gli storici hanno appurato, compilato agli inizi del XIII secolo nell’ambito del giudaismo castigliano, forse (secondo l’ipotesi di Scholem) da Moshè de Leon di Villadolid.
Lo Zohar, come è chiamato per brevità, contiene un po’ tutte le dottrine del misticismo ebraico dei secoli precedenti, che vengono riorganizzate in un linguaggio esoterico ricco di metafore, tra cui un’immagine divina composta di una parte maschile e una parte femminile in costante desiderio di unificarsi. Nello Zohar non mancano comunque riflessioni sul male, sulla teodicea, sulla reincarnazione delle anime e sui complessi rapporti tra le varie emanazioni o attributi divini.
In questa tradizione mistica – che secondo il pensiero ebraico ortodosso è stata consegnata da Dio, come la Torà, a Mosè sul Monte Sinài – due testi biblici costituiscono dei paradigmi imprescindibili: il primo capitolo della Genesi e il terzo capitolo di Ezechiele. L’incipit della Bibbia dà origine a una riflessione chiamata ma’asè bereshit, oOpera della creazione, mentre la visione del profeta sulla figura del carro divino, che pertanto si chiama ma’asè merkavà o Opera del carro, ispira una spiritualità dell’ascesa; insieme rappresentano due tendenze speculative e due generi letterari, come spiega Giulio Busi nell’introduzione alla miglior antologia sulla qabbalà disponibile oggi in Italia (Mistica ebraica, Einaudi 1999), cui fanno riferimento un po’ tutte le scuole qabbalistiche, quasi a voler indicare una via discendente e una via ascendente per cogliere i segreti divini nascosti nelle Sacre Scritture.
Non deve essere infatti mai dimenticato che questi testi esoterici sono comunque uno sforzo interpretativo, da parte dei maestri del giudaismo, per meglio comprendere la Rivelazione biblica e per compiacere Dio osservando i suoi comandamenti. A questo scopo le dottrine qabbalistiche danno tutte grande importanza al linguaggio e ai suoi elementi costitutivi, ossia all’alfabeto ebraico, che per un mistico contiene già, seppure in nuce, tutti i segreti della Creazione, della Rivelazione e persino della Redenzione, essendo le lettere ebraiche veri ricettacoli della potenza divina. La loro contemplazione è già contemplazione della potenza divina che opera nel cosmo, e la loro conoscenza associa chi ne studia le combinazioni alla stessa creatività di Dio. Questo spiega perché nei secoli passati la qabbalà sia stata così spesso accostata all’alchimia, all’arte della trasformazione dei metalli con il fuoco (altra metafora che ricorre spesso nel corpus mistico ebraico) e alla rigenerazione dell’anima.
Sempre secondo alcuni storici del giudaismo, questa corrente mistica rifiorì nella Catalogna e nella Castiglia del XIII e XIV secolo come reazione al razionalismo di stampo aristotelico tipico della filosofia ebraica ispirata da Maimonide. Che si tratti di una reazione oppure di un germoglio autoctono, che affonda le sue radici nel movimento dei profeti biblici, è storicamente determinante il fatto che, con la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, anche la qabbalà emigra dalla penisola iberica verso le altre sponde del Mediterraneo, in particolare nella Grecia e nella Turchia dell’impero ottomano e in Palestina, o meglio in Galilea, nella città di Safed. Qui emergono qabbalisti di prim’ordine, veri e propri filosofi della mistica ebraica, come Joseph Caro (1488-1575), Solomon Alkebez (1505-1584), Moshè Cordovero (1522-1570) e soprattutto Izchaq Luria (1534-1572) che, seppur morto giovane, influì enormemente sul pensiero mistico grazie agli scritti del suo discepolo Chajjim Vital (1542-1620).
A Vital dobbiamo la divulgazione delle idee altamente speculative di Luria, per il quale la creazione del mondo altro non sarebbe che un atto di autorestringimento di Dio, lo tzimtzum, in virtù del quale Dio, che è il Tutto, dovette «restringersi», quasi contrarsi in se stesso, onde far posto al mondo come realtà autonoma e indipendente. Altra famosa teoria qabbalistica di matrice luriana è la concezione che nel mondo esistano qua e là scintille di luce divina, sparse e seminascoste nella materia, precipitate dai «vasi» che le contenevano e che si sarebbero rotti al momento della creazione. Compito dei giusti nella vita è quello di riconoscere queste scintille e di liberarle dalle scorze che le tengono prigioniere, al fine di riunirle all’energia divina.
Per Luria e Vital, in fondo, tutta la mistica ovvero la qabbalà non sarebbe altro che uno sforzo da parte ebraica per riunire le scintille divine sparse nell’universo (forse le anime dei giusti che soffrono) e nell’accelerare così il processo dell’avvento messianico. A queste dottrine si rifece un secolo dopo il falso-messia Shabbataj Zevi, che si appoggiò all’autorità delle dottrine esoteriche per giustificare prima la sua presunta messianicità e poi la sua tragica apostasia (a Costantinopoli per aver salva la vita si convertì all’islam).
Anche il giudaismo italiano diede un contributo significativo allo sviluppo della mistica sia nel periodo medioevale che nell’età moderna. Essendo terra di mezzo tra le comunità di Palestina e quelle della Provenza e della valle del Reno, nell’Italia centro-meridionale fiorirono molte scuole talmudiche aperte alla speculazione mistica.
Tre nomi possono richiamare tale contributo: Menachem Recanati, attivo tra il XIII e il XIV secolo, che lasciò un prezioso commento alle dieci sefirot, che fu studiato nel Rinascimento anche da Giovanni Pico della Mirandola, tra i primi umanisti cristiani a esplorare i testi della qabbalà; Moshè Chajjim Luzzatto (1707-1747), ebreo padovano autore di opere sia qabbalistiche che morali, che fondò anche un circolo di mistici dediti alla lettura continuata dello Zohar e che a motivo di questa frequentazione venne allontanato dall’Italia (si rifugiò prima in Olanda e poi emigrò a sua volta in Galilea); e infine Elia Benamozegh (1823-1900), livornese di origini sefardite, forse l’ultimo grande rabbino italiano che coltivasse la qabbalà e che ne sapesse integrare gli insegnamenti con il tradizionale pensiero talmudico.
Nachmanide, un grande qabbalista sefardita del XIII secolo, afferma che tutta la Torà sarebbe stata data sul Monte Sinài come una sola grande parola, un testo continuato, senza interruzione alcuna. Mosè l’avrebbe però intesa nella forma che noi conosciamo, già suddivisa in libri, sezioni e comandamenti, e la trasmise come Torà scritta. Tuttavia egli la udì anche come un’unica parola, come il Nome completo di Dio «scritto con fuoco nero su fuoco bianco». La qabbalà è ricerca di questo Nome che come un fuoco vibra continuamente nel testo scritto (fuoco nero) non meno che nella sua continua interpretazione orale (fuoco bianco) da parte della comunità che la accoglie; ma è una ricerca che non pretende mai di trovare ciò che cerca, ben consapevole che tutte le nostre parole umane non possono contenere neppure una parte della verità divina, la quale nei testi sacri più che apparire ama nascondersi, appunto per farsi cercare ogni volta come daccapo. Non a caso nella tradizione qabbalistica Dio è chiamato Ein Sof, il Senza Fine. Questo è il messaggio del misticismo ebraico, che non smette fino a oggi di affascinare gli ebrei come i non ebrei.
Massimo Giulian

Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.