“Noè procedeva con D-o” : l’universalismo ebraico – di Rav Riccardo Di Segni (2009)

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I presupposti e le finalità per proseguire i colloqui tra le religioni nell’intervento del Rabbino Capo alla Giornata del dialogo ebraico-cristiano

“Noè procedeva con D-o” : l’universalismo ebraico - (2009)

di Rav Riccardo Di Segni

Desidero prima di tutto ringraziare gli organizzatori di questa sessione di studio per l’invito che mi è stato rivolto e per l’occasione che è stata creata per un fecondo scambio di idee, partendo da un’immagine biblica. L’incontro si svolge in una sede che non ho mai visitato, ma della quale ho sentito molto parlare; per molti anni ho avuto il privilegio di lavorare su obiettivi comuni di divulgazione biblica con un gruppo di sacerdoti usciti da questa scuola ed ho avuto la possibilità di apprezzarne, oltre alla solida cultura, uno spirito di grande apertura e disponibilità al confronto. Per una scuola penso questi siano i risultati più lusinghieri e posso solo augurarmi che un’impostazione così feconda possa ancora continuare a lungo. Veniamo ora al nostro tema, “Noè procedeva con D-o” : l’universalismo ebraico. C’è veramente da chiedersi in che modo abbia a che fare con l’universalismo e con i rapporti tra ebrei e cristiani. Potremmo dire con una battuta che, a prima vista, l’unica cosa di universale nella storia di Noè è il diluvio. La Bibbia racconta che l’umanità era arrivata ad un tale punto di degenerazione che D-o decise di distruggerla completamente, salvando soltanto una famiglia, quella di Noè, che si era distinto rispetto ai contemporanei per un comportamento giusto e corretto. Mentre tutti perivano sommersi da un diluvio, Noè si salvò con i suoi e con ogni specie animale dentro un’arca. L’intera umanità discende dunque dalla famiglia di Noè; per questo tutte le genti vengono chiamate, nel linguaggio rabbinico, Noachidi, figli di Noè. L’interpretazione rabbinica si è a lungo soffermata a riflettere sui messaggi che il testo biblico manda sulla persona che diventa il nostro comune patriarca e sulla storia della sua salvezza. Di Noè il testo dice, presentandolo, che “era giusto e integro nella sua generazione e che procedeva con D-o”. Il fatto che il testo precisi che era giusto nella sua generazione, fa pensare che se la generazione fosse stata moralmente un po’ al di sopra, forse Noè non avrebbe fatto quella figura di giusto eccezionale. Ma almeno ai suoi tempi lo era. Quanto a quella che potremmo definire la sua « religiosità », il testo specifica che « Noè procedeva con D-o ». Per capire il valore e il limite di quest’espressione dobbiamo fare un salto in avanti. Di Abramo, il giusto che compare dieci generazioni dopo Noè, il testo dice che ricevette il comando divino di procedere davanti a Lui. Un conto è andare insieme, un conto è precedere. Praticamente Noè faceva il suo dovere, seguiva onestamente le regole, ma non si spingeva oltre con slanci d’entusiasmo. E ancora, sempre a confronto con Abramo: quando gli viene annunciato che l’umanità sarà distrutta e che per scampare dovrà costruirsi un’arca, Noè reagisce come sempre, obbedendo senza fiatare. Abramo, quando gli viene annunciata la distruzione imminente di Sodoma e Gomorra, intraprende un’estenuante trattativa con D-o cercando di salvare le città peccatrici. Ci sono persone normali, e ci sono persone speciali. Abramo è il prototipo delle persone speciali. Noè di quelle oneste ma comuni e senza slanci. Il dato notevole è che secondo la Bibbia è bastato essere comune e senza entusiasmi particolari per salvarsi e fondare una nuova intera umanità. È noto che la dottrina religiosa ebraica costruisce intorno al nome di Noè e dei suoi discendenti una dottrina di doppia legge e doppia salvezza. L’umanità intera non può sfuggire al giogo della legge divina, che si esprime in almeno sette principi essenziali. Questi principi sono espressi in tradizioni orali rabbiniche che si basano, con maggiore o minore evidenza, su riferimenti scritturali. Nella famiglia umana esiste però un gruppo particolare, quello dei figli d’Israele, anch’essi originariamente Noachidi, ma che in virtù della discendenza da Giacobbe –Israele, nipote e prosecutore di Abramo, si distinguono in quanto devono osservare una normativa molto più estesa, fatta anche di altre regole, in parte religiose cerimoniali. E’ una condizione che potremmo definire sacerdotale e di servizio: « un regno di sacerdoti e un popolo distinto ». Il fatto che gli uni siano sacerdoti con rigori e leggi speciali, e gli altri non lo siano, non preclude agli altri i premi e la salvezza. La grande novità di questa dottrina rabbinica è che non è necessario sottoporsi alla dottrina speciale del sacerdozio Israelita per ottenere i premi futuri che sono promessi agli Israeliti. Universalismo ebraico significa due strade parallele verso la salvezza; è sufficiente che ognuno segua la strada in cui si trova dal momento della sua nascita e ne rispetti le relative norme. Il Noachide, che segue le sue sette regole e ne riconosce l’origine divina, viene definito « il fervente delle nazioni del mondo » e ha parte nel mondo futuro. Queste regole sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello monoteistico, il divieto della bestemmia, l’obbligo di costituire tribunali, il divieto dell’omicidio, del furto, dell’adulterio e dell’incesto, il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita. Rappresentano il rispetto imposto sulla creazione, sugli altri uomini e in rapporto con D-o. Se trasferiamo questi principi dalla teoria alla realtà possiamo vedere che la parte sociale delle sette leggi è patrimonio comune di tutta l’umanità civile; che la normativa sessuale è più o meno condivisa nella legislazione civile, ed è certamente prescritta in quelle religiose; che la norma di rispetto degli animali è raramente trasgredita. La bestemmia è certamente proibita nei sistemi religiosi. Quanto al culto monoteistico, apparentemente non ci sono dubbi per le grandi religioni. Per i cristiani in particolare, poi, il fatto che riconoscano sacralità alla Bibbia vale come riconoscimento dell’origine divina delle norme. Arrivati a questo punto parrebbe che non c’è alcun dubbio sul fatto che ognuno per la sua strada, cristiani ed ebrei osservanti, si possa arrivare alla salvezza promessa. Detto questo, potremmo aver finito, ma le cose non stanno proprio così. E sarà bene spiegarlo, perché i chiarimenti su questo problema illuminano sulle difficoltà attuali del confronto ebraico cristiano e danno gli strumenti per definire gli scenari futuri. È necessario a questo punto un chiarimento sulla teologia ebraica, che sul tema del monoteismo e di come sia vissuto dal cristianesimo si dibatte in un dilemma essenziale. Si discute se la divinità di Gesù possa essere compatibile per un non ebreo (perché per l’ebreo non lo è assolutamente), con l’idea monoteistica. La risposta a questa domanda nella teologia ebraica, come c’era da aspettarselo, non è univoca: c’è chi la nega fermamente, c’è chi l’ammette a certe condizioni. La conseguenza è che secondo l’opinione rigorosa il cristiano potrebbe non essere nella strada per la salvezza. Posso immaginarmi quale sia la reazione di ogni cristiano davanti a queste analisi. Posso immaginarlo, perché il senso di incredulità, di protesta, di ribellione che si provano sono gli stessi che possono provare gli ebrei quando viene loro detto da autorità cristiane che la loro fede è incompleta, e non può condurre, se non per caso imperscrutabile, alla salvezza. E’ incompleta, perché non coronata dalla fede nella salvezza in Gesù. Molti ebrei hanno protestato lo scorso anno quando un documento ufficiale e notissimo della Chiesa ha ribadito questo concetto. Ma il problema non è tanto quello della convinzione della Chiesa nella necessità per gli ebrei di salvarsi attraverso Gesù. Il vero problema è che cosa si fa di questa convinzione. Se si dovesse applicare alla lettera il sistema delle leggi Noachidi, si dovrebbe fare di tutto perché i Noachidi le osservino, anche per ciò che riguarda il divieto di culti estranei. Ognuno dovrebbe diventare un missionario della fede pura. Eccoci dunque al nodo attuale del dialogo e del confronto. A che cosa serve parlarci? Ciò che veramente dà fastidio agli ebrei è che sia stato detto in documenti ufficiali cattolici che lo scopo del dialogo è quello di convertire l’interlocutore alla propria fede. E se facessimo anche noi lo stesso, se usassimo ogni occasione di confronto per convincervi che state sì sulla buona strada, ma che dovete « purificare » la vostra fede eliminando ciò che per voi invece è essenziale? La domanda che allora si pone è se vi siano alternative a questo dialogo tra sordi, che rischia di diventare irrispettoso e indecoroso per la dignità di ognuno. Posso provare a immaginare due scenari, diversi ma non necessariamente contraddittori. Il primo è di tipo essenzialmente teologico, il secondo prevalentemente politico. La prima soluzione si riferisce alla possibilità di elaborare in entrambe le parti una dottrina che potremmo chiamare, con un nome indicativo, di salvezza parallela. I cristiani dovrebbero arrivare ad ammettere che gli ebrei, in virtù della loro elezione originaria e irrevocabile, e del possesso e dell’osservanza della Torà, possiedono una loro via autonoma, piena e speciale verso la salvezza che non ha bisogno di Gesù. Non basta dire, come si è fatto proprio recentemente e con un lodevole sforzo di elaborazione dottrinale, che la nostra « attesa non è vana » perché serve a stimolare i cristiani; bisogna dire che noi valiamo in quanto tali e nessuno deve giustificare la nostra fede in funzione di altre. Le conseguenze sarebbero, in concreto, la fine di ogni tentazione cristiana di trasformare il dialogo in un sistema di dolce persuasione, demotivando le diffidenze ebraiche. Da parte ebraica a questo movimento dovrebbe corrispondere l’affermazione del principio che la fede in Gesù non sia incompatibile, (beninteso per i cristiani, non per gli ebrei) con il culto del D-o unico. Principio che è accettato in tradizioni autorevoli dell’ebraismo, ma che dovrebbe diventare prevalente e maggioritario. Ne deriverebbe da parte ebraica una maggiore comprensione della spiritualità cristiana. Ora, chiunque abbia una minima esperienza sulle modalità di sviluppo delle teologie in ognuno dei due campi potrà comprendere le difficoltà ad arrivare a questi risultati, almeno in tempi brevi e contestuali tra i due mondi. E allora si propone l’altro scenario, che potrebbe essere definito politico, e che consiste essenzialmente nella volontà di una sorta di moratoria, di una sospensione e di un rinvio all’imperscrutabile volontà superiore alla fine dei giorni. Due grandi ebrei, a distanza di undici secoli e schierati in campi opposti, hanno forse detto la stessa cosa. Il primo, Saul di Tarso, l’apostolo Paolo, davanti al dato per lui inesplicabile dell’incredulità ebraica, ha formulato in ‘Romani 10:25’ l’idea dell’ostinazione di Israele che durerà finché tutti gli altri popoli non arriveranno alla salvezza, e solo allora « tutto Israele sarà salvato ». Il secondo, Mosè Maimonide, nelle norme sui Re del suo codice (cap. 11), dopo aver denunciato l’invalidità della fede di Gesù, ha comunque formulato un’interpretazione sul significato provvidenziale della diffusione del cristianesimo, « per preparare la strada per il re Messia, e aggiustare il mondo intero al servizio di D-o insieme, come è detto ‘perché allora riverserò sui popoli una lingua chiara perché tutti invochino il nome del Signore e Lo servano unanimemente’ « (Zef. 3:9). Forse il pensiero parallelo dei due suggerisce la soluzione, che non può essere immediata ma escatologica. Entrambi abbiamo il diritto di sperare che l’altro riconosca in noi la vera fede, ma lasciamo che la cosa si svolga in tempi lunghi e incontrollabili. Abbiamo un esempio drammatico e attuale, a noi molto vicino, che ci suggerisce delle analogie: il conflitto israeliano-palestinese. Due popoli, due culture che si contendono la stessa terra. Per entrambi la terra, teoricamente desiderata, in base a storia, fede e politica è la stessa, dal mare al Giordano e forse oltre. Dal punto di vista politico si dice che l’alternativa alla violenza e al sangue potrebbe essere la spartizione della terra. Ma questo non significa che si debba rinunciare a memorie, alla sacralità dei luoghi, ai sogni. Solo che il sogno non si può realizzare subito. Molti non cessano di ripetere che la priorità è quella di una rinuncia territoriale per ognuna delle parti. Per i sogni, ciascuno dal suo punto di vista, c’è tempo. Il realismo politico che quasi tutti predicano potrebbe forse essere un modello di comportamento nel contenzioso teologico ebraico-cristiano. Anche se in questo contenzioso non vi sono oggi vite in pericolo (forse delle anime, in qualche visione estrema), le necessità e le responsabilità impongono un clima diverso, senza rinunciare alle proprie convinzioni, e al sogno che forse alla fine dei tempi la propria fede sarà l’unica. Ma nel frattempo occorre togliere quest’obiettivo dall’agenda e limitare il confronto a tutto il resto, che non è certo poco. Prospettando i due possibili scenari, si parte dal presupposto teorico che l’unico problema del dialogo ebraico cristiano sia rimasto quello della conversione dell’altro. Malgrado i notevoli progressi non è così, perché segnali di arresto e di inversione di tendenza sono sempre presenti, anche su temi e problemi che si dovrebbero ritenere risolti, come ad esempio quello della predicazione. Appena una settimana fa, nella più autorevole delle sedi, sono ricomparsi concetti e metodi che rischiano di rimandarci al passato. A proposito del conflitto mediorientale si è riparlato della legge del taglione la cui logica, è stato detto, non « è adatta per preparare le vie della pace ». Siamo sensibili a questo vocabolario, perché la legge del taglione – peraltro inesistente nel diritto rabbinico – è un simbolo teologico preciso della contrapposizione, falsa e inaccettabile, tra una presunta religione di amore e un’altra invece giustizialista. Come se non bastasse, appare ulteriormente rischioso l’uso di una categoria teologica per interpretare e giudicare un comportamento politico. Se si parla di « logica del taglione », concetto religioso, nel contesto mediorientale, si rischia di attribuire ai contendenti un’originaria tara culturale e religiosa e questo giudizio non facilita certo « le vie della pace ». Torniamo, per concludere, al nostro antenato Noè che abbiamo lasciato in un’arca galleggiante sull’acqua. Sappiamo come finisce la storia. Noè esce dall’arca, pianta una vite e succede quello che succede. L’uomo che si salva dall’acqua non si salva dal vino. L’uomo, ish, che aveva esordito come ish tzadìq, uomo giusto (Gen. 6,9), finisce come ish haadamà, uomo della terra (Gen. 9,20). C’è un altro personaggio biblico – Mosè – che esordisce come salvato dall’acqua, estratto da una barca resa impermeabile con gli stessi materiali usati per l’arca di Noè. E anche per lui c’è una metamorfosi nel suo essere ish. Da ish mitzri, uomo egiziano (Es. 3,19), a ish haeloqim, uomo di D-o (Deut. 33,1). Se siamo tutti figli di un antenato comune, troppo umano e discutibile, possiamo anche essere discepoli di Maestri speciali, come Mosè nostro Maestro. Per questo abbiamo apprezzato il viaggio del Papa nel Sinai, come ricordo alla cristianità della Torà data dal cielo a Mosè. Non è poco come elemento comune da testimoniare al mondo, ognuno nella sua strada. La Torà è stata data nel deserto, in una terra di nessuno e senza acqua. L’acqua del diluvio ha sommerso tutto il mondo, portando la morte, ma noi aspettiamo il giorno in cui « tutta la terra sarà piena della conoscenza di D-o come l’acqua ricopre il mare »(Isaia 11:9). Non è difficile definire obiettivi comuni: rispettare l’uomo come immagine divina, dargli dignità, solidarietà e giustizia, portare il senso del sacro nel mondo. Davanti a questi obiettivi le piccole prepotenze teologiche, che discendono in gran parte dal desiderio più o meno inconscio di imporre agli altri in tempi brevi la propria verità, appaiono veramente come meschinità. Noè, uscendo dall’arca, riceve l’assicurazione che l’umanità non sarà più distrutta interamente da D-o. Questo rischio invece esiste ora, non per mano divina, ma per mano umana, senza altre garanzie che quelle della nostra responsabilità, a cui evidentemente non possiamo sfuggire, specialmente come religioni, con gli impegni e con i fatti prima ancora che con le forme e le cerimonie. È questo il messaggio autentico dei profeti, che riconosciamo come radice comune; e la consolazione promessa della misericordia divina ricorderà ancora le acque di Noè, non più segno di distruzione ma segno di protezione; come dice il profeta Isaia (54:9): « quest’impegno è per Me come le acque di Noè: come ho giurato che non passeranno più sulla terra, così ho giurato di non adirarmi più contro di te ».

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