Romani 11: La radice dell’ulivo
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Romani 11: La radice dell’ulivo
(Chiesa Evangelica)
La metafora dell’albero d’ulivo espressa dall’apostolo Paolo è una delle più fraintese, ed ha procurato grandi dolori alla chiesa.
«E se la radice è santa, anche i rami son santi. E se pure alcuni dei rami sono stati troncati, e tu, che sei olivastro, sei stato innestato in luogo loro e sei divenuto partecipe della radice e della grassezza dell’ulivo, non t’insuperbire contro ai rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice che porta te. Allora tu dirai: Sono stati troncati dei rami perché io fossi innestato. Bene: sono stati troncati per la loro incredulità, e tu sussisti per la tua fede; non t’insuperbire, ma temi» (Romani 11:16b-20)
Anche la letteratura rabbinica ha utilizzato la metafora dei Gentili che vengono innestati come dei rami nell’albero d’Israele. C’è un detto che dice:
«I due bei rami che Dio ha innestato in Abrahamo sono Ruth e Naamah, i quali hanno scelto di essere piantati in Israele come proseliti». Rabbi Eleazar disse (T.Bab. Yevamot 63a): «Qual è il significato di: “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12:3)? Il santo, Benedetto Egli sia, disse ad Abrahamo: “Io ho due rami da innestare in te: Ruth la Moabita e Naamah l’Ammonita”. La frase “tutte le famiglie della terra” significa che anche le altre famiglie della terra sono benedette per mezzo d’Israele…».
Leggendo Romani 11 con occhi ebraici, possiamo dire che l’apostolo Paolo utilizza la metafora dell’innesto per dimostrare graficamente il piano di Dio di benedire tutte le nazioni del mondo attraverso Abrahamo.
Paolo ha affermato in Romani 11:1 che Dio non ha rigettato il suo popolo. Parlando metaforicamente, egli ha paragonato il popolo d’Israele ad un ulivo domestico (naturale). A causa dell’incredulità, alcuni rami dell’albero, ma non tutti, sono stati tagliati, ed al loro posto sono stati innestati dei rami selvatici. Paolo ha anche sottolineato, comunque, che reinnestare i rami naturali nell’albero coltivato, sarebbe stato un compito molto più semplice che innestare in esso dei rami selvatici.
L’apostolo ha parlato d’Israele come di un « ulivo domestico » le cui radici erano nei patriarchi, in particolare Abrahamo (Romani 11:28 conferma che Paolo aveva in mente i patriarchi). Qualche commentatore biblico, tuttavia, ha interpretato la radice dell’ulivo come Cristo o il suo vangelo (nei tempi antichi, i padri della Chiesa; nei tempi moderni, Karl Barth per esempio). Questa è un’idea molto pericolosa, molto vicina all’altra, vecchia e marcia, che la radice rappresenta il Nuovo Israele, cioè la Chiesa.
Una volta che un esegeta collega la metafora della radice di Paolo alla Chiesa, non può evitare facilmente la successiva e più perniciosa conclusione: l’Israele carnale ha cessato di esistere tanto tempo fa. Rigettando l’Israele carnale, Dio ha ceduto il suo posto ad un altro. Quell’altro sarebbe la Chiesa.
Ci sono sostanzialmente due motivi per cui la radice dell’ulivo è stata erroneamente interpretata come simboleggiante il Messia. Il primo è dovuto alla parola greca riza (radice) che ricorre in Romani 11:16. Riza sembra essere in parallelo con la parola greca aparche (primizia), la quale rimanda a 1Corinzi 15:20,23 dove Paolo si è riferito a Gesù, il Messia, come all’aparche – «la primizia di quelli che dormono».
Le due parti di Romani 11:16, tuttavia, dovrebbero essere lette sia insieme che indipendentemente. Il Nuovo Testamento è stato diviso in versi nel 1551. Questa divisione è molto utile per cercare un verso, ma nello stesso tempo può influire sull’interpretazione. Nel nostro caso, il verso 16a («e se la primizia è santa, anche la massa è santa») appartiene principalmente alla discussione precedente, dove aparche si riferisce ai primi seguaci ebrei di Gesù. Paolo usa il termine in questo senso sia in Romani 16:5 («Epeneto, che è la primizia dell’Asia»); sia in 1Corinzi 16:15 («la famiglia di Stefana…la primizia dell’Acaia»). In Romani 16:11 Paolo chiede: «Hanno essi così inciampato da cadere?». Il verso 16a serve come argomento aggiuntivo che questo non era il caso.
Il ragionamento di Paolo riguardo al suo popolo include un’allusione a Numeri 15:17-21: «L’Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo: Parla ai figliuoli d’Israele e di’ loro: Quando sarete arrivati nel paese dove io vi conduco, e mangerete del pane di quel paese, ne preleverete un’offerta da presentare all’Eterno. Delle primizie della vostra pasta metterete da parte una focaccia come offerta; la metterete da parte, come si mette da parte l’offerta dell’aia. Delle primizie della vostra pasta darete all’Eterno una parte come offerta, di generazione in generazione».
Agli Israeliti era stato ordinato di presentare come offerta un pane ottenuto dalla primizia del raccolto del grano. Questo pane rappresentava l’intero raccolto della stagione, e dunque l’intero raccolto sarebbe stato santificato. Il numero relativamente piccolo di Giudei che hanno accettato Gesù come Messia era, parlando figurativamente, la primizia della nazione d’Israele. Proprio come l’offerta del pane, la primizia della nazione era garanzia della santificazione di tutta la nazione. Per Paolo, questa minoranza che aveva creduto al messaggio del vangelo dimostrava che la nazione ebraica non era stata rigettata. La sua « caduta » non era né completa né definitiva. Dio non aveva abbandonato il popolo in favore di un altro.
Paolo conclude i suoi pensieri sulla situazione d’Israele con questa prima metafora della massa. Malgrado Israele sia inciampata, la fedeltà di una parte della nazione aveva delle implicazioni spirituali che facevano da garanzia per tutta la nazione, ovvero, la fedeltà dei credenti Giudei in Gesù è una garanzia per tutto il popolo giudaico! Se la primizia è santa, anche la massa è santa (v.16a). A questo punto, Paolo sposta la discussione in una nuova direzione.
Egli volge la sua attenzione ai credenti Gentili, nel tentativo di metterli in guardia contro un inappropriato orgoglio. Probabilmente esisteva un mascherato sentimento anti-giudaico tra i membri Gentili della Chiesa di Roma. Questi credenti avrebbero volentieri sfruttato il vantaggio dei privilegi garantiti dal governo Romano alla religione giudaica, ma nello stesso tempo desideravano essere considerati diversi da quella comunità (ciò che in effetti è avvenuto non molti anni dopo).
Paolo introduce l’immagine degli ulivi, quello domestico e quello selvatico, e in tale immagine, i rami naturali che sono rimasti rappresentano i credenti Giudei. Nel suo pensiero, sia i Giudei che avevano accettato Gesù come Messia, sia quelli che non lo avevano accettato, erano figli di Abrahamo; i primi attraverso la fede e l’eredità fisica, i secondi solo per l’eredità fisica. La radice era santa, e, quindi, anche tutti i rami naturali lo sarebbero stati. Ma alcuni di essi sono stati troncati ed al loro posto sono stati innestati dei rami selvatici, i quali hanno poi tratto beneficio dalla radice e, come i rami naturali, ora anch’essi sono santi.
Il secondo e più influente motivo che ha condotto ad interpretare erroneamente la metafora della «radice» come se fosse il Messia, si trova in un altro brano messianico a cui Paolo fa riferimento: «la radice di Iesse». In Romani 15:12, l’apostolo cita Isaia 11:10 dalla versione Septuaginta: «Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili». Il testo Masoretico legge: «In quel giorno, verso la radice d’Isai, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le nazioni, e il luogo del suo riposo sarà glorioso». A sua volta Giovanni, nell’Apocalisse, si riferisce a Gesù come alla «radice [rampollo] di Davide» (Apocalisse 5:5; 22:16).
In Isaia 11 la «radice d’Isai» ricorre due volte, una nel v. 1 e l’altra nel v. 10. Paolo ha scelto di citare dal meno chiaro v. 10 d’Isaia, che sembra indicare che la «radice d’Isai» s’innalzerà per diventare un Vessillo sopra le nazioni. Probabilmente il v. 10 ha attirato l’attenzione di Paolo a causa della parola «nazioni» o «Gentili», che invece non ricorre nel v.1. Egli ha voluto sottolineare che il Messia era venuto sia per i Giudei che per i Gentili. Romani 15:9-12 è un insieme di testi profetici che enfatizzano la venuta del Messia per i Gentili.
Isaia 11:10 non può essere letto indipendentemente da Isaia 11:1. I commentatori ebraici sia tradizionali che moderni hanno fatto frequente menzione di questo fatto. Ad esempio, il Radak (un acronimo per Rabbi David Kimchi, un famoso esegeta biblico che visse in Francia tra il XII e il XIII secolo), dice riguardo «la radice d’Isai» del v.10:
«questi è colui che esce dalla radice d’Isai, come è scritto: e un rampollo spunterà dalle sue radici (v. 1), poiché Isai è la radice». Sia il Targum Onkelos che quello di Jonathan hanno reso il v.1: «E un re uscirà dai figli d’Isai, e il Messia dai figli dei suoi figli sarà unto». La frase «radice d’Isai» è una forma abbreviata di «un germoglio della radice d’Isai». È il ramo (h?oter) o il rampollo (nes?er) e non il tronco o la radice, che simboleggia la futura figura messianica.
Paolo ha inteso Isaia 11:10 nello stesso senso degli esegeti ebrei tradizionali. Egli ha fatto un’allusione al brano d’Isaia anche mentre predicava in una sinagoga di Antiochia di Pisidia (Atti 13:22,23), descrivendo Gesù come il Salvatore discendente dalla progenie di Iesse (Isai). Qui la progenie corrisponde alla radice di Iesse, dalla quale è spuntato il germoglio Gesù.
Leggere Romani 11:16b-24 insieme a Rom.15:12 senza considerare correttamente Isaia 11:1,10 può condurre facilmente a delle conclusioni sbagliate. La «radice di Iesse» non dovrebbe essere paragonata con la radice santa dell’albero dell’ulivo. Benché Isaia 11:10 parli metaforicamente della «radice d’Isai», questo verso deve essere letto alla luce di Isaia 11:1. «La radice d’Isai» del v. 10 si riferisce al ramo che esce dalla radice (tronco) d’Isai.
Ma se Paolo, quando scriveva Romani 11:16b-24, non pensava ad Isaia 11:10, da dove ha ricavato la sua metafora? Proviamo a considerare Geremia 11:16, dove il profeta parlava di un bello e verdeggiante ulivo i cui rami correvano il pericolo di essere infranti. La Riveduta traduce:
«L’Eterno t’aveva chiamato Ulivo verdeggiante, adorno di bei frutti. Al rumore di un gran tumulto, egli v’appicca il fuoco e i rami ne sono infranti».
La CEI che qui si avvicina di più alla versione greca della Septuaginta legge diversamente:
«Ulivo verde, maestoso, era il nome che il Signore ti aveva imposto. Con grande strepito ha dato fuoco alle sue foglie, i suoi rami si sono bruciati».
Indipendentemente da quale testo, ebraico o greco, Paolo aveva in mente, la metafora è coerente con quella di Romani 11:17. Nell’allegoria di Geremia, l’ulivo simboleggiava chiaramente il popolo d’Israele. Il profeta ha metaforicamente parlato dell’albero per indicare la casa d’Israele (Geremia 11:10), il popolo (Geremia 11:14) e l’amato di Dio (Geremia 11:15). In Romani 11:28, Paolo ha parlato d’Israele come amato da Dio, e sembra aver seguito la guida del profeta Geremia nel paragonare il popolo ebraico ad un ulivo. Paolo non era stato dunque il primo a fare un tale confronto. Geremia aveva fatto lo stesso nel sesto secolo a.C.
Scrive Marvin R. Wilson: «Così la Chiesa, fermamente piantata nel terreno ebraico, trova la sua vera identità, collegata ad Israele. La Chiesa viene nutrita, sostenuta e sorretta da questa relazione» (Marvin R. Wilson, Abrahamo nostro padre, p. 45). Ed ancora: «Perciò, l’insolito tipo di innesto qui descritto, prendere ciò che è selvatico per natura e unirlo intimamente a qualcosa di scelto e di coltivato, sottintende che, ciò che è ritenuto indegno e non ha nulla di che vantarsi, improvvisamente riceve valore da questa nuova connessione… I gentili, che semplicemente stanno «ritti per la fede» (Rom.11:20) senza pretesa di merito umano o di superiorità, ricevono ora nuova vita e vigore grazie al popolo ebraico… Fermamente sostenuti dalla robustezza della radice dell’ulivo, i gentili non possono far spazio a uno spirito di arroganza, di orgoglio o di autosufficienza. Dipendono dagli Ebrei per la salvezza e per l’esistenza spirituale… Dal tempo di Paolo fino ad oggi, la chiesa ha considerato la sua esistenza indipendentemente da Israele. Nella concezione paolina, qualsiasi chiesa che esistesse indipendentemente da Israele, cessava di far parte del piano di salvezza di Dio e diventava semplicemente un’altra società religiosa… Si potrebbe dire che affinché un gentile abbia una giusta relazione con Dio, egli deve accettare e apprezzare umilmente un Libro ebraico, credere in un Signore ebreo, ed essere innestato nel popolo ebraico, conformandosi, di conseguenza a quell’ambiente… In breve, la questione fondamentale è riuscire a comprendere se noi che prima non eravamo il Suo popolo, e che lo siamo diventati solo per grazia, possiamo imparare qualcosa da quello che fin dall’antichità è stato il Suo popolo» (Marvin R. Wilson, op. cit., pp. 47-49).
Riflessioni storiche
Bisogna guardare con apprensione l’erronea associazione che alcuni “cristiani” hanno fatto nel corso della storia tra Romani 11:17 e Giovanni 15:6: «Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; cotesti tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano». Questi due versi condividono la comune immagine dei rami. In Giovanni, i rami (tralci) rappresentano il popolo che non dimora in Cristo. Essendo stati gettati via, questi rami vengono raccolti e bruciati. I rami di Romani 11 non sono stati bruciati, ma aspettano di essere nuovamente innestati.
Introdotta da Papa Innocenzo III (1198-1216) ed eseguita principalmente dai Domenicani e dai Francescani, l’Inquisizione ha raggiunto il suo zenit in Spagna tra il 1474 e 1504, durante il regno del re “cristiano” di Castiglia, Ferdinando V e della sua regina Isabella, gli stessi che hanno finanziato il viaggio di Cristoforo Colombo (di sospetta origine ebraica). Tranne brevi intervalli, l’Inquisizione è continuata fino al 1820!
Nel 1483 Ferdinando ed Isabella hanno nominato il loro confessore, Tommaso de Torquemada (1420-1498), un priore dell’Ordine dei Domenicani, come Grande Inquisitore. È stato Torquemada ad organizzare l’Inquisizione spagnola, costituendo corti ecclesiastiche in diverse città con lo scopo di dare la caccia agli eretici (di solito verso i Giudei che erano stati costretti a convertirsi al cristianesimo ma che avevano mantenuto i contatti con la comunità giudaica) e lasciare direttive per i prosecutori, o inquisitori. Fu sempre Torquemada ad essere il principale responsabile della cacciata dei Giudei dalla Spagna nel 1492.
Le corti dell’Inquisizione confiscavano le proprietà dei condannati per eresia. Inizialmente, i beni confiscati diventavano di proprietà dello Stato, ma, poiché l’attività si prolungava nel tempo, essi venivano convogliati sempre di più verso le corti stesse. Questa ricchezza riforniva la macchina dell’Inquisizione, dando ai tribunali una potenza tremenda. Siccome i tribunali ricavavano un grande vantaggio finanziario se l’accusato veniva condannato, era sempre più difficile per l’accusato ottenere l’assoluzione. Infatti, in breve tempo, difficilmente chiunque fosse portato davanti a queste corti veniva assolto – specialmente i benestanti!
L’accusato veniva condannato con la minima prova. I capi famiglia venivano imprigionati e le loro proprietà confiscate. Le famiglie venivano ridotte alla povertà dalla sera alla mattina. Dal 16° al 18° secolo l’economia una volta prosperosa della Penisola Iberica, fu devastata a causa delle misure draconiane delle corti dell’Inquisizione. Fino ad oggi, Spagna e Portogallo non hanno mai più recuperato la loro precedente gloria.
La forma più grave di punizione assegnata dai tribunali dell’Inquisizione era il rogo. Tuttavia, come braccio della chiesa, alle corti non era permesso di eseguire queste esecuzioni. Quindi, esse ricorrevano ad una finzione legale: il condannato a morte veniva consegnato alle autorità secolari accompagnato da un appello scritto col quale si chiedeva di fare clemenza, ed al quale veniva aggiunta una raccomandazione, che, se le autorità si sentissero in dovere di eseguire la condanna, dovevano farlo «senza spargimento di sangue». In altre parole, essi avrebbero dovuto dare fuoco alla vittima. Questo tipo di esecuzione è stato giustificato con Giovanni 15:6.
Per quelli che conducevano l’Inquisizione, chi «non dimorava in Cristo» era da bruciare. Se quei falsi cristiani erano «i tralci che si gettano nel fuoco» di Giovanni 15:6, essi indubbiamente erano anche i rami «troncati» di Romani 11:17. Poiché Dio stesso aveva troncato i rami menzionati in Romani 11, sicuramente, gli inquisitori devono aver pensato, era volontà di Dio che questi ingannatori confessassero la loro eresia e subissero la punizione.
La storia dell’orrenda interpretazione di Giovanni 15:6 dovrebbe guidare tutti i cristiani a considerare l’importanza di una sana cultura biblica e dei pericoli enormi inerenti ad una erronea interpretazione della Scrittura.
Questa riflessione storica su Giovanni 15:6 è un sollecito ad essere vigilanti affinché non ripetiamo i peccati dei nostri antenati. Credo che, come cristiano, non ho il coraggio di dire: «Se fossimo stati ai giorni dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti» (Matteo 23:30). Piuttosto, dobbiamo accettare la responsabilità per i peccati dei nostri antenati, fare voto di non ripeterli, esprimere il nostro dispiacere al popolo ebraico e fare il possibile per far dimenticare quei peccati.
Mi rendo conto che è facile oggi, che viviamo in un’età più illuminata, criticare i nostri predecessori, ma so che è nostra responsabilità denunciare l’anti-semitismo cristiano, quello passato e quello presente. Gli atteggiamenti e le azioni anti-semite di questi antenati, sono stati più orribili di quanto siamo in grado di descrivere ed è nostro dovere, nel nostro piccolo, riparare al danno fatto. Non sono esenti da colpe, anzi sono da condannare, i padri della Chiesa come Ignazio, Giustino Martire, Origene, Giovanni Crisostomo, ed altri.
L’inumanità e la corruzione dell’anti-semitismo cristiano non possono essere scusate – meglio condannare con forza piuttosto che tentare l’impossibile compito di giustificarlo. Dobbiamo sentirci scandalizzati e messi in imbarazzo dalle espressioni di anti-semitismo cristiano come l’Inquisizione, le Crociate, l’esplosione dei pogrom nel 18°, 19° ed anche 20° secolo in Russia ed Ucraina, ed infine l’Olocausto. Deploriamo con forza le parole e gli atti anti-semitici dei nostri antenati che dicevano di professare il cristianesimo. La mia speranza è che possiamo apprendere dalla storia e, con l’aiuto di Dio, migliorare e cercare di ripristinare per quanto ci è possibile, i rapporti rotti tra la chiesa e la sinagoga. Amen!
Articolo tratto dal libro di Quintavalle Argentino: “ELEMENTI ESSENZIALI DELLA FEDE GIUDEO-CRISTIANA”.
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