LA MISTICA DELLA LUCE (Tomas Spidlik)
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Tomas Spidlik
LA MISTICA DELLA LUCE
secondo la tradizione dell’Oriente cristiano
Io sono la fonte luminosa della corrente e del fiume immortale in cui, non dopo la morte, ma ora, coloro che mi amano con tutta la loro anima si lavano nell’acqua che scorre da me e purificano da ogni macchia i loro corpi e la loro anima, poi risplendono come una lampada e come l’aspetto di un raggio di sole.
Dio è Luce
«Se vedere la luce significa essere nella luce e partecipare al suo bagliore, vedere Dio significa essere in lui e partecipare al suo splendore che vivifica», scrive Ireneo. Nella mistica cristiana, il simbolismo della luce è di una grande ricchezza dall’inizio fino ai suoi prolungamenti palamiti. Esso comincia nella Bibbia, specialmente nel vangelo di Giovanni: Dio è luce, allo stesso modo in cui è vita, santità, carità, bontà infinita; i cristiani sono figli della luce. Luce e tenebre sono i termini spesso impiegati in rapporto all’illuminazione dell’intelligenza.
Clemente d’Alessandria applica alla Luce divina degli epiteti che tutti riprenderanno: senza forma, senza immagine.
Origene distingue la «luce paterna», l’irraggiamento di Cristo e l’illuminazione dello Spirito Santo. «A questa luce partecipa ogni essere dotato di ragione».
Per Simeone il Nuovo Teologo, anche la «nube» non è la nube di Mosè, le tenebre, ma una «nube luminosissima», la gloria del Tabor.
Due tendenze della mistica della luce
Gli asceti che aspiravano alla luminosa esperienza di Dio appartenevano a due gruppi: uno con una mentalità più primitiva, un altro più vicino agli intellettuali. I primi ignorano il vocabolario intellettuale e si basano unicamente sulla rivelazione dello Spirito promessa nella Scrittura, nel prolungamento dei carismi primitivi. È in questo contesto che si sviluppa il messalianesimo. La transizione dall’ortodossia all’eresia è qui spesso impercettibile. «L’anima divenuta tutta luce» è un’idea che gioca un ruolo di primo piano nelle Omelie dello pseudo-Macario. Lo spirito è invaso dalla luce, e allo sguardo di alcuni appaiono grandi bagliori di luce, ecc.
L’altra tendenza dipende da una parte senza dubbio da Origene. Non si tratta più di vedere degli splendori esteriori né di sentirsi «tuffati nella luce», ma di sentire se stessi luce. È in questo senso che Gregorio di Nazianzo distingue «tre luci»: Dio, l’angelo, l’uomo; «1′uomo è chiamato luce a causa dell’intelligenza che è in lui». Anche quando si tratta dell’illuminazione da parte dello Spirito, esso rimane interiore, «come l’arte in colui che l’ha acquisita». Il miglior interprete di questa tradizione è Evagrio, per il quale la vita è la vita dell’intelletto e la felicità la sua stessa luce.
Evagrio: la nudità dell’intelletto condizione per vedere la luce pura
Per vedere la luce, l’intelletto deve purificarsi di tutto ciò che produce in sé di ombra. La purificazione evagriana è la più esigente, reclama la perfetta nudità dell’intelletto, spogliato di ogni molteplicità, dell’«ultima veste». Vi si arriva per gradi.
- Il primo grado consiste nell’abbandonare gli oggetti stessi.
- Il secondo nel liberarsi dai pensieri e dai ricordi passionali.
- Il terzo nell’elevarsi al di sopra dei pensieri semplici.
Essi sono ancora un ostacolo, perché comportano la molteplicità perché sono «pensieri composti». La preghiera perfetta è «soppressione dei pensieri».
La ragione di quest’ultima purificazione sta nell’evidente opposizione tra la semplicità assoluta di Dio e la sua contemplazione attraverso gli esseri creati. «Dio è estraneo alla quantità» benché le «ragioni» (lògoi) degli esseri siano i riflessi dei diversi attributi divini. Perciò le contemplazioni inferiori dei differenti lògoi sono una ascesa di gnosi in gnosi verso la «gnosi uniforme della santa Trinità». Evagrio ha fatto fatica a conciliare il dogma della Trinità con la semplicità divina, ma ha trovato l’accordo: la Trinità non è una trinità numerica, esiste al di là dei numeri.
La «preghiera pura» suppone dunque la “nudità dell’intelletto”: «l’intelletto nudo è quello che è perfetto nella vista di se stesso». Si tratta di una totale assenza di impressioni sensibili e di forme. La contemplazione della santa Trinità deve essere senza forma né figura, come Dio stesso. Bisogna dunque liberarsi dai pensieri che «danno all’intelletto una impronta e una forma». Dopo aver acquisito «una perfetta indeterminazione», l’intelletto «diviene immateriale».
La «scienza essenziale»: vedere la propria luce
La ricompensa per l’ultimo spogliamento è grande, assicura Evagrio: la «scienza essenziale di Dio», una «conoscenza sostanziale della divinità». Come intendere questa conoscenza? Evidentemente, non può trattarsi di una conoscenza che si identifica con quella che Dio ha di sé e che supporrebbe che noi gli fossimo consustanziali.
Essa si caratterizza per l’intelligenza come «visione della propria luce». Appellandosi a Basilio, Evagrio parla dello «splendore della luce propria all’intelligenza e di cui i più puri si vedono bagnati nel tempo della preghiera». Il noùs umano che è immagine di Dio diviene luce pura e su questa cima intellettuale esso «riflette la luce della santa Trinità».
La mistica di Evagrio non è una mistica di estasi. Della formula dionisiana «uscita da se stessi e da tutto», Evagrio avrebbe ammesso «da tutto», ma non «da se stessi». Inoltre non avrebbe detto «estasi» (questa parola non si trova in lui se non in un significato peggiorativo). Per lui la vita gnostica è il ritorno a sè, ma in questo ritorno «il nous vede la santa Trinità». Ciò che definisce il noùs come immagine di Dio è in effetti la sua relazione con la Trinità, e più precisamente la sua capacità di contemplarla. In una parola: «conviene all’intelletto occuparsi della contemplazione…, perché là è la sua vita». «La preghiera fa esercitare all’intelletto l’attività che gli è propria» e «solo fra tutti gli esseri creati l’intelletto può ricevere la gnosi della santa Trinità». Schematicamente, il pensiero evagriano si presenta sotto una forma assai semplice, ma è precisamente questa apparente semplicità che suscita numerose obiezioni. Legittimamente ci si pone in effetti la questione: l’eliminazione dei concetti non distrugge quello che Evagrio ha voluto salvare, l’intellettualità dell’uomo? La somiglianza con i mistici del nirvana, che rinunciano ad ogni pensiero, colpisce. Perciò bisogna considerare questo insegnamento non solo secondo le formule utilizzate, ma verificare inoltre il valore che un cristiano può loro attribuire e come la tradizione successiva le ha infatti interpretate.
Notiamo, anzitutto, che il termine «nudità dello spirito» non appartiene solo ad Evagrio; è anch’esso tradizionale.
La nudità detto spirito – termine tradizionale
Nella Bibbia e negli scritti rabbinici, «la privazione delle vesti» è il segno di una perdita di identità, di una libertà alienata: è cosi per i prigionieri, per gli schiavi, per le prostitute, per i dementi, per i morti seppelliti nudi.
Nella letteratura spirituale, esistono due tradizioni nell’interpretare in un senso positivo la nudità. La prima vi vede una forma della nudità evangelica e trova, al seguito di Girolamo, la sua formulazione nell’adagio nudus nudum Iesum sequi; la seconda, utilizzata dai contemplativi e dai mistici, concepisce la nudità come una purificazione totale dalle potenze e attività umane per accedere alla conoscenza mistica di Dio e all’unione con lui.
Per Gregorio di Nissa, la verginità è il ritorno alla nudità originale di Adamo e ha per effetto il restaurare l’immagine divina nell’uomo nel suo stato primitivo: Adamo, «poiché era nudo, privo di ogni veste di pelli morte, guardava con libera franchezza (parrésia) il volto di Dio.. .»
Lo pseudo-Dionigi vede nella «nudità e i piedi scalzi» dei serafini (cf Is 6,2) il segno che queste creature celesti sono «libere, senza relazione, pure da ogni addizione esterna e si assimilano quanto possono alla semplicità divina». Allo stesso modo, tra gli uomini, «chiunque entra in relazione con l’Uno non può condurre una vita divisa». Inoltre, bisogna spogliare i misteri delle loro rappresentazioni simboliche per considerarli «nudi e puri».
Il confronto dette due vie mistiche
La nudità dello spirito è dunque un termine che, di principio, concorda con lo sforzo apofatico descritto precedentemente. L’obiezione che si può fare ad Evagrio è che la rinuncia che egli esige è allo stesso tempo insufficiente e troppo radicale. Se egli non desidera uscire dall’intelligenza, la riduce tuttavia ad uno stato che sembra annientarla. Inoltre, cosa che è più grave ancora per il cristiano, nel suo schema si trova difficilmente posto per Cristo e non si vede come vi si potrebbe inserire la funzione della carità. Si può dare a queste obiezioni una risposta soddisfacente?
Cominciamo con l’ultima difficoltà: l’assenza della carità. La nozione di spogliamento di tutto ciò che ci appartiene allo stato della pura intellettualità proviene dal linguaggio dei platonici. La sua causa motrice è la presenza dell’èros o desiderio di conoscere la realtà divina. Ma dal punto di vista della conoscenza, vi è una differenza essenziale tra Platone ed Evagrio. Il Dio dei cristiani non è un’Idea suprema, ma la santa Trinità, cosa che Evagrio sottolinea in ogni occasione. Ora, come si potrebbe «conoscere» la relazione misteriosa tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo senza che l’agàpe divina ce la riveli? Qui il ruolo di Cristo è indispensabile. Chi altri potrebbe introdurre l’uomo nella visione della santa Trinità? Come si potrebbe conoscere il Padre se non per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo? E solo Cristo potrà garantire la vita all’intelletto che si decide a sacrificare le sue idee, anche se esse sono parziali. Tutti gli autori che trattano dell’obbedienza sanno che la rinuncia ai pensieri è il sacrificio più difficile; qui non si può avere altro motivo che l’amore di Dio.
Si dirà senza dubbio che questa interpretazione di Evagrio è troppo benevola e che va troppo al di là dei nostri testi. Rivolgiamoci allora agli epigoni che chiarirono il suo pensiero. La preghiera «pura» di Evagrio si chiama in Cassiano «preghiera di fuoco» e porta con sé una «carità ardente». Chi si è appropriato della dottrina evagriana più del grande mistico Isacco il Siro? Ora, una lettura rapida del De perfectione religiosa non lascia alcun dubbio sul fatto che la dottrina del «saggio tra i santi», del «principe degli gnostici» che è Evagrio, sia assimilata in termini di linguaggio tipicamente cristiano. Allora lo stato di «pura intellettualità», quando «l’intelletto è ormai messo in moto da ciò che è definita la scienza unica», si chiama rùonùtho, stato «spirituale», «quando l’azione dello Spirito si impadronisce dell’intelletto».
E per meglio comprendere la «visione della pura luce» e il ruolo che in essa è attribuito a Cristo, niente è più utile della lettura della conversione del grande «mistico della luce», Simeone il Nuovo Teologo.
La luce nel cuore secondo Simeone il Nuovo Teologo
Per comprendere la freschezza della sua esperienza spirituale, bisogna leggere i testi che lui stesso ha scritto. Qui possiamo solo limitarci a sottolinearne l’idea principale. Dall’inizio della sua conversione, Simeone non cercò né «regole» di vita, né idee astratte sulla divinità, ma imparò ad «ascoltare la voce della propria coscienza» e prolungava le sue preghiere notturne con zelo da adolescente. Le visioni sopravvenivano e lui stesso ne dà il racconto prezioso.
«Una notte, scrive, non vedeva da ogni parte che luce… Allora la sua intelligenza si eleva fino al cielo e scopre un’altra luce, più chiara di quella che era a lui vicina».
La visione passa veloce e il giovane uomo ritorna alla vita modana e dissipata. Ma una seconda conversione fu durevole. Simeone lascia il mondo e si fa monaco. Ebbe delle nuove visioni, ma anche acquisì un’esperienza importante: una semplice visione della luce non dà la pace all’anima, piuttosto provoca un languore intenso e una soddisfazione ingannevole.
Infine, dopo parecchie alternanze di apparizione e di allontanamento, arriva il momento decisivo: egli scopre che nella luce è Cristo che comincia a parlare: «Allora per la prima volta tu hai giudicato degno me, il prodigo, di ascoltare li tua voce».
Ma la scoperta più importante fu questa. Cristo non parla da fuori. «Io so che ti possiedo coscientemente in me». E il segno di questa presenza? «L’amore sussistente che io possiedo in me…, si, l’amore stesso, ecco realmente quello che tu sei, o Dio!».
Qui noi tocchiamo uno dei più importanti momenti dello sviluppo mistico di Simeone. Egli comincia a comprendere con certezza che non è lui, un povero che ama i fratelli, ma è Cristo, vero tesoro, che nel cuore di Simeone ama gli uomini. E ciò che si chiama conoscere per esperienza Dio in se stessi. «Non è di me stesso, continua Simeone, che io parlo così, ma il Tesoro stesso ha detto ancora: Io sono la resurrezione e la vita, io sono il granello di senapa sotterrato in terra, io sono la perla comprata dai fedeli… Io sono la fonte luminosa della corrente e del fiume immortale in cui, non dopo la morte, ma ora, coloro che mi amano con tutta la loro anima si lavano nell’acqua che scorre da me e purificano da ogni macchia i loro corpi e la loro anima, poi risplendono come una lampada e come l’aspetto di un raggio di sole».
Quando abbiamo parlato della mistica delle tenebre, abbiamo fatto una distinzione tra «scienza» e «coscienza». Si rinuncia alla prima, ma ci resta la seconda ed essa testimonia da una parte l’ardore del desiderio del cuore e dall’altra la sua soddisfazione grazie all’agàpe divina. Nella mistica della luce si esige la rinuncia alla scienza parziale degli oggetti, e ciò che resta è la visione della pura luce. Ma tale pura luce non assomiglia, come vediamo nel racconto di Simeone, a questa «coscienza» di un incontro con Cristo nel senso della sua presenza in noi, così forte che tutto il resto cade nell’oblio?
Allora le due vie mistiche, quella delle tenebre e quella della luce, non fanno che esprimere in due termini antitetici un’esperienza spirituale che è al fondo la stessa.
Tratto da T. Spidlik, LA PREGHIERA secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, ed. LIPA, a cui si rimanda per le note e l’approfondimento
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