Dio e l’uomo redento: una nuova relazione (di Romano Penna)

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Dio e l’uomo redento: una nuova relazione

di Romano Penna

La portata dirompente della figura di Cristo spinge Paolo a rielaborare l’idea della fede in Dio, della storia della salvezza, dell’uomo e della comunità. Per cogliere appieno la prospettiva paolina sui fondamenti dell’identità cristiana, bisogna prestare attenzione sia alla dimensione giuridica della « giustificazione » che alla dimensione « mistica » o partecipativa.
A partire almeno dal secolo XVI (praticamente da Lutero in poi) si è discusso e si discute se la teologia di Paolo abbia un suo centro e soprattutto quale eventual­mente esso sia. Una cosa almeno è sicura, ed è che senza il suo incon­tro con Gesù Cristo sulla strada di Damasco (preparato già da quanto conosceva di lui per il tramite della prima comunità cristiana) egli non solo non si sarebbe lanciato per le vie del mondo, ma non avrebbe nep­pure elaborato alcun ripensamento della propria matrice giudaica in una nuova sintesi di pensiero.

Cristo al centro e al culmine
In effetti, la causa responsabile di ogni sua innovazione è stata soltan­to la percezione della portata dirom­pente di Gesù Cristo, il quale, per la sua identità messianica diversamen­te concepita in rapporto alle pre­messe giudaiche, va a ridefinire sia la fede in Dio, sia l’idea di storia del­la salvezza, sia l’idea di uomo, di co­munità, di speranza, ecc. Non c’è dubbio che proprio la figura di Ge­sù Cristo costituisce il punto focale dell’universo concettuale di Paolo, come lo è della sua stessa vita.
È appunto in base alla cristologia che l’Apostolo rielabora tutto il suo patrimonio ideale, che però resta as­sai sfaccettato. La questione semmai consiste nel sapere se questo insieme di pensiero abbia a sua volta un cen­tro e quale esso sia. Alcuni studiosi sottolineano il valore della teologia della croce, altri la dimensione apoca­littica della rivelazione di Dio in Cri­sto o ancora la costante tensione ver­so orizzonti universalistici. Certo, l’apertura universalistica dell’Evan­gelo è un tratto distintivo non solo del suo impegno missionario, ma an­che del suo modo di concepire Dio, Cristo, l’umanità, la Chiesa, ecc.

L’identità del cristiano
Ma c’è un tema che soprattutto occupa l’attenzione di chi studia la figura ideale di Paolo, ed è il tipo identitario costituito dal cristiano. Cioè: quale tipo di relazione deter­mina ormai la relazione dell’uomo redento con Dio? Che cos’è che pro­priamente definisce il cristiano?
Qui si affrontano due soluzioni.
La tesi luterana classica sostiene la centralità della giustificazione per fede: il cristiano è uno che Dio considera giusto in base al fatto che egli crede e cioè si affida completa­mente alla sua grazia (linguaggio « giuridico »).
Altri, anche all’interno dello stes­so protestantesimo, puntano piutto­sto sulla decisività di una personale partecipazione o comunione con Cristo (linguaggio « mistico »).
La differenza tra i due punti di vi­sta non è secondaria. Il primo infat­ti considera le cose da un’ottica piut­tosto esterioristica, tale da lasciare ciascuno dei due poli (Dio/Cristo e il credente) sul loro rispettivo ver­sante, come quando Paolo scrive: «Riteniamo che per fede venga giu­stificato un uomo, senza opere di legge» (Rm 3,28). Il secondo invece supera le distanze e sottolinea la de­cisività di una comunione, se non di un’interpenetrazione vicendevole dei soggetti, come quando Paolo scrive: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Questa dualità in definitiva non si spiega, se non si tiene conto di un’altra precedente duplicità di fon­do. A monte infatti c’è un doppio concetto paolino di peccato: l’uno, secondo cui il peccato è semplice trasgressione individuale della leg­ge, a cui perciò consegue; l’altro, se­condo cui invece il Peccato è un’en­tità personificata collettiva, che do­mina e schiavizza ogni uomo e che è già anteriore alla legge. È per questo che Paolo non ritiene che le metafo­re giuridiche connesse con la « giusti­ficazione » (legge, comandamenti, trasgressioni, giustizia, giustificare, giusto, fede) siano sufficienti a spie­gare l’intera realtà cristiana.
Per cogliere appieno la prospetti­va paolina sui fondamenti dell’iden­tità cristiana bisogna invece assolu­tamente prestare attenzione anche alle metafore « mistiche » o parteci­pative (morire con Cristo, vivere in Cristo, essere in lui, Cristo vive in me). Queste, tuttavia, sono state an­che fin troppo rimarcate da un cer­to filone degli studi paolini fino a sminuire le altre come non centrali nella teologia paolina.
Certamente le seconde costitui­scono uno dei fondamenti essenzia­li della più antica concezione della salvezza del credente. Ma bisogna evitare una lettura di Paolo che si ir­rigidisca nell’alternativa di un aut­-aut. La cosa migliore, infatti, è di combinare insieme i due versanti, i quali formano soltanto due aspetti complementari della teologia paoli­na: la loro contrapposizione signifi­cherebbe una falsa soluzione.

Una duplice novità
Bisogna comunque ammettere che per Paolo non ci sarebbe parte­cipazione, se non ci fosse giustifica­zione. La stessa impostazione argo­mentativa della lettera ai Romani lo fa vedere molto bene, come si può osservare nel passaggio da Rm 1-5 a Rm 6-8. La cosa è evidente alme­no per un paio di novità linguistiche prima assenti nella lettera. La dupli­ce novità consiste semplicemente nel doppio uso di alcune preposizio­ni greche (eis, en, syn), che, unite al nome di Cristo, danno luogo a delle costruzioni di inusitata rilevanza teologica. Esse sono utilizzate in due modi, a seconda che si tratti di complementi o di verbi composti.
Mentre nei capitoli 1-5 il nome di Cristo, utilizzato in complementi preposizionali, era ripetutamente co­struito solo con la preposizione « me­diante »/dià a indicare una sua me­diazione sia pure di vario genere (cf 1,8; 2,16; 3,22.24; 5,1.11.17.21), nel capitolo 6 invece emerge per la prima volta la sua costruzione con altre preposizioni e altri verbi (cf 6,3-4: «Siamo stati immersi in lui [...] nella sua morte»; 6,5: «con-na­turali» a lui; 6,6: il nostro uomo vec­chio «è stato con-crocifisso»; 6,8: «siamo morti con Cristo [...] vivre­mo con lui»; 6,11: «viventi per Dio in Cristo Gesù»; cf anche 8,1.2.39; 12,5; 15,17; 16,3.7.9.10). Il cambio di registro è molto chiaro: si passa da una distinzione dei soggetti a un’idea di immersione e di innesto, cioè di condivisione, di partecipazio­ne, di associazione.
Il nuovo linguaggio, dunque, va ben oltre la semantica della separa­zione e della distanza tra Cristo e il credente per adottare quella della co­munione e dell’intimità. In effetti, una cosa è ricevere da Dio in Cristo l’assoluzione dei peccati e quindi la giustificazione/riconciliazione sulla base della fede in lui: in questo modo si evidenzia soltanto l’enorme diffe­renza che divide il credente dal Cre­duto. Altra cosa è partecipare perso­nalmente a lui stesso, alla sua vicen­da di morte e risurrezione e alla sua vita: in questo modo si annullano le distanze e veniamo introdotti in una insospettata dimensione unitiva.
Ma non bisogna perdere di vista il fatto che Paolo giunge a proporre questa particolarissima prospettiva soltanto dopo aver sviluppato tutto un ampio discorso incentrato su cate­gorie « giuridiche ». L’ampiezza del les­sico della giustificazione anche da so­lo è sintomo sufficiente della dimen­sione fondamentale di queste catego­rie. Non che queste bastino a spiega­re la ricchezza del pensiero paolino, ma certo è che per l’Apostolo non è possibile «vivere in Cristo» senza es­sere diventati «giusti per fede».
Del resto, mentre è possibile che le categorie « giuridiche » vengano utilizzate da sole senza quelle « mi­stiche » (così in Rm 1-5), si dà inve­ce il caso che il loro uso permanga anche quando il discorso è prevalen­temente di carattere « mistico » (così in Rm 6-8). Un chiaro esempio del­la loro mutua combinazione è l’af­fermazione di Rm 8,1: «Ora dun­que non c’è nessuna condanna [pro­spettiva giuridica] per coloro che so­no in Cristo Gesù [prospettiva mi­stica]». Se poi questo testo preso da solo sembra supporre il primato del­la vita in Cristo come condizione previa di una assoluzione dalla con­danna, bisogna però ricordare che l’intera argomentazione della lette­ra presuppone un lungo discorso sulla giustificazione prima di quello sulla partecipazione. Ed è come di­re che Cristo, solo dopo aver giusti­ficato/perdonato il credente, lo as­sume nella piena comunione con sé; vedi in questo senso Fil 3,9: «Per essere trovato in lui [...] avendo co­me mia giustizia [...] quella che vie­ne da Dio sulla base della fede»!

Romano Penna
professore ordinario di esegesi del Nuovo Testamento alla Pontificia università lateranense di Roma

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