Isaia 55, 1-11: L’alleanza eterna
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ISAIA 55,1-11
COMMENTO
L’alleanza eterna
Nella seconda parte del libro di Isaia (Deuteroisaia) (Is 40-55) si preannunzia e si prepara il ritorno dei giudei esiliati in Babilonia nella loro terra (538 a.C.). La sezione inizia con l’evocazione di una grande strada che si apre nel deserto, lungo la quale gli esuli si incamminano sotto la guida di Dio (Is 40), e termina con un poema nel quale si riafferma la fedeltà di Dio che porterà a compimento tutte le sue promesse (Is 55). Quest’ultimo capitolo si divide in tre parti: 1) il rinnovamento dell’alleanza davidica (vv. 1-5); 2) L’efficacia della parola di JHWH (vv. 6-11); 3) Rinnovamento di tutte le cose (vv. 12-13). Il brano liturgico riprende le prime due parti di questo capitolo, nella quale appaiono immagini strettamente connesse al tema dell’esodo e dell’alleanza, con riferimenti alle rielaborazioni tipiche della tradizione sapienziale.
Il rinnovamento dell’alleanza davidica (vv. 1-5)
Il brano si apre con un invito, rivolto a tutti gli assetati perché vengano all’acqua: anche coloro che non hanno denaro, potranno ugualmente mangiare e bere senza spesa vino e latte (v. 1). Acqua, vino e latte indicano metaforicamente il dono della salvezza quale si è concretizzato specialmente nel cammino dell’esodo. Sullo sfondo si possono percepire i racconti dell’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,1-7; Nm 20,1-13) e quello della terra promessa che scorre latte e miele (Es 3,8). Il vino, che richiama la metafora di Israele come vigna del Signore, è un noto simbolo dei tempi messianici (cfr. Nm 49,11-12: vino e latte). L’invito a mangiare rievoca i temi biblici della Pasqua (Es 12,1-14), della manna (Es 16; Nm 11), del banchetto ai piedi del Sinai, mediante il quale è stata conclusa l’alleanza (24,5.11; cfr. Sal 23,5) e infine il banchetto escatologico (Is 25,6-9). Le stesse metafore erano usate per indicare il banchetto che la Sapienza personificata offre agli uomini perché acquistino la sapienza (Pr 9,3-6; Sir 24,18-20). Il fatto che il cibo sia distribuito senza spesa mette in luce il carattere gratuito della salvezza donata da Dio.
Nel versetto successivo il profeta chiede ai suoi interlocutori perché spendono denaro per ciò che non è pane e impiegano il loro patrimonio per ciò che non sazia (v. 2a). Con questa domanda egli allude forse alle eccessive preoccupazioni di alcuni circoli di esuli, i quali subordinano la ricerca del pane, dono di Dio e simbolo dell’alleanza, al possesso di beni materiali con cui garantire la propria sicurezza sia nella terra d’esilio che in quella in cui stanno per ritornare. Perciò il profeta ripete la sua esortazione, facendola precedere dall’invito ad «ascoltare»: se essi ascolteranno, mangeranno cose buone e gusteranno cibi succulenti (v. 2b). Il superamento delle preoccupazioni materiali presuppone l’ascolto della parola di Dio trasmessa dal profeta, che annunzia una svolta decisiva nella storia della salvezza.
Una terza volta l’invito viene ripetuto con un riferimento più esplicito ai doni significati nel mangiare e nel bere. In nome di Dio il profeta invita i suoi interlocutori da una parte a porgere l’orecchio e ad andare a lui, dall’altra ad ascoltare affinché possano vivere (v. 3a). L’ascolto della parola di Dio pronunziata dal profeta ha lo scopo di aggregare gli esuli per farne un popolo e di garantire loro la vera vita che si attua pienamente nel rapporto con Dio.
Infine il profeta assicura ai suoi interlocutori che Dio stabilirà con loro un’alleanza eterna, nel cui contesto verranno conferiti loro i favori assicurati a Davide (v. 3b). L’alleanza escatologica era stata preannunziata dai profeti nell’imminenza dell’esilio. Geremia aveva parlato di una «nuova alleanza», che avrebbe comportato, come caratteristica specifica, l’incisione della legge sul cuore del popolo (Ger 31,31-33; cfr. Ez 37,26-28). Più spesso però erano state usate altre espressioni come «alleanza eterna» (Ger 33,40; Ez 16,60; 37,26) e «alleanza di pace» (Ez 34,25).
Nel Deuteroisaia si era parlato due volte di un’«alleanza del popolo» (Is 42,6; 49,8), mentre in 54,10 si preannunziava un’«alleanza di pace». Qui invece si usa l’espressione «alleanza eterna», che viene interpretata nel versetto parallelo come «i favori assicurati a Davide». Questa espressione richiama la promessa fatta a Davide mediante il profeta Natan (2Sm 7,12-16), con la quale Dio si impegnava a mantenere la dinastia davidica sul trono di Gerusalemme: anche questa promessa era presentata come un’«alleanza eterna» (2Sam 23,5; cfr. Ger 33,21). Secondo il Deuteroisaia questa promessa si sarebbe verificata nei tempi escatologici, che per lui coincidevano con il ritorno dall’esilio. È strano però che la attuazione non abbia come destinatario il re messia, ma tutto il popolo: in questo modo tutto Israele diventa beneficiario dei doni promessi nel patto davidico. Il profeta non prevede dunque la restaurazione della dinastia davidica, ma l’attuazione dell’alleanza conclusa con David in favore di tutto il popolo rinnovato.
E di fatti è tutto il popolo che viene posto come «testimonio tra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni». Esso chiamerà gente che non conosceva, ad esso accorreranno popoli che non lo conoscevano: tutto ciò è opera di JHWH, il Santo di Israele, che ha onorato il suo popolo (vv. 4-5). Sullo sfondo di questo testo si può intravedere l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni al monte Sion. Proprio perché JHWH ha onorato il suo popolo, questo diventerà il punto di convergenza di nazioni numerose. Israele svolgerà quindi un ruolo di aggregazione internazionale, diventando così lo strumento di una pace duratura.
Efficacia della parola di Dio (vv. 6-11)
La seconda parte del capitolo inizia con queste parole: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (v. 6). Il tema del «ricercare» (darash) Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie. L’incontro con la statua era l’occasione di una forte esperienza religiosa. Anche in Israele il termine indicava originariamente la visita al santuario di JHWH per richiedere una responso per mezzo di un oracolo (cfr. Dt 17,9;). Il termine assume però altre connotazioni, quali l’essere fedeli a Dio (cfr. Os 10,12; Am 5,4.6; Is 9,12), pregarlo (cfr. Sal 69,23-24; 105,4), compiere la sua volontà (cfr. Is 31,1; Ger 10,21). In questo contesto l’invito a ricercare Dio è parallelo a quello di invocarlo e ha come motivazione il fatto che egli si fa trovare, è vicino. Rivolto agli esuli, questo invito ha lo scopo di renderli attenti alla presenza di Dio nella storia e disponibili lasciarsi coinvolgere nella sua azione, che sta per configurarsi in un intervento risolutivo a loro favore, la liberazione e il ritorno nella loro terra.
L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso: «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona» (v. 7). Il termine «empio» (rasha‘), in parallelismo con «uomo iniquo» (îsh awen) indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questo contesto indica quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. L’empio e l’iniquo sono invitati ad abbandonare rispettivamente la loro via e i loro pensieri. Per la legge del parallelismo i due termini sono equivalenti; ma le «vie» sono piuttosto i comportamenti pratici, mentre «pensieri» indicano più direttamente i propositi e i progetti che ne sono la causa. Secondo la mentalità biblica pensieri e azione sono intimamente collegati: per trasformare la prassi è indispensabile mutare la mentalità, il cuore delle persone. Positivamente l’empio è invitato a «ritornare» (shûb) a Dio. Questo verbo indica la «conversione», che consiste in un cambiamento di rotta per ritornare sul proprio cammino e incontrare nuovamente JHWH. Per colui che è andato fuori strada non è facile convertirsi, soprattutto se sussiste l’immagine di un Dio vendicativo e crudele. Perciò il profeta sottolinea che JHWH è un Dio misericordioso e disponibile al perdono. Per colui che si è allontanato un gesto radicale di cambiamento è possibile solo se è sicuro di ottenere il perdono.
Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna superare la tendenza spontanea a immaginare Dio con categorie umane. È questo il problema di ogni pratica religiosa. Il profeta lo affronta in questi termini: «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (vv. 8-9). Anche Dio ha i suoi pensieri e le sue vie, ma sia gli uni che le altre sono totalmente diversi da quelli dell’uomo. I pensieri di Dio sono i suoi progetti in favore del cosmo e dell’uomo. Le sue vie sono i suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma «sovrastano» quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra. I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (cfr Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose che gli interessano, mentre Dio cerca il vero bene di tutti. Dio progetta e dirige la storia in un modo superiore e sovrano. L’esilio e il ritorno lo rivelano a quelli che sanno comprendere.
Infine il profeta mette in luce l’efficacia della parola di Dio, cioè del suo operare nella storia. Il testo consiste in un’unica frase che contiene un paragone tra ciò che avviene nella natura e l’attuazione della parola divina. Il primo termine del confronto viene così formulato: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare…» (v. 10). In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.
Il secondo termine di paragone è così delineato «…così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (v. 11). La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata. Il contenuto di questa parola consiste negli oracoli raccolti nel libro, e cioè fondamentalmente il ritorno del popolo dall’esilio e la sua restaurazione. Questo grande evento viene dunque presentato ancora una volta come il risultato non di sforzi umani, ma di un intervento divino con il quale si attua un progetto elaborato fin dall’eternità.
In questo testo la parola di Dio è personificata come la Sapienza (cfr. Pr 8,22), la quale, come la parola, esce anch’essa dalla bocca di Dio (cfr. Sir 24,3), e lo Spirito (cfr. Sap 1,5-7). Essa è presentata come un messaggero o un agente divino che non solo annuncia il futuro realizzarsi di eventi straordinari, ma che li attua essa stessa efficacemente (cfr. Sap 18,14-15). Tra il Dio lontano, avvolto nel suo mistero eterno, e il Dio vicino, che opera nella storia del mondo, si situa la Parola che scende dal cielo per realizzare la salvezza. Il Deuteroisaia spiega dunque la storia del mondo, in modo particolare la storia sacra d’Israele, per mezzo della presenza profonda ed onnipotente della Parola.
Linee interpretative
Il Deuterosisaia presenta Dio da una parte come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti diametralmente opposti ai suoi. D’altra parte però lo presenta anche come Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo. In forza della sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane. Di lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tutto quanto si dice di Lui non può essere che una metafora, un’analogia totalmente inadeguata al suo vero essere. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia, interpretati dai suoi profeti. Costoro sono persone che hanno una percezione più diretta e immediata del divino così come si manifesta nel mondo e nella storia. Essi sanno leggere i segni dei tempi e indicare la strada da percorrere. La loro parola è luce e guida per tutto il popolo, specialmente nei momenti più cruciali, come è quello del ritorno dall’esilio. Coloro a cui si rivolgono devono ascoltarli: ciò non li esime però da una ricerca personale, senza della quale non potranno discernere i veri dai falsi profeti.
Il profeta aveva concentrato nel momento del ritorno dall’esilio la realizzazione delle speranze di Israele. Perciò nella conclusione dei suoi oracoli presenta ancora una volta questo evento straordinario come il pieno compimento delle promesse fatte da Dio al suo popolo. In esso si realizzano i grandi simboli della salvezza, che ruotano intorno al tema dell’alleanza. Gli eventi del Sinai appaiono ormai come realtà passate, semplici prefigurazioni dell’alleanza escatologica la cui caratteristica è quella di essere eterna. Dio si impegna ormai in modo pieno e definitivo per il suo popolo, basando la sua azione salvifica soltanto sulla sua volontà e potenza. Il contributo del popolo sarà pur sempre necessario, ma esso si attuerà ormai spontaneamente, in forza dell’azione potente e gratuita di Dio, che si identifica con l’opera dello Spirito preannunziato da Ezechiele. Solo perché si fonda esclusivamente sulla potenza di Dio, l’alleanza escatologica sarà piena e definitiva.
Nel contesto di questa alleanza, il Deuteroisaia intravede anche il compimento delle promesse fatte a Davide. Si concretizza così l’attesa messianica che si era sviluppata alla vigilia dell’esilio, nella prospettiva ormai imminente della caduta della dinastia davidica sotto i colpi dei babilonesi. Le promesse davidiche non sono però un tema prioritario per questo profeta, il quale ne parla, con qualche reticenza, solo in questo testo. L’accento non è posto sulla figura del futuro re discendente di Davide, ma su tutto il popolo dei rimpatriati, che saranno i destinatari delle promesse fatte al lontano progenitore della dinastia regnante. È difficile scoprire il motivo di questa reinterpretazione, dovuta forse al fatto che dopo l’esilio la dinastia davidica non ha più ripreso vigore. Ciò che interessa il lettore moderno è la concentrazione dell’interesse sulla comunità del popolo di Dio, che non ha più bisogno di essere rappresentata da un sovrano potente, ma va essa stessa incontro al suo Dio.
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