Emmanuele, Dio con noi

al sito:
http://www.chiesadimilano.it/or/ADMI/apps/docvescovo/files/1205/Ottava_nella_Circoncisione.doc
CHIESA DI MILANO
Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano
Ottava del Natale nella Circoncisione del Signore
41ª Giornata per la Pace
Omelia
Milano — Duomo, 1° gennaio 2008
Da Dio il grande dono della pace attraverso la famiglia
« Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio… » (Galati 4,4).
« Quando si compirono gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù… » (Luca 2,21).
Questi due passi, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura e nel vangelo di oggi, ci ricordano che siamo qui riuniti a celebrare l’incarnazione di Dio, ossia l’ingresso della persona del Figlio nella nostra storia umana attraverso il popolo dell’alleanza, come inizio di un giorno nuovo, di un tempo pieno.
Carissimi, Cristo Signore in questa celebrazione ci doni luce e slancio per vivere le relazioni personali e sociali, che siamo chiamati ad avere con Dio e tra noi, sempre nel segno dell’amore e della pace.
L’ottavo giorno: giorno dello shalom eterno
Il Figlio mandato da Dio, Cristo -ricorda san Paolo ai Galati — è « nato da donna », più precisamente da madre ebrea; ed è « nato sotto la legge », perché si è sottomesso al cammino religioso del popolo ebraico (cfr Galati 4,4). Per questo oggi, ottavo giorno di celebrazione del Natale, noi facciamo anche memoria della circoncisione di Gesù, che avvenne precisamente otto giorni dopo la sua nascita, in conformità alla legge giudaica che la prescriveva come segno nella sua carne dell’appartenenza al popolo di Dio (cfr Luca 2,21).
Ora, nel simbolismo del linguaggio biblico, l’ottavo giorno allude al « giorno dopo il sabato », al « sabato senza tramonto » dello shalom eterno, al giorno della risurrezione di Cristo che lo inaugura. In realtà è in tale giorno che nella storia umana hanno fatto irruzione le energie rigeneratrici del Risorto, dando inizio ad una nuova creazione, che solo alla fine dei tempi si manifesterà per sempre come pienezza di vita, di pace e di amore.
Ma all’uomo interiore già oggi è data la possibilità di anticipare e di pregustare qualcosa della pienezza dello shalom: gli occhi dello Spirito gli permettono di poter vedere al di là delle apparenze e di scoprire la segreta bellezza dell’opera di Dio nascosta nei cuori umani. E questo dono dell’interiorità e della vita dello Spirito — dello Spirito che nei nostri cuori grida Abbà, Padre (cfr Galati 4,6) — è la benedizione per eccellenza. Carissimi, non dimentichiamolo mai! Anche per costruire la pace nel mondo l’unica via feconda è quella che incomincia dalla ricerca di riconciliazione e di pacificazione interiore a partire da se stessi e dal proprio cuore.
Qual è, dunque, la benedizione che da Dio riceviamo e che da lui invochiamo? E’ quella dello Spirito santo che opera nell’uomo interiore: tenendoci sotto la mano paterna e propizia di Dio, la benedizione irradia su di noi la luce del suo volto e in noi effonde amore, gioia e pace. È pertanto risuonata oggi in modo particolarmente significativo e pregnante la berakah biblica di Dio sul suo popolo, cioè la « benedizione sacerdotale » affidata da Dio ai figli di Aronne, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: « Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace » (Numeri 6,24-26). In questa triplice formula di benedizione ricorre solennemente per tre volte il Nome santo e impronunciabile di Dio, il Tetragramma sacro che nella lettura delle Scritture viene sostituito dagli ebrei con il termine Adonai, il « Signore » nella nostra traduzione.
Ora, pronunciare tre volte il Nome santo di Dio in questa solenne benedizione aveva ed ha per il popolo ebraico — e oggi anche per noi — il significato di rinnovare l’alleanza con il Signore.
Così, all’inizio di un nuovo anno civile, giunge a noi la parola che ci invita a rinnovare l’alleanza con Dio, soprattutto rispetto al nostro impegno per la pace nella vita sociale della città, della nazione, del mondo intero. È dunque particolarmente significativo far coincidere oggi — con questa liturgia dell’ottavo giorno di Natale, che appare così ricca di suggestioni — la Giornata mondiale della Pace, che quaranta anni fa Paolo VI ebbe la felice intuizione di istituire nella data del 1° gennaio.
Riuniti per invocare il dono della pace
Proprio per invocare con particolare intensità il dono della pace siamo qui riuniti insieme ai Rappresentanti delle Confessioni che aderiscono al Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano. A voi in particolare, fratelli e sorelle in Cristo, rivolgo il mio affettuoso saluto e vi ringrazio per la vostra gradita e importante presenza, una presenza che ci onora e ci dà gioia. Anche sul cammino del Consiglio milanese delle Chiese, che in questo gennaio 2008 compie dieci anni di vita, invochiamo insieme la benedizione di Dio, perché, all’interno della città, coltivi in modo ecumenico la cura pastorale della dimensione interiore dei cristiani di ogni confessione e sappia promuovere un comune annuncio del « Vangelo della pace » a quanti non l’hanno conosciuto, o stanno cercando un senso per la propria vita, o vorrebbero impegnarsi per un mondo nuovo e diverso da quello attuale. Come Chiesa ambrosiana, intendiamo continuare nel cammino di testimonianza intrapreso e dare particolare rilievo alla comunicazione della fede da parte delle famiglie, che svolgono la loro missione a servizio del Vangelo. Esso sono il luogo primordiale e privilegiato per la trasmissione del sentire, del pensare e del vivere da cristiani.Concludendo la Lettera pastorale alla Diocesi Famiglia comunica la tua fede, esprimevo un auspicio che desidero ripetere all’inizio del nuovo anno: « Lo Spirito santo ci doni le parole per raccontare Gesù, per farlo incontrare ai bambini e ai ragazzi, per renderlo credibile ai giovani e agli adulti, per sentirlo vicino nella carità e per testimoniarlo nella carità. Ci insegni a credere all’amore che è stato riversato nei nostri cuori e a diffonderlo con misura traboccante di tenerezza e profondità » (n. 42).
In particolare rivolgevo l’appello alla famiglia perché, come « scuola dell’amore e del dono di sé », aprisse ogni giorno le sue porte facendo risuonare una « voce di speranza » per la ricostruzione di un tessuto sociale di giustizia, di solidarietà e di pace. Scrivevo, tra l’altro: « Oggi, in modo del tutto particolare, la nostra società ha forte la necessità di riscoprire la famiglia come risorsa insostituibile e decisiva per il suo futuro. Le nostre famiglie, d’altra parte, ricordino che il vincolo di libertà e d’amore che le costituisce è loro donato non solo per se stesse, ma per la vita del mondo » (n. 34). L’amore di Dio è in mezzo a noi: questo è l’annuncio del regno che il Signore ci chiede non solo di approfondire nelle nostre comunità, ma di portare all’intera famiglia umana, perché divenga comunità di pace.
Famiglia umana, comunità di pace
Proprio Famiglia umana, comunità di pace è il tema che Benedetto XVI ha proposto per la celebrazione dell’odierna Giornata mondiale della pace.Il messaggio per questa giornata trova il suo cuore nella singola famiglia considerata come « la prima e insostituibile educatrice alla pace ». In realtà, « in una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l’amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell’autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l’aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l’altro e, se necessario, a perdonarlo » (n. 3). Il messaggio si chiede: « Dove mai l’essere umano in formazione potrebbe imparare a gustare il ‘sapore’ genuino della pace meglio che nel ‘nido’ originario che la natura gli prepara? ». E risponde: « Il lessico familiare è un lessico di pace; lì è necessario attingere sempre per non perdere l’uso del vocabolario della pace. Nell’inflazione dei linguaggi, la società non può perdere il riferimento a quella ‘grammatica’ che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole » (n. 3). Per questo, come recita la stessa Dichiarazione universale dei diritti umani, la famiglia « ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato » (Art. 16/3). E’ un’affermazione, questa, che tocca inevitabilmente il problema della pace, come rileva il messaggio: « Chi anche inconsapevolmente osteggia l’istituto familiare rende fragile la pace nell’intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale ‘agenzia’ di pace. E’ questo un punto meritevole di speciale riflessione: tutto ciò che contribuisce a indebolire la famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, ciò che direttamente o indirettamente ne frena la disponibilità all’accoglienza responsabile di una nuova vita, ciò che ne ostacola il diritto ad essere la prima responsabile dell’educazione dei figli, costituisce un oggettivo impedimento sulla via della pace. La famiglia ha bisogno della casa, del lavoro o del giusto riconoscimento dell’attività domestica dei genitori, della scuola per i figli, dell’assistenza sanitaria di base per tutti. Quando la società e la politica non si impegnano ad aiutare la famiglia in questi campi, si privano di un’essenziale risorsa a servizio della pace » (n. 5).
Il riferimento alla famiglia — ad una realtà domestica — non impedisce al Papa di richiamare con forza le grandi questioni mondiali, come la proliferazione delle armi nucleari, l’ambiente inquinato, lo sfruttamento irresponsabile delle risorse energetiche a scapito dei Paesi poveri, l’ingiusta distribuzione delle ricchezze, ecc. Al contrario il riferimento alla famiglia diviene paradigmatico, nel senso che in essa la grande famiglia umana deve trovare i veri criteri e le giuste linee di sviluppo per una convivenza dalla fisionomia « familiare », e dunque solidale e pacifica. « Anche la comunità sociale, per vivere in pace, è chiamata a ispirarsi ai valori su cui si regge la comunità familiare » (n. 6).
La legge morale comune e il dialogo via alla pace
In realtà, come umanità siamo « una grande famiglia », viviamo tutti « in quella casa comune che è la terra », siamo responsabili gli uni degli altri perché « non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle » (cfr. n. 6). In questa prospettiva si deve rilevare come punto fondamentale e decisivo il riconoscimento di una legge morale comune: « Una famiglia vive in pace se tutti i suoi componenti si assoggettano ad una norma comune: è questa ad impedire l’individualismo egoistico e a legare insieme i singoli, favorendone la coesistenza armoniosa e l’operosità finalizzata. Il criterio, in sé ovvio, vale anche per le comunità più ampie: da quelle locali, a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale. Per avere la pace c’è bisogno di una legge comune, che aiuti la libertà ad essere veramente se stessa, anziché cieco arbitrio e che protegga il debole dal sopruso del più forte » (n. 11). Sono in questione, certo, le norme giuridiche che regolano i rapporti delle persone tra loro, ma ancor prima è in questione la norma morale basata sulla natura delle cose.
La grande sfida — sempre aperta e sempre più complessa in un mondo globalizzato e pluralista — riguarda le modalità con cui possiamo giungere alla conoscenza consensuale e universalmente condivisa di una legge morale comune a tutti gli uomini, su cui fondare anche le norme giuridiche. Sono convinto che il dialogo è e resta la grande, l’unica via di pace per poter arrivare a mete di pace e a rilevare, nello stesso tempo, come un consenso unanime sui principi fondamentali, che presiedono alla convivenza sociale sulla terra e che è indispensabile siano condivisi da parte di tutti, è una meta di pace non facile né ovvia. Proprio per questo oggi è del tutto irrinunciabile ed urgente promuovere il dialogo intessuto di reciproco ascolto e rispetto tra persone che rappresentano ed esprimono visioni e tradizioni differenti, legate alla diversità di etnie, culture, filosofie, teologie, religioni, confessioni, ecc. Sì, persino tra noi cristiani, nelle non facili questioni dell’etica, non abbiamo sempre unanimità di visioni. Si tratta di constatarlo senza irrigidimenti, si tratta di cercare di capire le ragioni altrui senza peraltro sbiadire le proprie o persino rinunciarvi, si tratta di testimoniare la genuinità della fede senza cadere in fondamentalismi confessionali. Dobbiamo aiutarci, tra cristiani di diverse tradizioni confessionali, a non confondere la testimonianza personale e comunitaria, alla quale ci chiama la radicalità del Vangelo, con la testimonianza del nostro apporto civile e laicale alla ricerca del bene comune, che in una società democratica e pluralista è da discernere in dialogo con i contributi espressi dalle diverse sensibilità e visioni. Il Signore ci aiuti nel rinnovare l’impegno — espresso dalla Charta Oecumenica che lo scorso aprile abbiamo firmato come Chiese di Milano e che la terza Assemblea ecumenica europea ha ribadito a Sibiu in Romania nel settembre scorso — « ad essere aperti al dialogo con tutte le persone di buona volontà, a perseguire con esse scopi comuni e a testimoniare loro la fede cristiana », perché « Gesù Cristo, Signore della Chiesa una, è la nostra speranza di riconciliazione e di pace » (Charta Oecumenica 12, conclusione).
Cristo, nostra speranza!
Siamo seguaci del Dio dell’Incarnazione ed è proprio della fede cristiana di essere « realistica »: di non nascondersi le « ombre cupe » che pesano sul futuro dell’umanità, le « tensioni crescenti » in Africa e nel Medio Oriente, l’aumentare della corsa agli armamenti, ecc. Ma il realismo dei cristiani non li conduce al pessimismo, perché una grande speranza pervade il loro cuore e la loro vita: è la speranza che crede nella presenza di Dio e del suo amore in ogni stagione storica dell’umanità, che è alimentata dalle tante famiglie che nella quotidianità assolvono il loro compito di « educatrici alla pace », che è sostenuta dall’impegno umile e coraggioso dei moltissimi « operatori di pace ».Confessiamo con gioia a tutti questa nostra fede: Cristo Signore, sei tu la nostra speranza, speranza di riconciliazione e di pace. Non saremo confusi in eterno!
dal sito:
http://www.zenit.org/article-28985?l=italian
LA CULTURA GIUDAICO-CRISTIANA PUÒ SALVARE L’EUROPA E IL MONDO
Conferenza di Lord Jonathan Sacks, alla Pontificia Università Gregoriana
di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 13 dicembre 2011 (ZENIT.org).- La cultura giudaico-cristiana può salvare l’Europa e il mondo.
Lo ha detto Lord Jonathan Sacks, rabbino capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth, nel corso di una conferenza pubblica che si è svolta all’Università Pontificia Gregoriana, lunedì 12 dicembre.
Sacks ha spiegato che il sistema di libero mercato e dell’economia capitalistica è stato generato dalla cultura giudeo cristiana, per questo motivo il futuro economico, politico e culturale dell’Europa dipenderà dalla cura della propria anima e delle proprie radici religiose.
In merito alla relazione tra ebrei e cristiani, il rabbino capo ha ricordato che tutto è cambiato il 13 giugno 1960 quando lo storico ebreo francese Jules Isaac incontrò Giovanni XXIII.
A proposito del suo incontro in mattinata con il Pontefice Benedetto XVI, Lord Sacks ha detto che per mezzo secolo ebrei e cristiani hanno scelto un dialogo faccia a faccia. Ora il tempo è venuto il cui la collaborazione tra ebrei e cristiani venga attuata passo dopo passo.
“Ebrei e cristiani insieme – ha sottolineato – possono contrastare la secolarizzazione dell’Europa”.
Secondo Lord Sacks l’Europa sta perdendo la sue radici giudaico-cristiane, con conseguenze inimmaginabili nel campo della letteratura, dell’arte, della musica, dell’educazione, e della politica.
“Quando una civiltà perde la sua fede, perde il suo futuro. Quando recupererà la sua fede, recupera il suo futuro” ha sostenuto il rabbino capo
“Per il bene dei nostri figli, e i loro figli non ancora nati, – ha aggiunto – noi – ebrei e cristiani, fianco a fianco – dobbiamo rinnovare la nostra fede e la sua voce profetica. Dobbiamo aiutare l’Europa a ritrovare la sua anima”.
Per spiegare la peculiarietà culturale dell’Europa, il rabbino capo ha spiegato che il cuore della cultura sta nella religione, e questo è il motivo perchè l’Occidente si è distinto per sviluppo e progresso.
Lord Sacks ha ricordato che la Cina era tecnologicamente molto più avanzate dell’Occidente prima del XV secolo. I cinesi hanno inventato la bussola, la carta, la stampa, la polvere da sparo, la porcellana, le macchine per la filatura e la tessitura. Eppure non hanno mai sviluppato una economia di mercato, non hanno realizzato una rivoluzione industriale o una crescita economica sostenuta. Alla Cina è mancata l’eredità giudaico-cristiana.
A proposito del contributo giudaico alla cultura economica il rabbino ha rilevato che seppure gli ebrei, siano meno del 5% della popolazione del mondo, hanno vinto più del 30% per cento dei premi Nobel per l’economia tra cui John Von Neumann, Milton Friedman, Joseph Stiglitz, Daniel Kahneman e Amos Tversky.
“Il Giuseppe della Bibbia – ha suggerito – potrebbe essere stato primo economista del mondo, avendo scoperto la teoria dei cicli commerciali – sette anni di abbondanza seguiti da sette anni di vacche magre”.
“E Lo stato finanziario d’Europa – ha aggiunto – sarebbe molto meglio oggi se la gente conoscesse di più il contenuto e i passi della Bibbia”.
Per Lord Sacks la tradizione giudaico cristiana incarna dei valori fondamentali quali il profondo rispetto per la dignità della persona umana, conseguente al mandato biblico di “creato a immagine e somiglianza di Dio”.
E poi il rispetto per la proprietà privata, e il grande apprezzamento del lavoro. Dio infatti disse a Noè che si sarebbe salvato dalle acque, ma che doveva costruire l’Arca.
In questo contesto la creazione di posti di lavoro è la più alta forma di carità perchè fornisce alle persone la dignità e la libertà di non essere a carico di qualcun altro.
“Nel giudaismo – ha sottolineato il rabbino capo – c’è una positiva attitudine a creare ricchezza, che risponde alla collaborazione con l’opera creatrice di Dio”.
“Per il giudaismo – ha aggiunto- la caratteristica più importante del libero mercato è la capacità di alleviare gli effetti negativi della povertà”.
“La scuola rabbinica – ha spiegato Lord Sacks – è favorevole al libero mercato ed alla concorrenza perchè genera ricchezza, prezzi più bassi, dilata la libertà di scelta, ha ridotto i livelli di povertà, estende la cura dell’ambiente da parte dell’umanità, restringe la misura in cui siamo vittime passive delle circostanze e del destino. In questo modo la libera concorrenza libera energie creative e serve il bene comune”.
Per questi motivi l’economia di mercato e il capitalismo moderno sono emersi in una cultura giudaico-cristiana. In questo modo l’Europa ha sviluppato la propria cultura e la propria spiritualità in maniera mirabile e l’etica religiosa è stata una delle forze trainanti di questa nuova forma di creazione di ricchezza.
Lord Sacks ha continuato affermando che nella Bibbia si trova la struttura della legislazione sociale, con le misure di aiuto ai poveri, i debiti cancellati, gli schiavi liberati l’anno giubilare in cui la terra viene restituita ai proprietari originari..
“Nella Bibbia – ha precisato – si trova un sistema sociale altamente sofisticato, in cui si afferma che i poveri devono disporre dei mezzi di sostentamento, e che ogni sette o più anni la terra e le ricchezze vengono ridistribuite per correggere gli squilibri del mercato e stabilire una pari equità”.
Il rabbino capo ha concluso affermando che “È giunto il momento di recuperare un’etica della dignità umana fatta a immagine di Dio. Quando l’Europa recupererà la sua anima, recupererà la sua ricchezza. Ma prima si deve ricordare che l’umanità non è stato creato per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’umanità”.
14 DICEMBRE – SAN GIOVANNI DELLA CROCE (m)
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dal «Cantico spirituale» di san Giovanni della Croce, sacerdote.
(strofe 36-37)
La conoscenza del mistero nascosto in Cristo Gesù
Per quanto siano molti i misteri e le meraviglie scoperte dai santi dottori e intese dalle anime sante nel presente stato di vita, tuttavia ne è rimasta da dire e da capire la maggior parte e quindi c`è ancora molto da approfondire in Cristo. Questi infatti è come una miniera ricca di immense vene di tesori, dei quali, per quanto si vada a fondo, non si trova la fine; anzi in ciascuna cavità si scoprono nuovi filoni di ricchezze.
Perciò san Paolo dice del Cristo: «In Cristo si trovano nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3) nei quali l’anima non può penetrare, se prima non passa per le strettezze della sofferenza interna ed esterna. Infatti, a quel poco che è possibile sapere in questa vita dei misteri di Cristo non si può giungere senza aver sofferto molto, aver ricevuto da Dio numerose grazie intellettuali e sensibili e senza aver fatto precedere un lungo esercizio spirituale, poiché tutte queste grazie sono più imperfette della sapienza dei misteri di Cristo, per la quale servono di semplice disposizione.
Oh, se l’anima riuscisse a capire che non si può giungere nel folto delle ricchezze e della sapienza di Dio, se non entrando dove più numerose sono le sofferenze di ogni genere riponendovi la sua consolazione e il suo desiderio! Come chi desidera veramente la sapienza divina, in primo luogo brama di entrare veramente nello spessore della croce!
Per questo san Paolo ammoniva i discepoli di Efeso che non venissero meno nelle tribolazioni, ma stessero forti e radicati e fondati nella carità, e così potessero comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio (cfr. Ef 3, 17). Per accedere alle ricchezze della sapienza divina la porta è la croce. Si tratta di una porta stretta nella quale pochi desiderano entrare, mentre sono molti coloro che amano i diletti a cui si giunge per suo mezzo.
Responsorio 1 Cor 2, 9-10
R. Occhio non vide, orecchio non udì, né mai entrò in mente umana, * ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano.
V. A noi fu rivelato, per mezzo del suo Spirito,
R. ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano.
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 febbraio 2011
San Giovanni della Croce (14 dicembre)
Cari fratelli e sorelle,
due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù. Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Giovanni di San Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni. Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. ? quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”. I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà. La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui. San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono. Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno. Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle. E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.
http://www.scuolacattolicaoggi.org/SCO/2008/08%20-%20Agosto/02%20-%20Anno%20Paolino.pdf
L’enigma di Damasco
COSA AVVENNE DAVVERO SU QUELLA STRADA
di Romano Penna
Come di molti personaggi dell’antichità, non conosciamo l’anno esatto della nascita di Paolo, e tanto meno quello della morte. Però tutta una serie di dati sicuri e di vari indizi ci permette di fissarne con buona approssimazione sia gli estremi sia le tappe intermedie. Quando scrive il biglietto a Filemone, probabilmente nell’anno 54 (o, secondo una cronologia più bassa, verso il 62), egli si dichiara « vecchio », in greco presbùtes (Filemone, 9); e quando Luca negli Atti degli Apostoli narra della lapidazione di Stefano all’inizio degli anni Trenta, annota anche la presenza di Saulo che viene qualificato come « giovane », in greco neanìas (Atti, 7, 58). Le due denominazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi sull’età dell’uomo, la prima dovrebbe indicare grosso modo uno attorno alla sessantina e la seconda uno attorno alla trentina. Ne deduciamo che egli dovette nascere negli ultimi anni dell’era precristiana ed essere quindi di pochi anni più giovane di Gesù. Nato a Tarso in Cilicia (cfr Atti, 22, 3) come ebreo della diaspora di lingua greca e con un nome latino (cambiato per assonanza da Saulo in Paolo), per di più insignito della cittadinanza romana (cf Atti, 22, 25-28), egli appare collocato sulla frontiera di tre culture diverse e forse anche per questo disponibile a feconde aperture universalistiche, come si rivelerà in seguito. Forse derivandolo dal padre, egli apprese anche un lavoro manuale consistente nel mestiere di skenopoiòs, letteralmente « fabbricatore di tende » (cfr Atti, 18, 3), probabilmente lavoratore della lana ruvida di capra per farne stuoie o tende, forse per uso militare ma soprattutto privato (cfr Atti, 20, 33-35). Del resto, nell’antichità Tarso era famosa per la lavorazione tessile specialmente del lino (cfr Dione di Prusa, Discorsi, 34, 21), tanto che alcuni papiri testimoniano l’aggettivo tarsikàrios per indicare un tessitore di lino. Verso i 12-13 anni, l’età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà (« figlio del precetto »), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di Rabbi Gamaliele il Vecchio secondo le più rigide norme del fariseismo (cfr Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 5-6; Atti, 22, 3; 23, 6; 26, 5), imbevendosi di un grande zelo per la Toràh mosaica. È sulle basi di una forte ortodossia religiosa, là acquisita, che egli intravide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un grande rischio per l’identità 2 giudaica. Da una parte, Paolo aveva conosciuto la forte critica di Stefano al Tempio di Gerusalemme (cfr Atti, 6, 14; 7, 47-50). Dall’altra, egli non poteva ammettere un Messia crocifisso, che si doveva ritenere soltanto scandalo e maledizione (cfr 1 Corinzi, 1, 23; Galati, 3, 13); se poi questi era ormai positivamente collegato con gli ignoranti della Legge (gli cammê ha-’aretz) e persino con i peccatori così che per essere giusti davanti a Dio bisognava credere in Gesù, allora la Torah finiva per non essere più né sufficiente né tanto meno necessaria. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente « perseguitato la chiesa di Dio », come per tre volte ammetterà nelle sue lettere (1 Corinzi, 15, 9; Galati, 1, 13, Filippesi, 3, 6). Peraltro è difficile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione. Per esempio, ciò che scrive Luca in Atti 9, 1-2 (« Saulo, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della Via ») fa difficoltà a combaciare con i dati storici, come rilevano i commentatori. Infatti, sotto i procuratori romani il Sinedrio non aveva giurisdizione fuori della terra d’Israele né Paolo poteva godere di un mandato ufficiale senza essere membro del Sinedrio stesso. Si ipotizza perciò che egli sia stato semplicemente inviato a Damasco da una sinagoga di Giudei « ellenisti » di Gerusalemme, forse con una lettera di raccomandazione da parte del sommo sacerdote, per mettere in guardia le sinagoghe locali contro il pericolo della nuova eresia ed esortarle a prendere misure adeguate, anche severe. Certo è che proprio sulla strada di Damasco, all’inizio degli anni Trenta, forse nel 32, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di valori. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare « danno » e « spazzatura » tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, la ragion d’essere della sua esistenza (cfr Filippesi, 3, 7-8). Che cos’era successo? Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più popolare, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento (cfr Atti, 9, 1-19; 22, 3-21; 26, 4-23), indugiando su alcuni dettagli pittoreschi, come la luce dal cielo, la caduta a terra, una voce che chiama, la nuova condizione di cecità, e la sua guarigione come di squame tolte dagli occhi, il digiuno. È difficile che ci sia Paolo in persona all’origine di queste narrazioni, sia perché egli non ne parla mai in questi termini, sia perché in Galati, 1, 13 rimanda i suoi lettori a qualcosa di sentito dire. Perciò è ben possibile che Luca abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco (si pensi al colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via sia del proprietario della casa in cui Paolo soggiorna: Atti, 9, 11), la quale compose in un primo tempo un racconto di conversione che metteva in rilievo la straordinaria trasformazione avvenuta nell’ex persecutore e che divenne poi anche il racconto della vocazione di un nuovo evangelizzatore. Il secondo tipo di fonti è quello più « autentico », in quanto consiste nella testimonianza del diretto interessato, e sono le lettere di Paolo stesso. Più volte infatti egli fa riferimento a quella straodinaria esperienza, e si tratta sempre di accenni molto 3 brevi, non descrittivi, che puntano soltanto al senso di ciò che allora avvenne (cfr Romani, 1, 5: « mediante Cristo Gesù ricevemmo la grazia dell’apostolato »; 1 Corinzi, 9, 1: « non ho io visto Gesù, il Signore nostro? »; 1 Corinzi, 15, 8: « ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto »; 2 Corinzi, 4, 6: « Dio che disse « Rifulga la luce dalle tenebre » rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo »; Filippesi, 3, 7: « ciò che per me era un guadagno lo stimai una perdita a motivo di Cristo »); il testo più diffuso si legge in Galati, 1, 15-16: « Quando a Dio, che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, piacque di rivelare il Figlio suo in me, perché lo annunziassi fra le genti, immediatamente non consultai carne o sangue né salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, ma mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco ». Come si vede, in tutti questi passi egli non indulge a dettagli narrativi, ma interpreta sempre quel momento non tanto come un fatto di conversione, poiché non ne impiega mai il lessico specifico (con i verbi metanoèin-epistrèfein e derivati), quanto come fondamento del suo apostolato, come incarico di evangelizzazione, e quindi come un evento di missione (con un lessico di visione, apparizione, rivelazione, illuminazione). Ci si può chiedere come spiegarsi il cambiamento verificatosi in Paolo sulla strada di Damasco. Nel clima romantico dell’Ottocento si preferiva ricorrere allo schema dell’uomo tormentato, che finalmente trova una via d’uscita alle proprie angosce adottando una soluzione estrema. Per fare questo si interpretava in senso autobiografico ciò che si legge in Romani, 7, 7-25, dove Paolo parla alla prima persona singolare: « Io non faccio quello che voglio, ma quello che detesto… Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra » (vv.15.22.23). Senonché, l’esegesi odierna di questa pagina paolina è molto più guardinga e dubbiosa, sia perché il testo è scritto al presente (quindi letteralmente dovrebbe riferirsi non al passato anteriore alla conversione), sia perché il passo appartiene non a un contesto autobiografico bensì a una riflessione di principio sul valore della Legge (sicché l’Io può benissimo spiegarsi con la figura retorica della enallage così da includere una esperienza universale), sia perché in un altro passo sicuramente autobiografico Paolo dice al contrario di essere stato « irreprensibile quanto alla Legge » (Filippesi, 3, 6: qui emerge addirittura la fierezza e la gioia di una identità giudaica vissuta in pienezza come « un guadagno »). Si può sempre pensare che quanto egli scrive in Romani, 7, 7-25 rappresenti semplicemente la coscientizzazione successiva (cristiana) di un vecchio conflitto inconscio nei confronti della Legge, mentre Filippesi, 3, 4-6 rappresenterebbe soltanto la tipica coscienza del Paolo precristiano. Ma le cose sono più complesse. Le testimonianze personali di Paolo sull’evento di Damasco sono costantemente incentrate sulla precisa figura di Gesù Cristo. Egli non parla d’altro, al punto da confessare persino di essere stato « ghermito da Cristo Gesù » (Filippesi, 3, 12). Si trattò dunque essenzialmente di un incontro di « persone », mentre invece i concetti, le « idee », pur implicite, giocarono un ruolo secondario. E-4 gli vide la gloria di Dio brillare sul volto di Cristo (cfr 2 Corinzi, 4, 6). Da questo punto di vista, l’esperienza di Paolo si deve spiegare anche in riferimento a certe categorie della mistica giudaica della merkavàh, cioè del « carro », che affonda le sue radici nella visione del primo capitolo di Ezechiele. Là il profeta dice di aver visto un carro trainato da quattro esseri viventi « e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane (…) Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore » (1, 26.28): qui, cioè, si osa associare la gloria celeste di Dio a un essere umano, sia pur indeterminato, e ciò spiega le riserve del rabbinismo su questa pagina. In ogni caso, non si può trascurare la dimensione psicologica dell’esperienza di Paolo, spesso trattata in termini di allucinazione (benché di norma agli storici e ai teologi manchino gli studi in materia di psicologia, così come gli psicologi sono perlopiù digiuni di tecniche storiografiche e di teologia). Uno studio di pochi anni fa cerca di fare chiarezza in materia, sia distinguendo tra allucinazione e illusione, in quanto esse non vanno identificate, sia precisando onestamente che la non oggettività del fenomeno (visione, udito, odorato, tatto) riguarda solo l’osservatore esterno ma non il soggetto che ne fa esperienza, e sia badando anche ai condizionamenti socioculturali del soggetto interessato. Quanto a Paolo, va preso atto che le sue dichiarazioni sull’evento sono rare (non in tutte le lettere) e molto sobrie (prive di descrizioni); in più, bisogna constatare che egli non adduce mai di fronte ai propri interlocutori l’esperienza da lui vissuta per fondare su di essa la propria autorità, né per garantire una qualche tesi teologica, né per rafforzare una qualche presa di posizione disciplinare; anzi, semmai, succede esattamente il contrario. Occorre perciò guardarsi dal giudicare l’evento della strada di Damasco con le categorie della psicopatologia. L’unico dato sicuro sul piano della fattualità storica, detto in termini junghiani, è che esso ha avuto una funzione prospettica tale da determinare il resto della vita di Paolo, e da farlo in modo del tutto positivo e fecondo: là egli ha fatto esperienza di un incontro e ha maturato una convinzione che ha ribaltato la sua esistenza, sia resettando l’intero suo patrimonio ideale sia riorientando le sue energie verso un nuovo scopo.
(©L’Osservatore Romano – 29 giugno 2008)