Archive pour novembre, 2011

21 Novembre: Presentazione della Beata Vergine Maria

dal sito:

http://www.pastoralespiritualita.it/Articoli-Rubriche/Anno-liturgico-feste-e-ricorrenze/21-Novembre-Presentazione-della-Beata-Vergine-Maria.html

21 Novembre: Presentazione della Beata Vergine Maria     

Memoria della Presentazione della beata Vergine Maria. Il giorno dopo la dedicazione della basilica di Santa Maria Nuova costruita presso il muro del tempio di Gerusalemme, si celebra la dedicazione che fece di se stessa a Dio fin dall’infanzia colei che, sotto l’azione dello Spirito Santo, della cui grazia era stata riempita già nella sua immacolata concezione, sarebbe poi divenuta la Madre di Dio. (Martirologio Romano)
Memoria mariana di origine devozionale, si collega a una pia tradizione attestata dal protovangelo di Giacomo. La celebrazione liturgica, che risale al secolo VI in Oriente e al secolo XIV in Occidente, dà risalto alla prima donazione totale che Maria fece di sé, divenendo modello di ogni anima che si consacra al Signore. (Messale Romano)

Origine e carattere della festa.

La Presentazione di Maria, ultima festa mariana dell’anno li-turgico, inferiore alle altre per solennità e iscritta molto tardi nel calendario, è tuttavia fra le più care al clero e alle persone consacrate a Dio.
Come è nato in Oriente il culto della Madonna, così in Oriente è sorta questa festa e vi era celebrata già nel secolo VII.
In Occidente, la Francia fu la prima ad accoglierla, alla corte romana di Avignone, nel 1372 e, un anno dopo, nella cappella del palazzo reale di Carlo V, il quale, anzi, con lettera del 10 novembre 1374 ai Maestri ed alunni del collegio di Navarra, espresse il desi-derio che fosse celebrata in tutto il regno.
Carlo, per grazia di Dio re dei Francesi, ai nostri amati sudditi: salute in Colui, che non cessa di onorare la Madre sua sulla terra. Fra gli altri oggetti della nostra sollecitudine, preoccupazione e riflessione di ogni giorno, occupa a buon diritto il primo posto nei no-stri pensieri il desiderio che la Beata Vergine e Santissima Imperatrice sia da noi onorata con amore grandissimo e lodata come merita la venerazione che le è dovuta. È infatti nostro dovere renderle onore e, volgendo in alto gli occhi dell’anima nostra, sappiamo quale incomparabile protettrice sia per noi, quale potente mediatrice sia presso il suo benedetto Figlio per tutti coloro che la onorano con cuore puro… Volendo perciò esortare il nostro fedele popolo a celebrare la festa, come proponiamo Noi stessi di fare, a Dio piacendo, in tutti gli anni della nostra vita, ne inviamo l’Ufficio, affinché con la devozione aumentiamo le vostre gioie (Launoy, Historia Navarrae gymnasii, Pars I, L. I, c. 10).
A quel tempo i principi parlavano così. E si sa come in quegli anni il saggio e pio re, proseguendo l’opera iniziata a Brétigny per mezzo della Vergine di Chartres, salvasse una prima volta dagli Inglesi la Francia sconfitta e smembrata. In quell’ora, critica per lo Stato come per la Chiesa, il sorriso di Maria Bambina portava all’uno e all’altra il grande beneficio della pace.
La festa odierna ricorda l’avvenimento più notevole e unico senza dubbio dell’infanzia della Santissima Vergine Maria: la sua Presentazione al Tempio da parte di Gioacchino e Anna e la sua consacrazione a Dio. Il fatto ci è riportato dagli apocrifi e particolarmente dal Protoevangelo di Giacomo, che nella prima parte risale al II secolo. Scritti posteriori ingraziosirono il racconto con mille dettagli, belli ma fantastici, dei quali si impadronirono tosto poeti, pittori e agiografi. La Chiesa accolse soltanto il fatto della Presentazione al Tempio.

La consacrazione di Maria.
Quando lo ritennero opportuno, san Gioacchino e sant’Anna condussero la loro piccola bambina al Tempio e là, come ritengono parecchi santi, la consacrarono al Signore, che l’aveva loro conces-sa nella vecchiaia.
Da parte sua, Maria ratificò la consacrazione fatta dai genitori, la consacrazione già fatta nel momento della sua concezione immacolata e si donò senza riserve, volendo per tutta la vita essere la serva del Signore. La Madonna, diceva san Francesco di Sales, fa oggi un’offerta quale il Signore la vuole, perchè, oltre la sua persona, che sorpassa tutte le altre, fatta eccezione del Figlio suo, offre tutto ciò che è, tutto ciò che ha e questo è quanto Dio chiede (Opere, t. IX, p. 236).

I sentimenti di Maria.
L’Olier fa notare che l’offerta, che Maria aveva fatta di se stessa fin dalla concezione immacolata, era segreta, ma che, come la religione comprende doveri interni e nascosti e doveri esterni e pubblici, Dio volle che rinnovasse l’offerta nel Tempio di Gerusalemme, unico santuario della vera religione allora esistente nel mondo intero, ed Egli stesso le ispirò di andare ad offrirsi a lui in quel luogo. La Bambina benedetta, santificata nella carne, l’anima penetrata e piena della divinità, mentre le sue facoltà naturali sembravano morte, era in tutto diretta dallo Spirito Santo. Con la sola attività del proprio spirito, chiudendo ogni porta alla saggezza umana, viveva soltanto secondo Dio, in Dio, per Dio e sotto la direzione stessa di Dio…
Posseduta dallo Spirito di Dio, tutta ardore e amore, era condotta al Tempio dallo Spirito divino, che la elevava oltre le possibilità dell’età e della natura. Bambina di tre anni appena, sale da sè i gradini del Tempio… per far vedere che soltanto lo Spirito divino la dirige e per insegnare a noi che, operando con la sua potenza nelle anime nostre, Egli è il vero sostegno delle nostre infermità…
Maria rinnova allora il voto di vittima e di ancella con amore ancora più puro, più grande, più nobile e più ammirabile di quando lo aveva emesso nel tempio sacro del seno di sant’Anna e tale amore, crescendo continuamente, sviluppandosi momento per momento, senza interruzioni e senza posa, la rende immensa. Tutta consumata da questo amore, non vuole avere di vita, movimento, libertà, spirito, corpo, niente altro che in Dio. Il dono fatto di sè è così vivo, ardente e stimolante che l’anima è, in ogni momento e in modo perpetuo, disposta ad abbandonarsi in Dio, ad appartenergli sempre di più, convinta di non esserlo mai abbastanza e desiderosa di esserlo maggiormente, se le è possibile…
Infine, offrendosi a Dio, come ostia viva a lui consacrata in tutto quello che è e in tutto quello che sarà un giorno, rinnova la consacrazione a Dio di tutta la Chiesa, che già aveva fatta nel momento della sua concezione e specialmente la consacrazione delle anime, che, seguendo il suo esempio, si sarebbero consacrate al divino servizio in tante sante comunità. In quel giorno la legge antica vede realizzarsi qualcosa di quello che essa significava: il Tempio di Gerusalemme vede compiuta una delle sue speranze e accoglie fra le sue mura uno dei templi dei quali è immagine la Santissima Vergine Maria, tempio vivo di Cristo, come Gesù sarà tempio vivo e perfetto della divinità (Vie intérieure de la Saint Vierge, pp. 127-133).

Dopo la Presentazione.
Maria non resta al tempio, perché nessuno meglio di Gioacchino e Anna sono preparati ad educare la Madre di Dio; ma vi ritorna spesso per essere iniziata alla legge mosaica, per unirsi ai sacrifici offerti a Dio ogni giorno e pregarlo di inviare presto il Messia pro-messo e tanto atteso.
Conoscendo pienamente i misteri del Figlio di Dio… Maria contempla e adora Gesù Cristo in tutte le figure della liturgia mosaica. Al tempio è come circondata da Cristo, lo vede dappertutto e, in certo senso, ella è la pienezza della legge poiché compie al momento del declino della Legge, ciò che questa non aveva ancora potuto consumare dalla sua istituzione.
Vedendo le vittime del tempio, Maria sospira per la morte della vittima annunziata dai profeti, per la morte di colui che salverà il mondo e che sarà ad un tempo sacerdote, vittima e tempio del suo sacrificio. Maria adempie senza saperlo in quel tempo le funzioni sante del sacerdozio che avrebbe esercitato sul Calvario… è il sacerdote universale, il sommo sacerdote della Legge, il Pontefice magni-ico, che immola in anticipo, spiritualmente, Gesù Cristo alla gloria del Padre… E, come offre a Dio se stessa, in tutto quello che è e in tutto quello che sarà, offre, nello stesso tempo, tutta la Chiesa.
La Legge richiamava il Messia… La Santissima Vergine lo chiama con maggiore potenza ed efficacia, più dei Patriarchi e dei Profeti, per la sua inimitabile santità, per le sue qualità auguste, per l’ardore della carità verso gli uomini e per l’amore ardentissimo e veemente per il Verbo incarnato, del quale già contempla la bel-lezza affascinante, nelle comunicazioni del Verbo stesso, delle quali il Padre si compiace favorirla… (Olier, ibid. pp. 137-144). La festa della Presentazione è così per noi provvidenziale preparazione, al periodo liturgico dell’avvento, ormai vicino, durante il quale, insieme con tutti i santi del Vecchio Testamento e soprattutto uniti alla preghiera di Maria, chiederemo per le anime nostre e per il inondo intero il grande beneficio della nuova nascita del Salvatore.

Preghiera:
Rallegratevi con me voi tutti che amate il Signore, perché, ancora piccolina, piacqui all’Altissimo (Secondo respons. del primo Notturno dell’Uff. della Madonna).
Nell’Ufficio cantato in tuo onore ci rivolgi, o Maria, questo invito e quale festa meglio di questa lo giustificherebbe? Quando, piccola più per l’umiltà che per l’età, candida e pura salivi i gradini del tempio, il cielo dovette riconoscere che ormai le compiacenze dell’Altissimo erano per la terra. Gli Angeli, in una pienezza di luce mai vista, compresero le tue grandezze incomparabili, e la maestà di un Tempio in cui Dio raccoglieva un omaggio superiore a quello dei nove cori angelici, la prerogativa augusta del Vecchio Testa-mento di cui eri figlia e i cui insegnamenti perfezionavano in te la formazione della Madre di Dio.
Tuttavia la santa Chiesa ti dichiara imitabile per noi in questo mistero della Presentazione, come in tutti gli altri, o Maria (Lezione seconda del secondo Notturno). Degnati particolarmente benedire i privilegiati che la grazia della vocazione fa abitare qui in terra nella casa del Signore e siano essi pure il fertile ulivo (Eccli. 24, 19) nutrito dello Spirito Santo col quale oggi ti paragona san Giovanni Damasceno (Lezione prima del secondo Notturno). Ma non è forse ogni cristiano, per il suo battesimo, cittadino e membro della Chiesa, vero santuario di Dio del quale il tempio di Gerusalemme è soltanto figura? Per la tua intercessione ci sia  possibile seguirti da vicino nella tua felice Presentazione, per meritare di essere noi pure presentati, al tuo seguito, all’Altissimo nel tempio della sua gloria (Colletta del giorno).

Dom Prosper Guéranger
da L’anno liturgico, vol. II, pagg. 1298-1302 – Ed. Paoline, Alba (CN) 1956.

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L’addio di Paolo, servo dello Spirito

 L'addio di Paolo, servo dello Spirito dans immagini e testi, m_sanpaoloconspada 

dal sito:

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo-rivista.jsp?wi_number=1803&wi_codseq=EC0907

L’addio di Paolo, servo dello Spirito

di suor Chiara Miriam – agosto-settembre 2009

Maestro de Soriguerola, Pala d’altare con i santi Pietro e Paolo (dettaglio: san Paolo), museo diocesano di Vich (Catalogna, Spagna).
Siamo giunti all’ultima tappa del nostro itinerario. La spiaggia di Mileto è anche uno degli ultimi approdi di Paolo in Medio Oriente, la sosta cercata di un viaggio che lo porterà prima a Gerusalemme e poi, dopo due anni circa, definitivamente lontano dalla terra di Gesù.
Una doppia cornice di lacrime racchiude quello che è considerato il testamento pastorale di Paolo, quasi un contenitore fatto di umanità, affetti, passione, che custodisce freschi e vivi la vicenda, il servizio, la missione dell’apostolo che ci ha accompagnato lungo questo anno a lui dedicato. Mentre prendiamo congedo da San Paolo, è lui a rivolgerci parole di commiato. Ci sentiamo un po’ come gli anziani di Efeso convocati per un discorso di addio, pur sapendo che rimaniamo affidati alla parola della grazia di Dio, della quale possiamo ogni giorno fare tesoro.
Una cornice di lacrime, dicevamo… quelle di Paolo, versate per le insidie, lacrime che hanno irrigato il suo umile e instancabile servizio, lacrime sparse notte e giorno per ammonire gli anziani di Efeso. Anch’essi piangono per la partenza di Paolo, perché sanno che non rivedranno più il suo volto. Lontano dal rivelare una caratteristica imbarazzante per l’uomo, le lacrime sono per Paolo la prova di una partecipazione effettiva ed affettiva, di un coinvolgimento serio con i destinatari del suo appassionato servizio apostolico, segno di relazioni profonde e vere generate dalla Parola. «Paolo lascia una comunità amata e vive il profondo senso dell’addio» (F. Brovelli). Quanto tempo è passato da quando Saulo, dopo l’incontro decisivo con il Signore Gesù, andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome di Lui! Ora Gerusalemme, città simbolo dove Gesù è stato crocifisso, attende Paolo con una missione decisiva: avviarlo al compimento, affinché possa portare a «termine la corsa e il servizio che gli fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio» (Atti 20, 24). Questa Buona Notizia di Gesù si è scritta ormai profondamente nella carne di Paolo, nella sua vicenda di discepolo e apostolo e ora è la sua stessa vita che la proclama. Nulla ferma Paolo: non la certezza di catene e tribolazioni, non le lacrime e i volti di coloro che egli ha condotto alla fede, non la preoccupazione per quello che sarà delle sue Chiese dopo di lui.
Paolo ha da portare a termine la sua corsa straordinaria, anzi la corsa della parola di Gesù proprio nella sua vita e nella sua morte. Questo è il compito di ogni discepolo: portare a compimento nella grazia dello Spirito ciò per cui è stato salvato, chiamato e inviato. Lo scriveva già Paolo dando un senso luminoso alle sue prove.
Passato, presente e futuro si dispiegano nelle parole di addio di Paolo, con una consapevolezza franca e lucida di ciò che è stato, di quello che anche ora lo costringe, docile allo Spirito Santo, di ciò che lo attende, per la fedeltà alla testimonianza di Gesù.
Da questo saluto coinvolgente e commovente che Paolo rivolge ai pastori della Chiesa di Efeso raccogliamo anche per noi alcune consegne: coltivare la consapevolezza umile e profonda di sé, del proprio servizio e delle esigenze e orizzonti che comporta testimoniare il Vangelo della grazia di Dio; vigilare su se stessi e custodire i fratelli per non smarrirsi o disgregarsi, per continuare nella fiducia ad essere quel piccolo gregge amato dal Padre; vivere la beatitudine della gratuità, come la chiama il card. Carlo Maria Martini, come creature fatte a immagine di quel Dio che è dedizione: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!».

(L’autrice è claustrale tra le clarisse del monastero di Santa Chiara, a Milano)

Cristo re dell’Universo

Cristo re dell'Universo dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 19 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II sulla Resurrezione dei corpi (Tema paolino)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1982/documents/hf_jp-ii_aud_19820127_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 gennaio 1982

1. Durante le precedenti Udienze abbiamo riflettuto sulle parole di Cristo circa “l’altro mondo”, che emergerà insieme alla risurrezione dei corpi.

Quelle parole ebbero una risonanza singolarmente intensa nell’insegnamento di san Paolo. Tra la risposta data ai Sadducei, trasmessa dai Vangeli sinottici (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36) e l’apostolato di Paolo ebbe luogo prima di tutto il fatto della risurrezione di Cristo stesso e una serie di incontri con il Risorto, tra i quali occorre annoverare, come ultimo anello, l’evento occorso nei pressi di Damasco. Saulo o Paolo di Tarso che, convertito, divenne l’“apostolo dei gentili”, ebbe anche la propria esperienza post-pasquale, analoga a quella degli altri Apostoli. Alla base della sua fede nella risurrezione, che egli esprime soprattutto nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15), sta certamente quell’incontro con il Risorto, che divenne inizio e fondamento del suo apostolato.
2. È difficile qui riassumere e commentare adeguatamente la stupenda ed ampia argomentazione del 15° capitolo della prima lettera ai Corinzi in tutti i suoi particolari. È significativo che, mentre Cristo con le parole riportate dai Vangeli sinottici rispondeva ai Sadducei, i quali “negano che vi sia la risurrezione” (Lc 20, 27), Paolo, da parte sua, risponde o piuttosto polemizza (conformemente al suo temperamento) con coloro che lo contestano (I Corinzi erano probabilmente travagliati da correnti di pensiero improntate al dualismo platonico e al neopitagorismo di sfumatura religiosa, allo stoicismo e all’epicureismo: tutte le filosofie greche, del resto, negavano la risurrezione del corpo. Paolo aveva già sperimentato ad Atene la reazione dei Greci alla dottrina della risurrezione, durante il suo discorso all’Areopago – cfr. Act. 17, 32). Cristo, nella sua risposta (pre-pasquale) non faceva riferimento alla propria risurrezione, ma si richiamava alla fondamentale realtà dell’alleanza veterotestamentaria, alla realtà del Dio vivo, che è a base del convincimento circa la possibilità della risurrezione: il Dio vivo “non è un Dio dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Paolo nella sua argomentazione post-pasquale sulla futura risurrezione si richiama soprattutto alla realtà e alla verità della risurrezione di Cristo. Anzi, difende tale verità persino quale fondamento della fede nella sua integrità: “. . . Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede . . . Ora invece, Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15, 14. 20).
3. Qui ci troviamo sulla stessa linea della rivelazione: la risurrezione di Cristo è l’ultima e la più piena parola dell’autorivelazione del Dio vivo quale “Dio non dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Essa è l’ultima e più piena conferma della verità su Dio che fin dal principio si esprime attraverso questa rivelazione. La risurrezione, inoltre, è la risposta del Dio della vita all’inevitabilità storica della morte, a cui l’uomo è stato sottoposto dal momento della rottura della prima alleanza, e che, insieme al peccato, è entrata nella sua storia. Tale risposta circa la vittoria riportata sulla morte, è illustrata dalla prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15) con una singolare perspicacia, presentando la risurrezione di Cristo come l’inizio di quel compimento escatologico, in cui per lui ed in lui tutto ritornerà al Padre, tutto gli sarà sottomesso, cioè riconsegnato definitivamente, perché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Ed allora – in questa definitiva vittoria sul peccato, su ciò che contrapponeva la creatura al Creatore – verrà anche vinta la morte: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15, 26).
4. In tale contesto sono inserite le parole che possono esser ritenute sintesi dell’antropologia paolina concernente la risurrezione. Ed è su queste parole che ci converrà soffermarci qui più a lungo. Leggiamo, infatti, nella prima lettera ai Corinzi 15, 42-46, circa la risurrezione dai morti: “Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale”.
5. Tra questa antropologia paolina della risurrezione e quella che emerge dal testo dei Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36), esiste una coerenza essenziale, solo che il testo della prima lettera ai Corinzi è maggiormente sviluppato. Paolo approfondisce ciò che aveva annunciato Cristo, penetrando, ad un tempo, nei vari aspetti di quella verità che nelle parole scritte dai sinottici era stata espressa in modo conciso e sostanziale. È inoltre significativo per il testo paolino che la prospettiva escatologica dell’uomo, basata sulla fede “nella risurrezione dai morti”, è unita con il riferimento al “principio” come pure con la profonda coscienza della situazione “storica” dell’uomo. L’uomo, al quale Paolo si rivolge nella prima lettera ai Corinzi e che si oppone (come i Sadducei) alla possibilità della risurrezione, ha anche la sua (“storica”) esperienza del corpo, e da questa esperienza risulta con tutta chiarezza che il corpo è “corruttibile”, “debole”, “animale”, “ignobile”.
6. Un tale uomo, destinatario del suo scritto – sia nella comunità di Corinto sia pure, direi, in tutti i tempi – Paolo lo confronta con Cristo risorto, “l’ultimo Adamo”. Così facendo, lo invita, in un certo senso, a seguire le orme della propria esperienza post-pasquale. In pari tempo gli ricorda “il primo Adamo”, ossia lo induce a rivolgersi al “principio”, a quella prima verità circa l’uomo e il mondo, che sta alla base della rivelazione del mistero del Dio vivo. Così, dunque, Paolo riproduce nella sua sintesi tutto ciò che Cristo aveva annunziato, quando si era richiamato, in tre momenti diversi, al “principio” nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-8; Mc 10, 2-9); al “cuore” umano, come luogo di lotta con le concupiscenze nell’interno dell’uomo, durante il discorso della Montagna (cf. Mt 5, 27); e alla risurrezione come realtà dell’“altro mondo” nel colloquio con i Sadducei (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36).
7. Allo stile della sintesi di Paolo appartiene quindi il fatto che essa affonda le sue radici nell’insieme del mistero rivelato della creazione e della redenzione, da cui essa si sviluppa e alla cui luce soltanto si spiega. La creazione dell’uomo, secondo il racconto biblico, è una vivificazione della materia mediante lo spirito, grazie a cui “il primo uomo Adamo . . . divenne un essere vivente” (1 Cor 15, 45). Il testo paolino ripete qui le parole del libro della Genesi 2, 7, cioè del secondo racconto della creazione dell’uomo (cosiddetto: racconto jahvista). È noto dalla stessa fonte che questa originaria “animazione del corpo” ha subìto una corruzione a causa del peccato. Sebbene a questo punto della prima lettera ai Corinzi l’Autore non parli direttamente del peccato originale, tuttavia la serie di definizioni che attribuisce al corpo dell’uomo storico, scrivendo che è “corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .”, indica sufficientemente ciò che, secondo la rivelazione, è conseguenza del peccato, ciò che lo stesso Paolo chiamerà altrove “schiavitù della corruzione” (Rm 8, 21). A questa “schiavitù della corruzione” è sottoposta indirettamente tutta la creazione a causa del peccato dell’uomo, il quale fu posto dal Creatore in mezzo al mondo visibile perché “dominasse” (cf. Gen 1, 28). Così il peccato dell’uomo ha una dimensione non solo interiore, ma anche “cosmica”. E secondo tale dimensione, il corpo – che Paolo (in conformità alla sua esperienza) caratterizza come “corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .” – esprime in sé lo stato della creazione dopo il peccato. Questa creazione, infatti, “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22). Tuttavia, come le doglie del parto sono unite al desiderio della nascita, alla speranza di un uomo nuovo, così anche tutta la creazione attende “con impazienza la rivelazione dei figli di Dio . . . e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).
8. Attraverso tale contesto “cosmico” dell’affermazione contenuta nella lettera ai Romani – in certo senso, attraverso il “corpo di tutte le creature” – cerchiamo di comprendere fino in fondo l’interpretazione paolina della risurrezione. Se questa immagine del corpo dell’uomo storico, così profondamente realistica e adeguata all’esperienza universale degli uomini, nasconde in sé, secondo Paolo, non soltanto la “schiavitù della corruzione”, ma anche la speranza, simile a quella che accompagna “le doglie del parto”, ciò avviene perché l’Apostolo coglie in questa immagine anche la presenza del mistero della redenzione. La coscienza di quel mistero si sprigiona appunto da tutte le esperienze dell’uomo che si possono definire come “schiavitù della corruzione”; e si sprigiona, perché la redenzione opera nell’anima dell’uomo mediante i doni dello Spirito: “. . . Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23). La redenzione è la via alla risurrezione. La risurrezione costituisce il definitivo compimento della redenzione del corpo. Riprenderemo l’analisi del testo paolino nella prima lettera ai Corinzi nelle nostre ulteriori riflessioni.

Omelia Prima Lettura : La dedizione del Re Pastore

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/14062.html

Omelia (23-11-2008)

don Marco Pratesi

La dedizione del Re Pastore

Il profeta Ezechiele ha di fronte a sé la rovina di Gerusalemme, del tempio e d’Israele in esilio a Babilonia, e accusa i capi del popolo, che secondo una metafora orientale chiama « pastori », di non aver saputo guidare il popolo. Essi hanno badato solo a se stessi, invece di mettersi a servizio del popolo se ne sono serviti per il proprio tornaconto. È stato questo uno dei fattori della rovina.
Di fronte a questo cosa farà Dio (e con questo siamo alla prima lettura)? « Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura ». Ezechiele preannunzia un impegno ancora più forte da parte di Dio, che interverrà personalmente.
Così la lettura è tutta una descrizione della cura premurosa di Dio pastore nei confronti delle sue pecore, cura che abbraccia quattro ambiti.
Primo, la vita delle pecore: Dio assicurerà loro il nutrimento e la possibilità di riposare tranquillamente.
Secondo, lo smarrimento e la dispersione delle pecore: Dio le cercherà con cura e le riporterà a casa, riunendole tutte (è evidente il riferimento all’esilio).
Terzo, la malattia delle pecore: egli fascerà le loro ferite e le rinvigorirà con una buona convalescienza.
Per quanto riguarda « la pecora grassa e forte », il testo è discordante. La traduzione greca dei LXX (seguita dalla Vulgata latina e dalla versione CEI) dice « ne avrò cura ». Il testo ebraico masoretico « la sterminerò ». Quest’ultimo si accorda con i vv. 17-22, nei quali Dio afferma che impedirà alle pecore forti di essere prepotenti; ma anche il testo dei LXX presenta questa idea nell’ultima parte del verso 16, laddove si dice che Dio pascerà « con giustizia », operando cioè un giudizio. Per una migliore corrispondenza del parallelismo, mi sembra preferibile il testo ebraico, ma nella sostanza non c’è differenza: la guida di Dio sarà tale che assicurerà la prosperità del gregge, senza che i più forti possano opprimere i deboli.
Per un cristiano è immediato vedere in questo testo il familiare profilo di Gesù buon pastore e re buono. C’è infatti un « luogo » umano dove si concentra la cura premurosa di Dio per questa umanità disorientata, debole, minacciata, affamata, stanca; c’è un « ambiente » umano dove risplende, arde e trionfa la regalità di Dio che, a partire da lì come da una « testa di ponte », è destinata a superare ogni ostacolo e a trionfare su tutto il cosmo: è la persona umano-divina di Gesù il luogo dove Dio regna, e da dove comincia a regnare sul mondo. Il regno è Gesù che diviene cuore del mondo.
Il regno di Gesù è nutrimento: vi si può attingere in abbondanza tutto quanto alimenta e fa crescere la vita; e riposo da ogni ansia che ci spinge a cercare la vita da soli, nell’affidamento a lui.
Il regno è guarigione dalle ferite che il male, fatto e ricevuto, ci ha inferto; e vigore che fluisce nel contatto vivo col Signore.
Il regno è centro, ove veniamo sottratti alla dispersione e alla disintegrazione di essere « uno, nessuno e centomila »; e patria, luogo che è davvero nostro, nel quale è bello dimorare.
Il regno è giudizio che denunzia ogni male e fine di ogni umana volontà di prevaricazione; e pace, luogo della fraternità, nella comune esperienza dell’essere amati dal grande Re-Pastore che per tutti ha dato la vita.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 19 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (20-11-2011): Non per Dio ma con Dio e come Dio

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23951.html

Omelia (20-11-2011)

don Marco Pedron

Non per Dio ma con Dio e come Dio

La parabola di oggi incute paura e terrore perché Dio sembra esigente e fiscale. Sembra che Dio abbia un grande libro dei conti e alla fine della vita, nel giorno del Grande Giudizio, tiri le somme: se le azioni negative sono superiori di quelle positive: inferno eterno. Se, invece, sono superiori, le positive: Paradiso eterno.
La Chiesa aveva anche usato una bella pubblicità a sostegno di quest’idea: l’occhio di Dio. « Dio vede tutto », diceva questa pubblicità (in molte chiese si può vedere l’occhio di Dio, all’interno di un triangolo, che era la Trinità): il suo occhio ti controlla, vede e sa tutto. A Lui non scappa nulla, a Lui nulla sfugge e qualunque malefatta che tu fai, sappi, che un giorno ti sarà rinfacciata. Dio è il Grande Fratello che vede tutto! Ma un Dio così è un Dio controllore, nemico della vita. E soprattutto non è evangelico, non è ciò che Gesù ci ha insegnato.
D’altronde se tu prendi la Bibbia di Gerusalemme, leggi come titolo di oggi: « Il giudizio finale ». E nel giudizio finale, quindi, Dio punisce alcuni e premia degli altri. Ma attenzione perché i titoletti, che li abbiamo messi noi e che non li ha messi Gesù, sono utilissimi ma alcune volte anche fuorvianti, come il caso di oggi.
La parabola inizia dicendo: « Quando il Figlio dell’Uomo verrà » (Mt 25,31).
Noi attribuiamo a Dio molti titoli: « Signore, il Figlio di Dio, l’Agnello di Dio, il Salvatore, ecc. », ma che cosa dice di sé Gesù?
Quando Gesù parla di sé usa sempre questo termine: « Il Figlio dell’Uomo ». Ed è un titolo che pochissimi di noi attribuiscono a Gesù, ed è strano, singolare, visto che Lui parla di sé sempre così!
E cosa vuol dire Figlio dell’Uomo? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato il progetto di Dio. Gesù nel battesimo (Mt 3,13-17) ha accolto e accettato la missione che Dio gli aveva dato e l’ha vissuta fino in fondo. Quindi Figlio dell’Uomo è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita.
Chiunque di noi quindi può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti lo dovremo essere. Tutti dovremo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è nient’altro il motivo per cui ci siamo ed esistiamo.
Che ci sia un progetto su di me vuol dire che la mia esistenza è significativa, importante: non sono qui a caso, sono qui per uno scopo e per un motivo. Ed è questo che dobbiamo recuperare: il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. Le persone sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Ma quando si sa il perché ci si è irresistibili.
« Con tutti i suoi angeli » (Mt 25,31). Quando noi pensiamo all’angelo, dentro di noi ci raffiguriamo una creatura con le ali. Ma l’angelo (anghello=annunciare) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda perché possiamo seguire la nostra strada e la Sua chiamata.
Hai mai incontrato un angelo? No, se pensi all’essere angelico con le ali.
Hai mai incontrato un angelo? Sì, tantissime volte, se sai chi è.
L’angelo vuole farti un uomo e una donna migliore. Io vivo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di mettermi in gioco, di guardarmi dentro, non sfruttando le mie potenzialità e la riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che ho dentro. Vivo sulla difensiva o non sfruttando il patrimonio che Dio mi ha dato. Allora arriva un angelo che mi mostra che posso essere migliore: posso osare, scegliere, smettere di vivere così e volare.
Chi ti ama non vede ciò che sei ma ti mostra ciò che puoi essere. L’angelo è questo. Quindi: « Quando il Figlio dell’uomo verrà con i suoi angeli », vuol dire con tutti quelli che vivono realizzando sulla loro vita il loro progetto di Dio.
E cosa fa il Figlio dell’Uomo? « Si siede sul trono della gloria » (Mt 25,31).
Cos’era il trono della gloria? Era un modo per definire il Tempio, dove cioè Dio stava. Il trono, dove Dio risiedeva nella sua gloria, nel suo splendore, era, dicevano gli ebrei, il Tempio. Ma cosa succedeva? Che al tempio ci potevano andare solo i puri: i peccatori, gli altri, no!
Ma adesso « il trono della gloria » non è più un luogo (il tempio) ma una persona (Gesù). Dio non risiede più in un luogo ma nelle persone, in chi lo ama e lo accoglie.
« E saranno riunite davanti a lui tutte le nazioni » (Mt 25,32).
« Nazioni » (Mt 25,32) è ethne. Cosa fanno i vangeli? Quando devono parlare di Israele usano la parola laos (=popolo). Anche qui si parla di un popolo ma non si usa questo termine.
Infatti quando si parla di ethne si intende sempre i pagani.
Se noi prendiamo il vangelo di Mt troviamo che il giudizio per Israele c’è già stato. Infatti in Mt 19,28 si dice: « Voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele ». Questo è il giudizio per Israele, che non ha accolto il messaggio di Gesù.
Qui invece nel vangelo di oggi si parla dei pagani, di tutti quelli, cioè, che non hanno mai conosciuto Gesù, che non ne hanno mai sentito parlare o che magari lo hanno rifiutato perché gli è stato presentato Dio in maniera erronea, distorta. Quindi non è un giudizio universale, ma solamente l’evangelista che si pone la domanda: « Cosa succede per tutti quelli che non hanno conosciuto il messaggio di Gesù? ».
Mt si rifà alla pratica dei pastori che la sera, quando si radunava il gregge, separavano i capri dalle pecore per poi procedere alla operazione della mungitura.
Cosa fa il re: « Mette le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra » (Mt 25,33). Perché? La sinistra da sempre è stata vista come la parte negativa: ancora oggi adoperiamo il termine « sinistro ». Se eri mancino, una volta, ti costringevano a scrivere con la destra perché era la mano del diavolo. Ma era solamente una stupida credenza.
Quindi per la mentalità del tempo: sinistro=negativo, destro=positivo.
« Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo » (Mt 25,34).
Noi abbiamo l’idea che Dio scriva tutto nel suo grande Librone. Il Talmud stesso, un libro ebraico del tempo, diceva che tutte le infrazioni vengono scritte su un libro.
Ma Gesù non ha bisogno di nessun libro per separare gli uni dagli altri. Gesù lo vede! E da che cosa lo vede? Lo vede se una persona è riuscita nella vita o no.
Mt 13,47-50 racconta la parabola della rete: il regno di Dio è come un pescatore che getta la rete e tira su pesci buoni e pesci marci (e non cattivi come a volte erroneamente viene tradotto). Quelli che vengono eliminati non è perché sono cattivi, per un giudizio morale, ma perché sono già marci. Lo si vede: non c’è la vita, la vitalità, sono morti, sono marci, per questo è costretto a buttarli via.
Mt 12,33 dice: « Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo; dal frutto si conosce l’albero ». Si vede, basta guardare! Non ci vuole un grande esperto per vedere che la frutta è marcia, non buona.
Chi nella vita riesce (secondo il senso di Dio) si vede: le sue parole parlano di amore, di compassione e di tenerezza; i suoi gesti sono rispettosi, non aggressivi e attenti; il suo volto è pieno di felicità e di luce.
Dio vede (non gli serve nessun libro!) e dice: « Venite benedetti dal Padre mio » (Mt 25,34). « Ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo » (Mt 25,34). Qual’era il progetto di Dio fin dalla creazione del mondo, fin dall’inizio? Che gli uomini avessero la sua stessa condizione divina, immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26).
Ma cos’hanno fatto questi « benedetti » per avere « il regno »? Perché hanno il regno? Sei azioni.
1. Avevo fame (Mt 25,35): c’è uno che ha bisogno e tu te ne accorgi. La fame di pane, di ascolto, di tenerezza, di comprensione, di essere riconosciti, stimati, valorizzati. Vedi uno che ha fame? Gli dai il pane! Ma non serve la Bibbia per fare questo: basta avere un cuore e conoscere l’amore!
2. Avevo sete (Mt 25,35): il dare da bere era in quella mentalità simbolo di accoglienza, dare vita. Vedi uno che ha bisogno di te, della tua accoglienza: tu puoi dargliela, gliela dai. E’ normale per chi ama tutto questo. E’ questione di sensibilità.
3. Ero forestiero, straniero (Mt 25,35): lo straniero in tutte le culture ha messo sempre paura. Straniero è tutto ciò che non è come me: un nuovo modo di pensare la vita, Dio; un nuovo modo di fare, di parlare, di rapportarsi; un nuovo modo di vestire, di concepire i rapporti. La prima cosa che diciamo è: « No ». Ma è un no solo perché non è come noi. Ma nei vangeli gli stranieri (stranieri nel vangelo sono i pagani, le donne, i pubblicani, gli ultimi, i lebbrosi=tutti esclusi dagli ebrei) non sono mai quelli che tolgono qualcosa, ma sempre quelli che portano, quelli che arricchiscono. Quindi l’accoglienza dello straniero non è una perdita, ma è una ricchezza.
4. Nudo (Mt 25,36): chi è nudo è esposto al pubblico ludibrio, al giudizio, alla vergogna. Nei vangeli i « giusti e pii » farisei, scribi e dottori si permettevano di giudicare, di condannare, di mettere alla berlina i peccatori (pensate all’adultera in Gv 8,1-11). Gesù, invece, difende, prende le parti di questa gente. Quando uno è vulnerabile, quando uno è indifeso, è da miseri, da ignobili, ferirlo.
5. Malato (Mt 25,36): il malato ha bisogno di aiuto, di sostegno, di cura. Gesù andava dalle persone e le vedeva tutte come malate bisognose di guarigione. I « sapienti », invece, li giudicavano. Un’adultera: una malata d’amore per Gesù. Per i sapientoni: una prostituta. Un pubblicano: un malato di riconoscimento (i soldi come compensazione). Per i sapientoni: un peccatore. Un lebbroso: un malato di contatto e di pelle. Per i sapientoni: un maledetto da Dio.
6. Carcerato (Mt 25,36): a quel tempo il carcerato era considerato uno che era giustamente punito: non faceva affatto compassione. E quando Gesù dice « carcerato e siete venuti da me », non significa soltanto una visita di conforto. I carcerati non stavano in carcere mantenuti dai carcerieri, ma dovevano essere i familiari o gli amici che dovevano provvedere al sostentamento del carcerato, altrimenti il carcerato moriva di fame. Quindi andare a trovare il carcerato non significa soltanto fare una visita di conforto, ma portargli da mangiare per mantenerlo in vita. Se non lo andavi a trovare, nel senso di portargli da mangiare, moriva.
Ma cosa sono tutti questi? Sono dei bisogni degli uomini. Amore, dice Gesù, è prendersi cura di questi bisogni.
Ma questa è una rivoluzione. Cosa diceva infatti la legge ebraica? Nel talmud si legge: « Nell’aldilà, il santo che benedetto sia, prenderà un rotolo della legge, se lo poserà sulle sue ginocchia e dirà: chi se ne è occupato, venga e riceverà la sua ricompensa ».
Gesù dice: non è l’osservanza, il comandamento, ma l’amore che ti fa vivere oggi e domani.
Allora i giusti gli risponderanno: « Signore, quando mai ti abbiamo veduto così affamato, ecc. » (Mt 25,37)? E Gesù: « Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli » (Mt 25,40).
Gesù non dice: « Quando ami uno, lo fai per me » ma « quando ami uno, ami me ». Ci sono persone che « devono amare gli altri » perché lo ha comandato Gesù. Ma se si deve amare gli altri lo si fa per dovere, senza alcun sentimento e per costrizione. L’amore non si comanda: si sente.
Non si fanno le cose « per carità cristiana »; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno perché ci è comandato è svilente: « Non ti amo, ma lo faccio perché me lo comandano! ». Con Gesù le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e come Dio.
Un giorno chiesero a Madre Teresa: « Perché lo fa? ». Si aspettavano come risposta: « Per Dio ». E invece lei sorridendo disse: « Per amore ». « Cioè per Dio », ripresero. « No, per amore. Perché la sua sofferenza tocca il mio cuore ». Non si ama l’altro perché Dio lo comanda ma perché ci tocca il cuore, l’anima. « E se Dio non ci fosse? », chiesero una volta sempre a Madre Teresa. « Non ho amato per Dio, ho amato per amore di chi mi stava davanti ». E siccome nell’uomo c’è Dio, amando il fratello lei amava anche Dio. E poi concluse: « Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio ».
Un giorno sempre Madre Teresa stava accuratamente curando le piaghe ripugnanti di un lebbroso. Faceva il suo lavoro sorridendo e chiacchierando con il malato, come fosse la cosa più naturale del mondo. Ad un certo punto chiese al malato: « Tu credi in Dio? ». Il pover’uomo la fissò e poi le disse, sorridendo: « Sì, adesso credo in Dio!!! ».
E un’altra volta un giornalista che la vedeva tutta dedita a curare un lebbroso le disse: « Madre, io non lo farei neanche per un milione di dollari ». E lei: « Neanch’io! ». E lui continuò: « Ma neanche se me lo comandasse Dio in persona! ». E lei: « Neanch’io ». Certe cose si fanno per amore? e basta.
Poi il re dirà a quelli alla sua sinistra: « Via, lontano da me maledetti » (Mt 25,41).
Prima aveva detto: « Venite, benedetti dal Padre mio » (Mt 25,34). Qui, invece, non si dice: « Maledetti, dal padre mio », ma solo: « Maledetti ». E da chi sono maledetti? Non certo da Dio! Si sono maledetti da se stessi!
« Nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli » (Mt 25,41). Il fuoco non è l’inferno dove si finisce arrostiti! Gesù prende un’immagine del suo tempo: a quel tempo c’era la Geenna, nella Valle dell’Hinnon, che era l’immondezzaio di Gerusalemme. Lì vi era sempre il fuoco perché venivano bruciati tutti i rifiuti.
Gesù dice: « Quelli che collaborano per l’amore (i benedetti) avranno ciò che vorranno: l’amore. E quelli che collaborano per distruggere, avranno ciò che vorranno: la distruzione ». Ognuno avrà ciò che vorrà.
E anche Gesù sa che ci sono gli angeli del diavolo: quelli che distruggono invece di costruire. E perché finiscono lì? Semplice: si sono chiuse di fronte ai bisogni delle persone. Non sono state in grado di fornire amore, ma hanno pensato solamente a se stesse.
Allora essi diranno: « Quando mai? » (Mt 25,44). Ma osservate la risposta: è frettolosa, sbrigativa! I benedetti: « Quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare? » (Mt 25,37). I maledetti: « Quando ti abbiamo visto affamato » (Mt 25,44) e basta. La risposta è breve perché loro non si sono proprio accorti di chi era bisognoso. Erano troppo presi da sé.
E osserviamo: « E non ti abbiamo assistito » (Mt 25,44). Assistito lett. è diakoneo, servire. Il diacono era la persona nella comunità cristiana che serviva, che faceva, che si occupava degli altri. Allora Mt dice: « State attenti perché si può essere diaconi, cristiani, ed essere « maledetti », senza cuore ». E i diaconi (i cristiani) potrebbero dire: « Ma noi ti abbiamo servito? », e lui dirà: « No ».
E la sentenza finale: « E se ne andranno questi alla mutilazione eterna, e i giusti alla vita eterna » (Mt 25,46).
Questa sembra una punizione se la leggiamo così. Ma non lo è. La parola supplizio viene dal greco (kolasis), ed è un verbo che vuol dire potare, recidere, mutilare (kolazo). Allora: c’era un progetto ma è stato tagliato, reciso, non è cresciuto, non si è sviluppato. La vita dentro di sé non si è sviluppata, cresciuta, per cui non sono stati in grado di darla.
Il vangelo conosce due termini: la bios e la zoè. La bios è la vita fisica: si nasce, parabola ascendente e poi discendente fino a morire. La zoè è la vita psichica, interiore, la vitalità: questa non smette mai di crescere e di svilupparsi.
Cosa dice Gesù allora qui? Se tu tagli, recidi la tua zoè, la tua vitalità, se tu non fai crescere l’amore che c’è in te, se tu non diventi più maturo e adulto, tu ti condanni a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è il re che li condanna, ma sono essi stessi che si sono condannati.
Cosa dice a noi questo vangelo? « Quando ti abbiamo veduto? ». 1. Bisogna avere cuore per vedere.
La gente dice: « Io non faccio male a nessuno! ». « Forse! ». Forse dici così, solo perché non ti accorgi. Quando tu sei preso da te e dai tuoi bisogni non puoi proprio vederli quelli degli altri. Perché sei troppo preso dalla pressione dei tuoi bisogni interni. Se vedi solo te non vedrai nessun altro.
Se hai fame di riconoscimento, quando l’insegnante ti dice: « Suo figlio a scuola è un po’ troppo vivace », tu non vedi il suo bisogno, la sua difficoltà. Tu vedi solo te e inizi a dire: « Parla così perché non ha figli; a casa mio figlio si comporta bene; impossibile ». Non vedi il suo bisogno ma solo il tuo, che è quello di essere riconosciuta nel tuo ruolo di essere una brava madre.
Se sei nudo perché nella tua vita, da piccolo, ti hanno umiliato molto, quando uno ti dice: « Guarda che qui, forse, hai sbagliato, non ti sei comportato bene », tu non vedi il suo bisogno di aiutarti ma reagisci in base al tuo terrore di essere svergognato un’altra volta: « Ma come ti permetti? E perché tu? ».
Se tuo marito viene a casa e si butta sul divano mezz’ora per riposarsi, tu non vedi il suo bisogno ma vedi solo il tuo: « Guarda caro, che anch’io è da stamattina che sono in piedi ».
Se tu « mandi a cagare » qualcuno e poi dici: « Io sono fatto così, quello che ho da dire lo dico in faccia », tu vedi solo te e la tua rabbia e non vedi che ti stai solo scaricando ferendo (e magari neanche c’entra!).
Allora: ci vuole cuore per vedere i bisogni degli altri e per non vedere solo se stessi. Il grande pericolo è di fare come quelli della sinistra: « Ma quando mai? Noi? Impossibile? ». E, invece, proprio nella tua insensibilità, non ti sei neppure accorto di chi ti stava vicino.
Alla scuola materna c’era un bambino che aveva sempre due fazzoletti. La maestra un giorno gli chiese il perché. « Uno è per soffiarmi il naso ». « E l’altro? », chiese la maestra. « E’ per asciugare gli occhi di quelli che piangono ». Che i bisogni degli altri tocchino il cuore: allora si è ancora vivi.
Una bambina torna a casa dalla casa di una vicina alla quale era appena morta, in modo tragico, la figlia di otto anni. « Perché sei andata? », le domanda il padre. « Per consolare la mamma ». « E che potevi fare tu così piccola, per consolarla? ». « Le sono salita in grembo e ho pianto con lei ».
Se c’è qualcuno che ha bisogno, siediti accanto a lui e ascolta il suo bisogno. Quando c’è un bisogno dentro o fuori di te, bisogna ascoltarlo.
Irena Sendler (1910-2008): è una cattolica che vive a Varsavia (la sua storia è stata scoperta solo nel 1999). C’è un bisogno impellente: far uscire dal ghetto di Varsavia tutti i bambini che si possono far uscire. Irena riesce ad ottenere il permesso di lavorare come idraulica specialista. Entrava nel ghetto con il suo camion e metteva nella borsa degli attrezzi tutti i neonati, nascondendoli nel fondo della sua cassetta. I più grandi dentro in un sacco di iuta. Nel suo camion teneva un cane ben addestrato ad abbaiare inferocito quando i soldati nazisti entravano nel ghetto. I soldati temevano il cane e il suo latrato copriva il pianto dei bambini. Fu catturata dai nazisti e selvaggiamente picchiata: le ruppero gambe e mani, ma non confessò nulla. Ne salvò 2.500!!!
2. Ma noi possiamo leggere questo vangelo anche in un altro modo. Tutti i tuoi bisogni hanno bisogno di te.
Alcuni dei nostri bisogni li riconosciamo altri invece neppure li vediamo e ne teniamo conto. Tu sei tutto lavoro e realizzazione. Il tuo bisogno di affetto, di intimità e di contatto, non lo vedi proprio. Cosa succede un giorno: ti innamori della tua collega. Ciò che trascuri è la tua rovina.
Tu sei tutta casa e figli. Il tuo bisogno di curarti e di femminilità, lo tralasci. Tuo marito non ti cerca più e un giorno gli rinfaccerai che « le cose sono cambiate » e che non ti ama più.
Tu sei incarcerato dalla paura di ciò che gli altri dicono e di fare brutta figura. Il tuo bisogno di diventare autonomo, lo trascuri proprio. Un giorno avrai la sensazione di essere dentro ad una gabbia senza porte o vie d’uscita e vivrai rassegnato. Ciò che trascuri ti condanna.
Tu sei preso dal bisogno di riconoscimento: devi fare un sacco di cose. Neppure ti accorgi che hai anche altri bisogni: per questo ci sei dappertutto, hai sempre da dire qualcosa e vuoi essere sempre in mezzo a tutto.
Ma facendo così rovini e inquini tutte le relazioni.
In Giappone all’inizio del secolo si usava viaggiare di sera con una lampada. Una sera, un cieco, fece un bel po’ di strada per chiedere del pane al fratello. Il fratello gli diede il pane e gli disse: « Prendi anche una lampada, che è buio fuori ». « A me non serve; io ho bisogno del pane; io non ho bisogno di una lampada, sono cieco », prese il pane e se ne andò. In effetti lui non aveva bisogno della lampada ma gli altri avevano bisogno che lui l’avesse. Un treno passò, non vide nessuna luce e lo investì.

Pensiero della settimana

Si possiede solo ciò che si dona;
ciò che non si può donare ci possiede!

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 19 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

20 NOVEMBRE 2011 – NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO (s)

20 NOVEMBRE 2011 – NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO (s)

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A34page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  1 Cor 15,20-26a.28
Consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni, apostolo 1, 4-6. 10. 12-18; 2, 26-28; 3, 5. 12. 20-21

Visione del Figlio dell’uomo nella sua potenza
Grazia a voi e pace da colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi (Dn 7, 13; 10, 16) e cinto al petto con una fascia d’oro (Dn 10, 15). I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve (Dn 7, 9). Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente (Dn 10, 6; Ez 1,7. 13), purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque (Ez 43, 2). Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere,
darò autorità sopra le nazioni (Ap 3, 12);
le pascolerà con bastone di ferro
e le frantumerà come vasi di terracotta (Sal 2, 9),
con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. Non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli.
Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo.
Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono.

Responsorio    Cfr. Mc 13, 26-27; Sal 97. 9
R. Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli. * Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
V. Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine.
R. Riunirà gli eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Seconda Lettura
Dall’opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote
(Cap. 25; PG 11, 495-499)

Venga il tuo regno
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e sul nostro cuore (cfr. Rm 10,8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell’anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l’anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell’anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell’affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l’Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l’iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre «membra che appartengono alla terra» (Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98,5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 15, 26). Allora Cristo potrà dire anche dentro di noi: «Dov’è o morte il tuo pungiglione? Dov’è o morte la tua vittoria?» (Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d’ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di «incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell’immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.

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