Archive pour novembre, 2011

Holy Mary – Africa

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Publié dans:immagini sacre |on 25 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

San Paolo nella letteratura moderna

PAOLO ESALTATO E CONTESTATO
(presentazione mia dello studio, non sapevo quanta letteratura anche « contro » Paolo!)

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=123985

San Paolo nella letteratura moderna

Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato…
L’articolo è una carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, sulla letteratura moderna — saggistica, narrativa, opere drammatiche, biografie — per rintracciare e presentare i vari atteggiamenti assunti nei riguardi di san Paolo. La carrellata prende l’avvio da Nietzsche e inquadra autori di diverse estrazioni: Gibran, Gide, Merejkowski, Papini, I. Giordani, Luzi, Citati, Taylor Caldwell, Dobraczynski, Mészoly, G. Manacorda, Fabbri, Pasolini, E. Baumann, Daniel-Rops. Le varie inquadrature mostrano l’interesse della letteratura per una personalità così densa di storia, di pensiero, di anima e di mistero come quella dell’apostolo Paolo. Il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al messaggio e all’azione del genio di Tarso.
Attenta com’è all’ascolto delle voci profonde, la letteratura non può non ascoltare quella di san Paolo. Dai primi secoli del cristianesimo ai nostri giorni, poeti, romanzieri e letterati gli si sono accostati, lo hanno ascoltato, interpellato, esaltato, contestato. L’articolo analizza l’incontro di 17 autori moderni con san Paolo. La carrellata, agile e sintetica, ma sintomatica, vuole presentare i vari atteggiamenti della letteratura nei riguardi dell’Apostolo, percorrendo saggistica, narrativa, opere drammatiche e biografie, oltre che il film mancato di Pasolini.
 
San Paolo nella saggistica
In Ecce homo Nietzsche (1844-1900) si è autodefinito: «Io non sono un uomo, sono dinamite» (1). Dinamite perché, novello messia, avrebbe scosso dalle fondamenta il vecchio mondo per costruirne uno nuovo. A frantumarsi per primo sarebbe stato il cristianesimo, fondato non da Gesù ma da Paolo di Tarso. Contro di lui egli si scaglia con violenza e disgusto, soprattutto nel capitolo 42 dell’Anticristo. «In Paolo — scrive — s’incarna il tipo opposto al “buon nunzio”, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio! Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista?» (2). Innanzitutto ha sacrificato Gesù: «Lo ha inchiodato alla sua croce». Paolo ha cancellato quanto non serviva al suo odio. Non gli serviva «il significato e il diritto dell’intero Vangelo», ma la sua contraffazione; «Non la realtà, non la verità storica [...]. E ancora una volta l’istinto sacerdotale degli Ebrei commise un identico, grande crimine contro la storia [...], si inventò una storia del primo cristianesimo». Non soltanto: falsificò la storia d’Israele, asservendo tutto ai suoi scopi.
La menzogna più deleteria di Paolo riguarderebbe la risurrezione di Gesù. A lui non serviva un redentore morto in croce, serviva un redentore risorto. «Paolo voleva il fine, quindi volle anche i mezzi [...]. Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti, tra i quali aveva diffuso la sua dottrina. — La potenza era il suo bisogno: con Paolo ancora una volta il prete mirò alla potenza — egli poteva utilizzare soltanto idee, teorie, simboli, con cui si tiranneggiano masse, si formano greggi». A tale scopo serviva soprattutto la credenza nell’immortalità, vale a dire la dottrina del “giudizio”». È doveroso pertanto definire Paolo uno spaventoso impostore, negatore della vita, nemico dell’umanità. Se il cristianesimo «è stato la più grande sciagura dell’umanità» lo si deve a Paolo di Tarso.
Sulla scia di Nietzsche si è avventurato anche Kahlil Gibran (1883-1931) in Gesù figlio dell’uomo (3). La presentazione di san Paolo ha un sapore selvatico: «A volte sembra quasi un animale nella foresta, braccato, ferito, in cerca di un antro dove celare al mondo la sua sofferenza» (p. 57). «Uomo strano», dai lineamenti disarmonici; quando parla non riferisce le parole di Gesù, ma predica il Messia annunciato dai profeti dell’antichità. È un giudeo colto, gode di «poteri nascosti», è capace di ammaliare l’uditorio. Si potrebbe definire un anticristo perché la sua dottrina è antitetica a quella di Gesù. Un personaggio che ha ascoltato entrambi così afferma: «Noi che conoscemmo Gesù e udimmo i suoi discorsi possiamo affermare che ci insegnava a rompere le catene della schiavitù per liberarci dal nostro ieri. Ma Paolo sta forgiando catene per l’uomo di domani. Col suo martello intende percuotere l’incudine nel nome di uno che neppure conosce» (p. 57). L’antitesi Gesù-Paolo continua spietata e approda alla seguente conclusione: Gesù vuole armonizzare l’umanità con quanto la natura ha di bello e di vivo, è portatore di gioia terrestre, liberatore da leggi e tradizioni, pura espressione del divino che è in noi; Paolo è nemico della vita e della gioia, schiavo di leggi e prescrizioni, annunziatore di un Gesù-Messia da lui pensato per compensare le proprie frustrazioni. Come il Gesù di Gibran è espressione poetica del suo romanticismo, così il suo Saulo di Tarso rivela l’insofferenza per quanto sa di Chiesa, cioè di dogmatico e di proibito.
Meno chiassosa ma più sottile e insidiosa delle precedenti è l’accusa che André Gide (1869-1951) ha formulato nei riguardi di san Paolo. Il perché va ricercato in uno degli aspetti portanti della sua opera. Scrive nei Nuovi nutrimenti: «Ho ammirato, non ho finito di ammirare, nel Vangelo, un sovrumano sforzo verso la gioia. La prima parola che ci è riferita del Cristo è “Beati…”. Il suo primo miracolo, la metamorfosi dell’acqua in vino [...]. C’è voluta la stolta interpretazione degli uomini, per fondare sul Vangelo un culto, una santificazione della tristezza e della pena» (4). Autore di questa stoltezza interpretativa è soprattutto san Paolo; la teologia della croce, recepita dalla Chiesa e presentata come verità rivelata, è sua invenzione. Spiegare questo tradimento del Vangelo («Anche il Vangelo secondo Marco, il più antico, avrebbe già subito l’influsso di Paolo») «è di suprema importanza». In merito, il testo gidiano più esplicito si trova nel Diario. Lo sintetizziamo.
Agli occhi del mondo la vita di Gesù è stata un fallimento. In realtà, Cristo, recandosi a Gerusalemme con gli Apostoli, pensava di andare verso il trionfo, non verso la morte in croce. Bisognava pertanto fornire una giustificazione della croce e dimostrare che la fine ignominiosa era stata prevista, dunque necessaria al compimento delle Scritture e alla salvezza degli uomini. Per questo motivo l’espressione «morto a causa dei peccatori» fu sostituita con l’altra: «morto per i peccatori». La sfumatura risultò «una felice confusione in favore della predicazione di san Paolo. Il Cristo non fu più veduto che sulla croce, e questa divenne il simbolo indispensabile. Era necessario gloriarsi soprattutto del segno dell’ignominia: solo così poteva apparire, ad onta di tutto, trionfatrice l’opera di colui che si era detto figlio di Dio. Ciò era indispensabile all’inizio per legittimare e propagare la dottrina» (5).
Gide ristabilisce la verità. La croce è una contraffazione del Vangelo; Cristo ha predicato la santità dei «nutrimenti terrestri» e degli istinti naturali; la «vita eterna», da lui proposta, non ha nulla di futuro, è l’immersione nell’«ebbrezza mistica» dei sensi che dà l’esperienza dell’éternité vécue dès maintenant. I divieti, le condanne e le minacce si cercano invano nel Vangelo: Tout cela n’est que de Saint Paul. Divenuta «padrona degli spiriti e dei cuori», la dottrina paolina ha reso impossibile il recupero della gioia evangelica: «La croce aveva trionfato del Cristo stesso, il Cristo crocifisso, questo si continuava a vedere, a insegnare. Ed è così che questa religione pervenne a oscurare il mondo (enténébrer le monde)» (6). La battuta è di sapore nietzschiano, ma Gide non vuole offendere Cristo: l’«oscuramento del mondo» si deve alla «follia della croce», escogitata dagli animi malati degli Apostoli e soprattutto da san Paolo.
«Riusciamo a scorgere il volto di Paolo, ma il suo cuore ci resta celato» (7). Così inizia la presentazione di Paolo lo scrittore russo Dimitri Merejkowski (1865-1941) nel volume Tre santi in cui, analizzando l’esperienza religiosa di Paolo, Agostino e Francesco d’Assisi, presenta la sua concezione cristiana. Di Paolo è un estimatore convinto. Lo ha frequentato leggendo le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, ha interrogato i suoi esegeti e i suoi storici, ne ha avvertito la presenza nel proprio spirito. Conseguenza? Un sentimento di stupore e di smarrimento perché nell’Apostolo egli ha avvertito la presenza di una realtà sconcertante: la santità. Con Paolo «s’inizia una via lungo la quale, simili a segni misteriosi o a segnali di fuoco, sorgono mille altri santi» (p. 12). Il mistero della santità ci resta sconosciuto.
Osservando il volto dell’Apostolo, Merejkowski riesce a cogliere il segreto del suo cuore: l’amore. «Nessuno, dopo Cristo, ha mai amato più di Paolo gli uomini di maggiore amore. Ecco dove si deve ricercare e dove si trova il segreto della vittoria di Paolo, che ha vinto il mondo» (p. 41). Tale amore è, in lui, fusione della sua volontà con quella del Salvatore; in essa «sta il mistero della Predestinazione, la gioia di tutte le gioie» (p. 31). Alla forza dell’amore si accompagna, in Paolo, la passione per la libertà. È «il più libero degli uomini» perché «sempre prigioniero dello Spirito» (p. 70). Questi due elementi hanno fatto di lui — come del resto anche di Gesù — un ribelle e un perturbatore: «Il primo ribelle è Gesù, il secondo Paolo» (p. 72), «il primo tra tutti i perturbatori è Gesù, il secondo è Paolo» (p. 85).
 Uno degli aspetti più significativi di san Paolo è, a parere di Merejkowski, il suo contrasto con Pietro: contrasto da lui enfatizzato fino alla contraffazione, allo scopo di far credere che «la Chiesa non proviene da Cristo» (p. 220). Pietro e la Chiesa sarebbero la legge, la schiavitù, la religiosità statica; Paolo il propulsore di una religiosità dinamica, ispirata allo spirito di libertà. «L’eterna opposizione, l’antinomia tra la legge e la libertà, lacera il cuore di Paolo e lacera il cuore di tutta la Chiesa» (p. 63). Il cristianesimo di Paolo è più genuino di quello della Chiesa perché «appreso da Cristo stesso, suo unico Maestro» (p. 45).
Questo atteggiamento anticattolico dello Scrittore russo gli deriva non soltanto dalla sua dipendenza da studiosi razionalisti e positivisti, ma soprattutto dal fatto che egli «trasfonde nella maggioranza dei suoi scritti la sua strana filosofia della religione, affettatamente profonda, ma in realtà superficiale e isterica» (8). A ciò si deve se il volto del suo san Paolo ha taluni tratti gradevoli e convincenti, altri ambigui e inaccettabili.
Di san Paolo Giovanni Papini (1881-1956) è un cultore entusiasta. Lo cita con frequenza, ne ammira la dedizione, l’energia, la passione. Nel volume Santi e poeti (9) ricerca «quel che di romano vi fu nel suo pensiero e nella sua opera»; nello stesso tempo delinea i tratti specifici della sua personalità. Partendo dall’assioma che «ogni genio ha più d’una patria», all’Apostolo assegna la Giudea come patria etnica, la Cilicia come patria carnale, Roma come patria per diritto e per desiderio.
Alla domanda: quali sono gli elementi che permettono di considerare «romani» il pensiero e l’opera di san Paolo, Papini così risponde: «L’aspirazione all’unità del genere umano, sotto una sola legge e un solo dominatore, la tendenza alla conquista dei popoli, il riconoscimento dell’autorità terrestre ai fini della giustizia e del bene, la diffidenza verso le speculazioni filosofiche che non esclude l’uso della ragione come ausiliaria per la ricerca della verità sono i punti nei quali la prassi di Roma e l’anima di Paolo si accordano» (p. 50). Naturalmente — nota lo scrittore — l’opera di Paolo fu la trasposizione a un ordine indicibilmente più elevato — spirituale e mistico invece che temporale e civico — degli elementi «romani» sopra accennati. Ma ciò non impedisce di scorgere quelle analogie e concordanze che permettono di considerare Paolo «non soltanto cittadino ma santo romano».
Igino Giordani (1894-1980), saggista e narratore, oltre a un’agile biografia di san Paolo (Paolo, apostolo martire, 1929), ha scritto su di lui un profilo preciso ed entusiasta in cui sintetizza gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano. «C’è in lui — scrive — il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro ai greci e Cesare ai romani; c’era nella sua speculazione una profondità che ricordava Platone; e c’era nel suo tratto una tenerezza e una fantasia innamorata, che l’avvicinavano a Virgilio. Ma le loro qualità le fondeva in una sintesi, la quale traeva luce e faceva da candelabro a sette braccia a una fede soprannaturale unica» (10).
 In un primo tempo, influenzato da Gide e da certa letteratura nordica, Mario Luzi (1914-2005) confessa di aver visto san Paolo «con occhi distorti», considerandolo «una sorte di custode, autoritario e severo, dell’ortodossia». In seguito ha capito che questo aspetto talvolta c’è, ma in un contesto particolare. San Paolo è tutt’altro: «È una figura mirabile per l’empito e il titanismo, in un certo modo, che egli sprigiona. Veramente quando leggi le sue Lettere ti accorgi della sua estrema consapevolezza e della sua centralità: su di lui grava la decisione di un grande evento, che può finire nel nulla oppure divampare a segnacolo mondiale» (11). Luzi lo ama e lo ammira perché vede in lui «un uomo di grande umanità e di fraternità», consapevole di inaugurare una nuova èra, sovvertendo un modo di vivere e di pensare.
L’elemento che maggiormente colpisce Luzi è il «fuoco di profezia» che fa vibrare l’anima dell’Apostolo. «Mentre parla per istruire gli adepti delle comunità si illumina egli stesso di nuovo sapere, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta neppure quando amministra o governa: e si deve a questa esuberanza di profezia se egli può assumere vertiginosamente sopra di sé l’autorità esclusiva di dettare e di interpretare il vero Vangelo» (p. 156 s). Tale «fuoco di profezia» si sprigiona «da alcune rocciose certezze» che lo alimentano e conferiscono alla sua parola energia e novità. «È il primo a far sentire la fede come sublime non-senso», follia e scandalo. «Paolo esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede» (p. 16). Centro della fede è Gesù Cristo, il Vivente, il Risorto. «Il nucleo della sua [di Paolo] forza sta nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio» (p. 161). Paolo emerge dal «caos dell’errore e dell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza» (p. 163).
Pietro Citati (1930) in un capitolo del volume La luce della notte (12) immagina che un oscuro letterato platonico, vissuto tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo d. C., legga la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani e ne resti sconvolto. «Aveva un’altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall’uomo, e sempre uguale a se stesso». Le Lettere di Paolo capovolgono questa sua immagine, soprattutto le affermazioni: che Dio si era fatto uomo e amava l’uomo di carne; che Dio si manifesta nella storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza; che il male non sta nella creazione, fuori di noi, ma nel nostro animo. Paolo inoltre derideva ogni sapienza umana e respingeva quanto era stato affermato su Dio, sull’uomo, sul tempo, sul futuro, sull’amore.
Che cosa conclude Citati? «Malgrado tanto tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell’universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all’estremo, senza attendere una soluzione» (p. 107). In verità, «dentro di noi c’è un platonico che commenta Paolo; e un cristiano paolino che commenta Platone» (ivi).
 
San Paolo nella narrativa
A san Paolo la scrittrice anglo-americana Taylor Caldwell (1900-85) ha dedicato un fluviale romanzo — Il leone di Dio (13) — dopo «uno studio approfondito durato diversi anni». È da crederle perché, a lettura finita, bisogna riconoscerle larghe conoscenze dell’ambiente geografico, storico, etnico, politico, religioso. Carente è invece la preparazione biblica e la personale sensibilità religiosa nel trattare episodi e documenti.
 
Nell’Apostolo l’Autrice ha «voluto vedere l’uomo così come egli era, un uomo simile a noi, con gli stessi dolori, dubbi, ansie e collere, e intolleranze, e “debolezze della carne” che affliggono noi tutti» (p. 12). Aveva un geloso e tenace attaccamento alla corrente dei farisei, un’intelligenza acuta, ma intollerante e polemica, una psicologia alterata: era osservante scrupoloso della Legge, dominato da un timore di Dio fino all’ossessione e talvolta alla disperazione; soprattutto era un uomo dominato dal confuso presentimento di una grande missione da compiere senza sapere né come né dove.
Le prime due parti del romanzo si leggono con gusto e interesse, data la capacità dell’Autrice di costruire la figura del protagonista con una straordinaria forza di lineamenti, in una prosa piacevole e duttile. Nell’ultima parte — la terza — il romanzo perde mordente: ci si sofferma su descrizioni, belle ma superflue, la fantasia corre senza controllo, la figura di san Paolo sbiadisce e perde di autenticità. Il leone di Dio è un romanzo per alcuni aspetti pregevole, per altri debole e mal sicuro.
Convincente per solidità di struttura e per validità letteraria è il romanzo La spada santa di Jan Dobraczynski (14), tra i più noti, fecondi e discussi scrittori polacchi del Novecento. La storia di san Paolo è il sottotitolo del romanzo. In esso l’elemento storico è solido, il fantastico è dilatazione della storia, suo completamento e spiegazione, l’insieme risulta armonico e compatto. Il romanzo si presenta come un mosaico sul quale è ritratta la storia della primitiva comunità cristiana. Grazie a un continuo flashback, il lettore si muove sull’itinerario di Paolo, ne rivive gli incontri, le peripezie, i dilemmi, ne approfondisce il messaggio, ne intuisce il mistero che in lui si compie.
Le idee di fondo del romanzo sono quattro. Innanzitutto, la presenza di Cristo nella vita dell’Apostolo. Essa conferisce significato al suo agire, chiarezza alle sue scelte, coraggio e fiducia alle sue imprese. In secondo luogo, la consapevolezza dell’universalità della redenzione. Idea, questa, che per un ebreo come Paolo, legato a Gerusalemme e al Tempio con tutte le fibre dell’essere, costituiva un continuo martirio. La terza idea è la novità cristiana che rivoluziona pratiche secolari e proclama il loro superamento. Infine, la consapevolezza della propria nullità. Dopo aver riferito alla comunità di Gerusalemme la diffusione del Vangelo in molte regioni pagane e perfino in città ritenute dissolute (Corinto), arroganti (Atene), «impestate da mostruose superstizioni» (Efeso), dichiara: «Non io le ho conquistate, fratelli, perché io sono una nullità, e quando arriva il momento di predicare, sto davanti alla gente, debole e spaventato, e non trovo le parole, e nella testa ho una grande confusione. Ma il Signore si compiace di mostrare la Sua potenza attraverso la mia miseria. Chi sono io? Mi conoscete. Ero un criminale, figlio dell’ira, che agiva male anche se non lo sapeva. Non conquisterei nessuno, se non fosse per il Signore. Il Signore è tutto» (p. 61).
Nel presentare san Paolo, Dobraczynski ne fa vedere anche l’attualità e l’urgenza: la pace e la giustizia non vanno ricercate con la spada ma con la comprensione e la fratellanza. Cioè con l’amore. E l’amore per il Risorto abbraccia e trasfigura ogni realtà: «Ma alla fine capii — afferma Paolo —. Capii che amare Gesù significa amare tutto e che in questo amore nulla perisce. Perché quando tutto sprofonderà in esso, in esso tutto si potrà ritrovare» (p. 272).
Miklós Mészöly (1921-2001), noto scrittore ungherese, nel romanzo Saulo (15) descrive l’antitesi tra il mondo intransigente della Legge, simboleggiato da Abiatar, amico di Saulo, e quello del nuovo Verbo, fondato sull’amore e sul perdono, simboleggiato da Stefano. Saulo è impegnato a fondo nella difesa della Legge e nel punire quanti la misconoscono. Un dialogo notturno con Stefano, prima che questi venga arrestato, gli rivela la superiorità di una legge fondata sull’amore e sulla libertà. Partecipa alla lapidazione di Stefano, ma si sente braccato da una misteriosa presenza che lo sospinge verso coloro che perseguita. Andando verso Damasco, calzando i sandali che Stefano gli ha lasciato in eredità, resta accecato. Dove lo condurrà la misteriosa presenza?
 
San Paolo in tre opere drammatiche
Guido Manacorda (1879-1965), letterato di vasta cultura, è autore di Paolo di Tarso (16), dramma sacro in tre atti e un intermezzo, costruito con intelligenza storica, denso di contenuto, un po’ debole nella struttura drammatica.
Il primo atto si svolge a Gerusalemme, nella spianata del Tempio, a pochi giorni dalla crocifissione di Gesù. In un incalzare di voci si distinguono quelle degli Apostoli, frastornati dagli eventi. Sulla scena interviene Saulo, osserva con disgusto la gente che acclama Barabba, dichiara il suo odio per i mercanti e i sacerdoti che tradiscono la Legge. Poi, rivolto a Giovanni, incalza: «Ma più di tutti odio voi, Nazareni, perché con le vostre parole di perdono e di pace snervate le ultime forze d’Israele, e volendo tutti fratelli, ci date in balia del nemico» (p. 29).
L’intermezzo ha come sfondo la strada per Damasco. Quando Saulo incontra la Samaritana, che crede in Gesù, e un pastore che a Betlemme ha visto il Bambino e ascoltato la voce degli angeli che lo hanno proclamato «Cristo, il Salvatore del mondo», furente, punta la spada contro di loro, ma una luce violenta lo abbatte. Lo sguardo velato, le braccia aperte, «Fratelli miei in Cristo, Signore nostro…» comincia a dire, ma vacilla, come sopraffatto, è sorretto e condotto a Damasco.
Il secondo atto si svolge nell’areopago di Atene. Paolo parla ai filosofi che lo ascoltano con interesse ma ne respingono le idee: «Manca di scuola!» e «quell’accento giudaico, che peccato!». Soltanto Dionigi e Damaride, povera peccatrice convertita, lo seguono. Nel terzo atto siamo a Roma, presso un coemeterium dove i cristiani si sono radunati per la santa Cena. Presiede Pietro, partecipano Paolo e Giovanni. Si legge il Libro, si canta, si prega, si consuma l’agape, ci si esorta alla fedeltà a Cristo, in un’atmosfera di gioia ma anche di ansia per il presentimento del martirio di Pietro e Paolo.
Nel dramma Manacorda ha inteso puntualizzare lo scontro tra l’ebraismo religioso del tempo, svuotato d’interiorità, e l’adorazione «in spirito e verità», chiesta da Gesù; tra la filosofia greca e la verità della Rivelazione. In particolare il dramma mette in risalto la rivoluzione dell’amore cristiano che non conosce barriere, illumina la vita, vince il peccato e la morte. Paolo si congeda con un invito alla gioia: «Pantote chairete… Siate sempre gioiosi».
Altre due opere drammatiche hanno san Paolo come protagonista. In Al Dio ignoto Diego Fabbri (1911-80) porta sulla scena un gruppo di attori, stanchi di finzioni e di parole vuote, e assetati di verità e di consistenza. È possibile credere nella risurrezione e sperare in un traguardo trascendente e appagante? Si ribellano all’eclissi di Dio e allo scetticismo, e si impegnano ad approfondire «il punto fondamentale» della fede cristiana, la risurrezione. Così decidono di riviverla per verificarne la veridicità. L’azione drammatica si fa viva e intensa per l’intervento dei vari testimoni e la disarmante semplicità dei testi evangelici. Dopo l’apparizione di Cristo sotto forma di luce, avanza verso il gruppo degli attori Paolo, fa un gesto di tacere, e rivolge un discorso esaltante. Sì, Cristo è realmente risorto, è apparso agli Apostoli, a molti fratelli ancora vivi, infine anche a lui. Dichiara che per testimoniare la risurrezione si affrontano persecuzioni di ogni genere, e conclude: «Non si soffre, fratelli miei, come abbiamo sofferto noi, non si è imprigionati e flagellati come è accaduto a noi, non si versa il proprio sangue per delle visioni: noi abbiamo avuto e abbiamo la certezza della risurrezione. La nostra è una moltitudine pacifica ma travolgente che ha per condottiero un Risorto» (17).
Paolo fra gli Ebrei di Franz Werfel (1890-1945) (18), più che un vero dramma, è una «leggenda drammatica», fondata su due tradizioni, al cui centro sta lo scontro tra il Rabbi Gamaliele e il suo discepolo Saulo di Tarso, convertito a Cristo. L’amato Rabbi si dichiara disposto a riconoscere in Gesù un Maestro giusto, ma non il Messia, come crede Saulo. Congedandosi da Gamaliele morente, Paolo ha la rivelazione del suo drammatico destino: «Andare, andare, perché Cristo è un cacciatore infaticabile».
 
Il film mancato di P. P. Pasolini
Nel «progetto per un film su san Paolo» (19) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato… Partito, Chiesa… chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
 
Due biografie
Emile Baumann (1868-1941), narratore dagli sfondi psicologici, talvolta aspri e audaci, è l’autore di una biografia di san Paolo, notevole per validità letteraria, storica e strutturale. Dopo aver percorso gli itinerari dell’Apostolo, ne ha raccontato la «sublime e terribile avventura» con il preciso scopo di «raggiungere l’anima». Grazie alla sua capacità di scavo psicologico, di resa letteraria, di fedeltà ai testi storici, raggiunge lo scopo e offre al lettore un’immagine viva di Paolo che definisce «una delle anime più ardenti di passione, che abbiano sconvolto la terra» (20).
Suggestiva e ben definita è la biografia dell’Apostolo scritta da Henri Daniel-Rops (1901-65), noto storico della Chiesa e robusto autore di romanzi. Nella sua ottica san Paolo «è un ebreo, figlio di una cittadina ellenistica e di un cittadino romano. Ciò vuol dire che egli partecipa di tre forme di civiltà, che egli è attraversato da tre correnti differenti» (21). Il tutto in lui si fonde, si nobilita e si trasfigura nella redenzione operata da Cristo. Sotto l’aspetto psicologico, Paolo «è un essere pieno di contrasti, esigente e tenero, violento e sensibile e, nello stesso tempo, energico e meditativo» (p. 89). In particolare «la potenza della sua personalità è una potenza d’amore; non è l’umanità intera, considerata astrattamente che egli ama e vuol condurre alla salvezza; è ogni uomo in quanto persona, poiché l’amore non conosce che persone» (p. 90 s).
In Paolo — nota Daniel-Rops — si trovano quelle note, intellettuali e spirituali, che fanno di lui «un essere senza pari», diciamo pure «un genio»: «la lunga pazienza, la solidità, l’accanimento nello sforzo [...], la conoscenza lucida dello scopo da raggiungere, l’energia paziente nel tendervi [...], lo spirito di entusiasmo, la fede» (p. 92 s). È anche un «grande scrittore [...] perché possiede il dono delle formule che colpiscono», di dare alle parole un senso nuovo «con ravvicinamenti abbaglianti». Possiede inoltre la potenza di evocazione, l’arte di condensare in brevi battute concetti profondi, la varietà di toni e di formule, il balzo poetico che gli consente voli sublimi «come un grande uccello al di sopra di abissi vertiginosi». Con felice intuizione, così lo Scrittore conclude l’argomento: «Se san Paolo è un grandissimo scrittore, è perché prima è un uomo, e poi uno scrittore» (p. 175).
Chi è san Paolo? «Vien detto di lui “che egli fu il primo dopo l’unico”; il suo posto fu tale che non possiamo comprendere Gesù e la sua Parola senza riferirci al santo genio di Tarso, al suo messaggio, alla sua azione» (p. 235).
«Assume sul suo cuore la passione del Dio eterno»
Paolo, come Gesù, segno di contraddizione: accolto e respinto, amato e odiato. Non ci si accosta a lui impunemente: la sua parola colpisce, rivela, interpella, esalta, inquieta. La sua visione dell’uomo e della storia riceve luce dall’Alto. Paul Claudel ne descrive alcuni tratti in solenni ritmi poetici: «Vedendo Dio, [Paolo] vede con Dio questo mondo ingrato e crudele, e assume sul suo cuore umano la passione del Dio eterno. / E poiché Dio non ha voce, egli è la voce che parla per lui. / [...] Egli va dove il vento lo porta, senza fine né sosta, da un capo all’altro del mondo, come un fuoco che il vento strappa e trascina oltre il mare! [...] E vedendo quei figli ciechi e quei popoli che muoiono senza battesimo, / piange, si torce le mani e chiede di essere anatema per essi» (22).
 ——————————

1 F. NIETZSCHE, «Ecce homo», in Opere 1882-1895, Roma, Newton, 1993, 894.
10 I. GIORDANI, «San Paolo», in G. BARRA (ed.), Santi per oggi, Torino, Borla, 1955, 127.
11 M. LUZI, La porta del cielo, a cura di S. VERDINO, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997, 73.
12 Cfr P. CITATI, La luce della notte, Milano, Mondadori, 1996.
13 Cfr T. CALDWELL, Il leone di Dio, ivi, 1972.
14 Cfr J. DOBRACZYNSKI, La spada santa. La storia di san Paolo, Torino, Gribaudi, 2002.
15 Cfr M. MÉSZÖLY, Saulo, Roma, E/O, 2001.
16 Cfr G. MANACORDA, Paolo di Tarso, Firenze, Vallecchi, 1927.
17 D. FABBRI, Tutto il teatro, vol. II, Milano, Rusconi, 1984, 2.341.
18 Il dramma — Paulus unter den Juden (1926) — non è stato tradotto in italiano.
19 Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
2 ID., L’Anticristo, ivi, 797.
20 E. BAUMANN, San Paolo, Brescia, Gatti, 1952, 340.
21 H. DANIEL-ROPS, San Paolo, Alba (Cn), Ed. Paoline, 1952, 104. Il titolo originale è Saint Paul, conquérant du Christ.
22 P. CLAUDEL, Corona benignitatis anni Dei, Parigi, Gallimard, 1920, 169.
3 Cfr K. GIBRAN, Gesù figlio dell’uomo, Milano, SE, 1987.
4 A. GIDE, «I nuovi nutrimenti», in ID., I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 169.
5 ID., Diario, vol. III, Milano, Bompiani, 1954, 44.
6 Ivi.
7 D. MEREJKOWSKI, Tre santi: Paolo, Agostino, Francesco d’Assisi, Milano, Mondadori, 1936.
8 N. VON ARSENJEV, Die russische Literatur der Neuzeit und Gegenwart, Mainz, 1929, 360. Il testo è riportato da B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II e III, Firenze, Mazza, 1949, 57.
9 G. PAPINI, Santi e poeti, Firenze, Lef, 1948. 
 
Fonte: La Civiltà Cattolica 2008 III 475-488  quaderno 3798

The first Thanksgiving Day (24 novembre)

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La Resurrezione dei morti – (Ebraismo)

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=216:tkiath&catid=46:credenze&Itemid=77

La Resurrezione dei morti – (Ebraismo)
   
Il tredicesimo articolo della fede Ebraica è la Tchiath Hametim, ovvero la Resurrezione (letteralmente « rivitalizzazione ») dei morti

Questo evento miracoloso è descritto come il riorno dell’anima nel corpo dopo la loro separazione avvenuta al momento della morte. Dio ricomporrà qundi nuovamente i corpi dei defunti e metterà in essi le anime per farli rivivere.
 Si ritiene generalmente che la Resurrezione avverrà al termine dell’era Messianica, quando il nostro universo verrà rinnovato e inizierà quell’epoca senza fine chiamata Mondo Avvenire.
Tuttavia, secondo alcuni, ci saranno degli uomini giusti che torneranno in vita già al tempo della venuta del Messia, i primi dei quali saranno Moshè (Mosè) e Aharon (Aronne) che dovranno guidare i riti nel nuovo Tempio.
Mentre molti passi del Talmud affermano che la Resurrezione riguarderà sia i giusti che i malvagi, in altri brani è riportata l’opinione opposta secondo cui i malvagi non rivivranno affatto, e perciò ancora oggi su questo punto ci sono pareri diversi tra i Rabbini.
Come avverrà la Resurrezione? La seguente spiegazione illustra il pensiero ebraico a riguardo: « In futuro il Santo non creerà dei nuovi corpi per i morti, ma resusciterà i loro corpi originali; poichè quando il corpo di una persona si decompone nella terra, c’è un solo osso che rimane intatto, e questo osso non si decompone mai » (Shaar HaLikutim).
E’ scritto che il Creatore ricomporrà i corpi a partire da questo osso che è chiamato Luz; alcuni interpreti lo identificano con il coccige, altri con un osso che si trova nel cranio.
Dagli antichi scritti rabbinici non si riesce a comprendere in modo chiaro come sarà la vita dei risorti. Rabbi Yehuda HaNassì insegnava: « Nel Mondo Avvenire non ci sarà il mangiare, il bere e la procreazione, non ci sarà invidia, odio o competizione, ma i giusti si siederanno con delle corone sulle loro teste e godranno lo splendore della Presenza Divina » (Berachot 17a), ma questa idea non trova riscontro nelle affermazioni di altri Saggi del Talmud. Secondo alcuni interpreti le funzioni fisiche del corpo non cesseranno, ma i risorti potranno trarre il loro sostentamento direttamente dalla Presenza Divina che li nutrirà in modo spirituale.
Per analizzare i principali punti di vista sulla dottrina della Tchiat Hametim prenderemo in considerazione i pareri di due fra i più grandi Maestri dell’Ebraismo: Maimonide e Nachmanide.

L’opinione di Maimonide
Maimonide afferma che la Resurrezione avverrà su questa terra durante l’era Messianica. Coloro che resusciteranno svolgeranno ancora tutte le attività fisiche e biologiche, proprio come prima della morte. Questi risorti dovranno quindi nutrirsi, riposarsi, avere rapporti sessuali, procreare, e dopo aver vissuto una lunghissima vita moriranno nuovamente, poichè il corpo materiale non è adatto a rimanere in eterno.
L’anima, invece, continuerà a vivere in un mondo del tutto spirituale dove gli esseri umani saranno « come gli angeli », e rimarranno in questa condizione per sempre.
 
L’opinione di Nachmanide
Secondo Nachmanide e molti altri Maestri, l’idea che i risorti debbano morire nuovamente è completamente assurda poichè contraddice la profezia di Isaia che annuncia: « Egli distruggerà la morte per sempre » (Isaia 25:8) e l’affermazione rabbinica secondo cui « I morti che il Santo Benedetto Egli Sia farà risorgere non torneranno alla polvere » (Talmud, Sanhedrin 92a).
Nachmanide spiega che il Mondo Avvenire (Olam HaBah) non è un regno spirituale per le anime, ma un’epoca che inizierà al termine dell’era Messianica e non avrà fine. I Risorti vivranno quindi con il loro corpo su questa terra che sarà rinnovata dalla Presenza Divina.
Nachmanide descrive il destino dell’umanità con queste parole: « In futuro ci sarà l’era del Messia, che è una parte di questo mondo. Alla fine di essa ci sarà il Giudizio e la Resurrezione dei morti, e questa è la ricompensa che riguarda il corpo e l’anima ».
 
La Resurrezione dei morti e la Bibbia.
All’epoca del secondo Tempio non tutti accettavano la dottrina della Resurrezione.
I Farisei, gli Esseni ed altri gruppi religiosi Giudaici ci credevano fermamente, ma i Sadducei la rifiutavano poichè sostenvano che non fosse una dottrina insegnata dalla Torah.
Per confutare le idee dei Sadducei, i Maestri Farisei cercarono ogni possibile riferimento alla Resurrezione all’interno delle Sacre Scritture e spesso dovettero ricorrere a dimostrazioni molto ingegnose.
Rabbi Eliezer ben Yose citò il versetto: « Quella persona dovrà essere uccisa; porterà il peso della sua iniquità ». (Numeri 15:31). Se la persona viene uccisa come farà a portare il peso della sua iniquità? Evidentemente ciò accadrà alla Resurrezione.
Rabbi Gamaliel citò Deuteronomio 11:9, dove troviamo l’espressione « La terra che Hashem giurò di dare ai vostri padri ». Affinchè questa promessa si adempia è necessario che i padri risorgano.
Il riferimento biblico più chiaro ed esplicito alla Resurrezione si trova nel libro di Daniele: 
 » Molti di coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno, alcuni per una vita eterna, altri per la vergogna e l’infamia eterna [....] E tu vai verso la tua fine; ti riposerai e poi ti rialzerai per il tuo destino alla fine dei giorni. »  (Daniele 12:2-13).

Riferimenti a questa dottrina furono trovati anche nei seguenti versi:
« Io faccio morire e faccio vivere, ferisco e risano » (Deuteronomio 32:39);
« Hashem fa morire e fa vivere, fa scendere nella fossa e ne fa risalire » (1Samuele 2:6);
« I vostri morti saranno resuscitati, i corpi si alzeranno; risvegliati e canta, tu che dimori nella polvere, poichè la tua rugiada è una rugiada di luce » (Isaia 26:19);
« Alzatevi e benedite Hashem, il vostro Dio, da un Mondo all’altro Mondo » (Nehemia 9:5)
Si parla di Resurrezione anche nella famosa visione delle ossa secche (Ezechiele 37:1-14) e in una profezia di Osea: « Dopo due giorni ci ridarà la vita, il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo alla sua presenza. » (Osea 6:2).
In questi due casi è però evidente dal contesto che il ritorno alla vita sia una metafora per descrivere la restaurazione d’Israele dopo l’esilio. Si tratta quindi di una « resurrezione nazionale ».
Nel Talmud è narrato il seguente episodio:
« Un Sadduceo disse a Ghebiha ben Pesisa: «Guai a voi colpevoli [Farisei] che sostenete la Resurrezione dei morti! Se il vivente muore, il morto può forse rivivere?»  «Guai a voi – egli rispose – colpevoli che sotenete che i morti non risorgeranno; se quelli che non esistevano vengono in vita, non è forse più ragionevole che rivivano coloro che hanno già vissuto?»  (Sanhedrin 91a).

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GESU’ COME RABBINO (anche su Paolo, interessante)

questo studio è interessante, c’è anche il pensiero di Paolo, io come sempre posto gli articoli che mi…intrigano… dal punto di vista degli studi anche paolini, ma il testo lo prendo come ve lo propongo, da rifletterci su, dal sito:

http://www.laportadeltempo.com/Indagini%20su%20Ges%C3%B9/indagini_rabbino.htm

GESU’ COME RABBINO

Lo studio di Gesù nella storia della cultura umana inizia con il Nuovo Testamento, sul quale si basano tutte le rappresentazioni successive. Ma la presentazione di Gesù nel Nuovo Testamento è essa stessa una rappresentazione, e ricorda una serie di dipinti più che una fotografia.
Nei decenni tra il tempo del ministero di Gesù e la composizione dei vari vangeli, il ricordo delle parole e degli atti di Gesù, circolarono in forma di tradizione orale. L’apostolo Paolo, nella lettera alla congregazione dei Corinzi attorno al 55 d.C. (vent’anni circa dopo la vita di Gesù), ricorda loro che nel corso della sua visita, qualche anno addietro, probabilmente attorno al 50 d.C., aveva annunziato loro il Vangelo per come lo aveva ricevuto in tempi ancora precedenti, forse negli anni quaranta, in relazione alla morte e resurrezione di Gesù, (1 Cor. 15:1-7) e all’istituzione dell’Ultima Cena del Signore (1 Cor. 11:23-26).
Cronologicamente, e perfino logicamente, pertanto, vi fu una tradizione orale della chiesa prima che vi fosse un Nuovo Testamento, o qualsiasi libro del Nuovo Testamento. Per il tempo in cui i materiali della tradizione orale trovarono la loro via nella forma scritta, erano passati attraverso la vita e l’esperienza della chiesa, che sosteneva la presenza dello Spirito Santo di Dio. Fu all’azione di questo Spirito che i Cristiani attribuirono la composizione dei libri del “Nuovo Testamento”, come iniziarono a chiamarlo, e prima di quello del “Vecchio Testamento”, come iniziarono a descrivere la Bibbia Ebraica.
E’ ovvio – eppure, a giudicare dalle tragedie della storia successiva, non ovvio del tutto – che Gesù fu un ebreo, così che i primi tentativi di comprendere il suo messaggio devono svolgersi nel contesto del Giudaismo. Il Nuovo Testamento era scritto in Greco, ma il linguaggio che Gesù parlava con i suoi discepoli sembra essere stato l’Aramaico, una lingua semitica legata all’Ebreo, ma non identica ad esso. Le parole e le frasi aramaiche sono sparse per tutta la lunghezza dei Vangeli, e degli altri primi testi cristiani, a riflettere il linguaggio nel quale i vari detti e le formule liturgiche erano stati ripetuti prima che fosse completata la transizione al Greco.
Tra esse, abbiamo parole familiari come Osanna, e come anche il grido di disperazione di Gesù sulla croce : Eloi, Eloi, lama sabachtani? (Marco 15:34) – “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (che in ebreo nel Salmo 22 era Eli, Eli lama azavtani?).
O ancora la dizione Emanuele, “Dio con noi” – il titolo ebreo dato al bambino nella profezia di Isaia (7:14) ed applicato da Matteo (1:23) a Gesù – e le quattro parole aramaiche che appaiono come ricorrenti titoli di Gesù: Rabbi o maestro, Amen o profeta; Messias o Cristo e Mar o Dio.
La più neutrale e meno controversa di queste parole è probabilmente Rabbi, insieme con la collegata Rabbouni. Eccetto per  due passaggi, i Vangeli applicano la parola aramaica solo a Gesù; e se concludiamo che il titolo “maestro” (didaskalos in Greco) era inteso come una traduzione del nome aramaico, sembra naturale poter dire che è come Rabbi che Gesù era conosciuto e indicato. Invece i Vangeli sembrano accentuare le differenze, piuttosto che le somiglianze, tra Gesù e gli altri rabbini. Con il progredire degli studi sul giudaismo, nel tempo, tuttavia, le somiglianze e le differenze sono divenute più chiare.
Luca ci dice (4:16-30) che dopo il suo battesimo e le tentazioni del deserto, egli “Si recò a Nazareth dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga, e si alzò a leggere.” Seguendo il comportamento usuale dei rabbini, prese un rotolo della Bibbia Ebraica, lo lesse, presumibilmente offrì una traduzione aramaica in perifrasi del testo, e quindi lo commentò. Le parole che lesse erano tratte da Isaia 61: 1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere la libertà agli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.” Ma invece di fare ciò che un rabbino avrebbe fatto normalmente, e cioè applicare il testo agli ascoltatori comparando e contrastando le precedenti interpretazioni, egli dichiarò: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. Malgrado la reazione iniziale a quest’audace dichiarazione fu di meraviglia “alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, la successiva spiegazione produsse la reazione opposta: “tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno”.
Oltre il confronto tra Gesù come Rabbino e le rappresentatività della tradizione rabbinica, le affinità sono comunque chiaramente distinguibili nelle forme in cui i suoi insegnamenti appaiono nel Vangelo. Una delle più familiari è la tecnica  “domanda e risposta”, con la domanda spesso formulata come un dilemma.
Una donna ebbe, uno dopo l’altro, sette mariti: alla resurrezione, di quale dei sette sarebbe stata moglie? (Matteo 22:23-33) E’ lecito o no per un devoto ebreo pagare il tributo a Cesare? (Matteo 22:15-22)      
Cosa devo fare per ereditare la vita eterna (Marco 10:17-22)?      
Chi è il più grande nel regno dei Cieli (Matteo 18:1-6)?
Chi pone le domande si comporta come un uomo retto, che offre al Maestro Gesù l’opportunità di arrivare al punto.
Per gli autori del Nuovo testamento, comunque, la forma più tipica degli insegnamenti di Gesù fu la parabola: “Per questo parlo loro in parabole” dice Gesù in Matteo 13:34. Ma la parola greca parabola è presa dal Settuaginta, la traduzione ebraica della loro Bibbia in Greco. Anche qui, dunque, il racconto dell’evangelista di Gesù narratore di parabole ha senso solo nella dimensione del suo background ebraico. Interpretando le sue parabole sulla base di questo contesto, si alterano le convenzionali spiegazioni dei suoi paragoni tra il regno di Dio e gli incidenti della vita umana. Così il punto della parabola del figliol prodigo (Luca 15:11-32), meglio detta la parabola del fratello maggiore, si trova nelle parole che il padre dice al fratello maggiore, che rappresenta il popolo di Israele: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. L’alleanza storica tra Dio ed Israele era permanente, ma a quest’alleanza sarebbero stati ammessi, da questo momento, anche gli altri popoli.
Le oscillazioni tra la descrizione del ruolo di Gesù come Maestro e l’attribuzione a lui di una nuova ed unica autorità rende titoli aggiuntivi necessari. Uno di essi era Profeta, come l’acclamazione della Domenica delle Palme (Matteo 21:11). “Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”. Probabilmente la versione più interessante di ciò si trova ancora una volta in Aramaico (Rev. 3:24): “Le parole dell’Amen, la fede e la vera testimonianza.” La parola Amen era la formula di affermazione per concludere una preghiera, come nel messaggio di saluto di Mosè al popolo di Israele, che si conclude, in ogni verso (Deuteronomio 27:14-26) “Tutto il popolo dirà: Amen”.
Nel Nuovo Testamento un’estensione del significato di Amen diviene evidente nel Discorso dalla Montagna: Amen lego Hymin, “In verità vi dico”. Alcune delle settantacinque volte in cui nei quattro Vangeli si legge la parola Amen, introducono una pronuncia autoritativa di Gesù. Dal momento che aveva l’autorità di esprimersi in questo modo, Gesù era il Profeta. La parola profeta qui significa principalmente, non colui che prevede, malgrado le parole di Gesù contengano molte predizioni, ma colui che è autorizzato a parlare in nome di un altro, e a manifestare la verità. Nel Discorso dalla Montagna, Gesù è citato asserire (Matteo 5:17-18): “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità [Amen] vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto”. L’affermazione della validità permanente della legge di Mosè è seguita da una serie di specifiche citazioni della legge, ognuna introdotta dalla formula: “Avete inteso che fu detto agli antichi”; ognuna di tali citazioni è quindi seguita da un commentario che si apre con la formula magisteriale “Ma io vi dico” (Matteo 5:21-48). Il commento è un’intensificazione del comandamento, per includere non solo la sua osservanza esterna, ma lo spirito interiore e la motivazione del cuore. Tutti questi commenti sono un’elaborazione dell’ammonizione che la giustizia dei suoi discepoli dovesse superare quella degli scribi e dei farisei (Matteo 5:20).
La conclusione del Discorso della Montagna conferma lo status speciale di Gesù non solo come Rabbi ma come Profeta (Matteo 7:28-8:1): “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi. Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva.” Quindi si ha la narrazione di molte cose miracolose. Il Nuovo Testamento non attribuisce il potere di compiere miracoli solo a Gesù ed ai suoi discepoli (Matteo 12:27), ma cita i miracoli e sostanzia ed il suo essere Rabbi-Profeta. L’identificazione di Gesù era un mezzo per affermare la sua continuità con i profeti di Israele, e di asserire la sua superiorità rispetto a loro come il Profeta la cui venuta era stata predetta e la cui autorità egli si preparava a ricevere. Nel Deuteronomio 18:15-22, Dio dice a Mosè, e attraverso lui al popolo Egli “susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.” Nel contesto biblico, questa è l’autorizzazione di Giosuè come successore legittimo di Mosè, ma nel Nuovo Testamento e nei successivi autori cristiani, il profeta a venire è considerato essere Gesù-Giosuè. E’ ritratto come uno dei profeti in cui gli insegnamenti di Mosè troveranno compimento, e saranno addirittura superate, nel Rabbino che contestualmente soddisfa la legge di Mosè e la trascende; perché “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Giovanni 1:17). Per descrivere una tale rivelazione di grazia e verità, le categorie di Rabbino e Profeta erano necessarie ma non sufficienti. Pertanto in seguito gli apologeti Cristiani anti-musulmani avrebbero trovato l’identificazione offerta dall’Islam di Gesù come un grande profeta e precursore di Maometto, inadeguata e pertanto inaccurata, così che il potenziale della figura di Gesù il Profeta come terreno d’incontro tra i Cristiani e i Musulmani non sono mai state pienamente realizzate.
Perché Rabbi e Profeta si collegano ad altre due categorie, ciascuna delle quali espressa similmente in aramaico e quindi nella sua traduzione Greca: Messias, la forma aramaica per “Messiah” tradotta in Greco, come ho Christos, “il Cristo,” l’Unto (Giovanni 1:41; 4:25) e Marana, “nostro signore”, nella formula liturgica Maranatha, “Nostro Signore, vieni!” tradotto in Greco come ho Kyrios (1 Corinzi 16:22). La figura apparteneva ai titoli di identificazioni di Gesù come Figlio di Dio e seconda persona della trinità.
Ma nel processo di determinare se stesse, le definizioni Cristo e Signore, come anche Rabbi e Profeta, spesso perdono molto del loro contenuto semitico. Per i discepoli cristiani del I secolo, la concezione di Gesù come Rabbino era auto-evidente, per i discepoli cristiani del II secolo imbarazzante, e infine per i discepoli cristiani del III secolo e oltre era divenuta oscura.
L’inizio di questa de-giudeizzazione della Cristianità è visibile già all’interno del Nuovo Testamento. Con la decisone di Paolo di “rivolgersi ai Gentili” dopo avere iniziato la sua predicazione nelle sinagoghe, e quindi con la distruzione del tempio nel 70 d.C., il movimento cristiano seguì in modo crescente la tendenza ad essere Gentile piuttosto che ebraico, nella sua consistenza ed aspetto. Ed è in quel contesto che gli elementi della vita ebraica di Gesù dovevano essere spiegati ai lettori Gentili (per esempio Giovanni 2:6). Gli Atti degli Apostoli possono essere letti come il racconto di due città: il primo capitolo, con Gesù ed i suoi discepoli dopo la resurrezione, è ambientato a Gerusalemme; ma l’ultimo capitolo raggiunge il suo momento culminante con il viaggio finale dell’apostolo Paolo, nella semplice ma stringente frase: “Partimmo quindi alla volta di Roma”. Recentemente, gli studiosi non hanno solo posto la figura di Gesù indietro nel contesto del giudaismo del I secolo; ma hanno anche riscoperto la natura ebraica intrinseca del Nuovo Testamento, e particolarmente di Paolo. Nella sua lettera ai Romani (9-11) egli descrive la sua sofferenza per le relazioni tra la chiesa e la sinagoga, concludendo con la predizione e la promessa: “Allora tutto Israele sarà salvato”. Attenzione, non convertito alla Cristianità, ma salvato, perché nelle parole di Paolo, “ma quanto all’elezione, sono amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Romani 11:26-29). Questo leggere la mente di Paolo nella Lettera ai Romani, ha speciale significato per i suoi molti riferimenti al nome di Gesù: da “discese da Davide secondo la carne… Gesù Cristo nostro Signore” nel primo capitolo, alla “predicazione di Gesù Cristo” che “ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti” nella frase finale. Qui Gesù Cristo è, come dice Paolo di se stesso altrove “della stirpe d’Israele…, ebreo da Ebrei” (Filippesi 3:5). Il vero argomento di universalità, presumibilmente la distinzione tra Paolo ed il Giudaismo, era, per Paolo, quello che rendeva necessario che Gesù fosse un ebreo. Perché solo attraverso l’ebraismo di Gesù l’alleanza di Dio con Israele, i graziosi doni di Dio, e la sua chiamata irrevocabile potevano divenire accessibile a tutti i popoli del mondo, anche al popolo dei Gentili, che sarebbe diventato “così partecipe della radice e della linfa dell’olivo” – nominativamente, il popolo di Israele (Romani 11:17).
Nessuno può considerare l’argomento di Gesù come un Rabbino ed ignorare la conseguente stria delle relazioni tra il popolo cui Gesù apparteneva ed il popolo che apparteneva a Gesù. Questa relazione corre come una linea rossa attraverso molta parte della storia della cultura, e dopo gli eventi del XX secolo, abbiamo la responsabilità unica di esserne consapevoli quando studiamo la storia delle immagini di Gesù attraverso i secoli. Interrogarsi su questo argomento è naturalmente più semplice che fornire una risposta. Ma dobbiamo chiederci: vi sarebbe stato un tale dilagante antisemitismo, vi sarebbero stati tanti pogrom, vi sarebbero stati campi di concentramento, se ogni Chiesa Cristiana ed ogni casa Cristiana avessero focalizzato la loro devozione sull’immagine di Maria non solo come Madre di Dio e Regina dei Cieli, ma anche come Vergine ebrea, e Nuova Miriam, e sull’icona di Cristo non solo come il Cristo Cosmico, ma anche come Gesù il Rabbino di Nazareth, il Figlio di David, giunto a riscattare la prigionia di Israele, e dell’intera umanità?

Maria incinta

Maria incinta dans immagini sacre 490_43_Appareconunainci

http://cms.provincia.terni.it/on-line/Home/Areetematiche/Cultura/Storiediluoghitracced146incanto/IluoghidellApocalisse/ColeicheintercedeMariagravida.html

Publié dans:immagini sacre |on 23 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

Inseguendo l’Agnello (Il silenzio: categoria essenziale della vita del cristiano)

dal sito:

http://www.pasomv.it/index_file/Page5432.htm
 
Avvento 2005 (anno B come nel 2011, domenica prossima)

Inseguendo l’Agnello

Il silenzio: categoria essenziale della vita del cristiano
 
Se possiamo trovare un aggettivo che caratterizza il tempo di Natale questo è certamente il silenzio.
Il silenzio è come il grembo del Natale, perché è nel silenzio il Verbo di Dio ha raggiunto e fecondato la terra e oggi nasce e cresce nei cuori, come è nato e cresciuto nel grembo di Maria.
Per il mondo di oggi, in cui tutti noi viviamo, il silenzio ha connotazioni negative ed è sinonimo di vuoto, solitudine, depressione, assenza di presenza di sé e degli altri. Perciò la maggior parte di coloro che conosciamo rifugge il silenzio. L’uomo di oggi riempie le ore della propria giornata di rumori, di incontri con cose e persone pur di evitare di rimanere da solo con se stesso e con la propria assenza di significato. La perdita del valore del silenzio è certamente provocata dalla perdita di interiorità. Anche le nostre comunità cristiane spesso si presentano cariche di suoni e di parole, di immagini e di messaggi superficiali che distraggono il cuore e la vita dall’Unico Essenziale.
Ma cos’è in realtà il silenzio? Il silenzio non è soltanto esclusione di parole e non si deve considerare unicamente nel suo elemento negativo, come stato di oblio, di vuoto, di nulla. Ha invece un carattere positivo: è la categoria indispensabile per l’ascolto di Dio e per poter accogliere la sua comunicazione, è l’atmosfera vitale della preghiera e del culto divino.
Nel 1500 Laspergio, un padre certosino, così scriveva: “Conserva il Silenzio, cerca sempre luoghi e tempi favorevoli per dimorare solo; evita la familiarità degli uomini. Dimora con assiduità nel tuo santuario interiore. Non darti a nessuna cosa con eccesso, al di fuori del semplice uso e necessità richiesti nelle cose presenti, delle quali bisogna occuparsi, ma senza attaccarvi il cuore.
Rimetti subito in Dio ogni avvenimento, triste o allegro, dimora senza molteplicità, affinché anche Dio dimori in tua presenza. Rigetta da te ogni ostacolo. Non desiderare di piacere troppo a qualcuno, tranne a Dio solo; scegli con Maria, la sorella di Lazzaro, la parte migliore; non vagabondare di qua e di là, riempiendoti di chiacchiere inopportune e parlando senza necessità. Infatti, in un ora sola tu puoi uscire a tal punto da te stesso che non potrai rientrarvi che a gran pena e in molti anni, forse mai più”.
 
Possiamo riflettere sul silenzio seguendo diverse tematiche.
Il Silenzio di Dio
La vita di Dio è avvolta di silenzio. L’eterna generazione del Figlio, l’eterno spirare dello Spirito Santo, quale reciproco amore tra il Padre e il Figlio, si realizzano nel silenzio, come pure la comunicazione essenziale di Dio nelle divine missioni. Nel silenzio Dio pronuncia se stesso nell’Incarnazione. Lo dice il libro della Sapienza al capitolo 18: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata il tuo ordine inesorabile”. (Sap 18,14s)
E san Giovanni della Croce completa scrivendo“L’Eterno Padre disse una sola parola, cioè il Figlio suo, e questa parola la dice sempre in eterno silenzio” (S. Giovanni della Croce, Massime 21).
Il Silenzio della Creazione
Nella natura inanimata, il silenzio si riflette nel sempre uguale processo di ordine e di sviluppo organico. Così gli spettacoli più grandiosi della natura si svolgono in profondo silenzio.
La storia umana dimostra che l’influsso del silenzio, cercato e subito, ha dato origine a capolavori del pensiero e dell’arte. La natura spirituale pura, gli angeli, comunicano tra loro in silenzio, a differenza degli spiriti maligni, le cui apparizioni sono sempre accompagnate da rumori. Nella visione beatifica, la natura glorificata si perde nella contemplazione silenziosa di Dio.

I Fondamenti del Silenzio

Nella Sacra Scrittura
La necessità e il valore spirituale del silenzio trovano nella Scrittura una ricca testimonianza. Numerosi passi dell’Antico Testamento raccomandano il retto uso della Parola:
“Placano l’odio le labbra sincere, chi diffonde la calunnia è uno stolto. Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è prudente. Argento pregiato è la lingua del giusto
il cuore degli empi vale ben poco. Le labbra del giusto nutriscono molti, gli stolti muoiono in miseria. La bocca del giusto esprieme la sapienza, la lingua perversa sarà tagliata.
Le labbra del giusto stillano benevolenza, la bocca degli empi perversità” (Pr 10, 18-21.31-32).
(cf Pr 12,18-19.22; 15,1-7; Sir 19,7-12; 20, 1-7.18ss)
Altri brani invitano a evitare l’incostanza della parola (Sir 5,9-15) e i peccati della lingua (Sir 23,7-15; 28,13-26). Si conosce il gesto simbolico di coprirsi la bocca con la mano (Gb 21,5; Pr 30,32: Sir 5,21), si lega il silenzio con la fortezza (Is 30,15) e con la giustizia (Is 32, 7). Oltre al silenzio ascetico, l’Antico Testamento parla del silenzio reverenziale nei rapporti dell’uomo con Dio (Lam 3,26; Os 2,16; Zc 2,17), silenzio che tuttavia è contrassegnato più dal timore servile che dall’amore filiale. Nella tradizione profetica, il silenzio prepara inoltre l’intervento sfolgorante di Dio (Ap 8,1).
Nel Nuovo Testamento il testo più significativo del silenzio ascetico è quello della lettera di San Giacomo: “Fratelli miei, non vi fate maestri in molti, sapendo che noi riceveremo un giudizio più severo, poiché tutti quanti manchiamo in molte cose. Se uno non manca nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e vengano spinte da venti gagliardi, sono guidate da un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. E’ dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così fratelli miei.”(Gc 3, 1-10)
 Anche Gesù condanna le parole cattive che, provenienti dal cuore, escono dalla bocca (Mt 15,19; cf MT 5,22), e mette in guardia da parole senza fondamento che formeranno materia nel giudizio (Mt 12,36). Con il suo tacere dinanzi a Pilato, Gesù eleva il silenzio a virtù eroica. Ribadisce con il suo insegnamento (Mt 6,6) e con l’esempio, l’importanza del silenzio. Egli si ritira in luoghi silenziosi per passare la notte in orazione (Lc 6,12; Cf 22,39). Il Nuovo Testamento presenta pure quali modelli del silenzio Maria (Lc 2,19.51), Giuseppe (Mt 1,20), Giovanni il Battista.

Nelle opere dei padri della Chiesa.
I Padri della Chiesa sottolineano il valore mistico del silenzio: “Per la conoscenza di Dio occorre il silenzio del ragionamento umano“ (Clemente di Alessandria). Gregorio di Nazianzo sostiene che il silenzio è fonte di progresso in Dio, e chiama la lode di Dio figlia di silenzio.
Gregorio di Nissa scrive che solo la lode silenziosa di Dio è adeguata di fronte al suo essere infinito. Basilio sottolinea il valore purificativo e il vantaggio della solitudine silenziosa per l’incontro con Dio. Ambrogio confronta colui che parla molto con un vaso perforato incapace di conservare i segreti del Re. Agostino è incantato dalla gioia dell’ascoltare silenziosamente.
Nella tradizione monastica
I monaci erano soliti ritirarsi nel deserto per ascoltare Dio. Nella vita cenobitica il silenzio è precetto di perfezione, moralmente indispensabile. San Benedetto considera il silenzio un mezzo indispensabile per giungere alla piena identificazione con Cristo e ad essere perfetti figli di adozione del Padre. Nella sua regola il silenzio costituisce l’elemento base dell’ascesi spirtuale.

Nell’’agiografia dei santi
La necessità del silenzio è a fondamento del rapporto dell’anima con Dio. Attraverso la fedele pratica del silenzio è possibile giungere alla perfezione.
Esempi luminosi di una attrattiva particolare per il silenzio sono Santa Caterina Labouré, Santa Bernardette, Santa Teresa del Gesù Bambino. In una sua lettera del 1894, indirizzata alla sorella Leonia, religiosa Dorotea, scrive: “Non posso, cara sorellina, dirti tutto quel che vorrei. Il mio cuore non può tradurre i suoi sentimenti intimi con il mio freddo linguaggio della terra… Ma un giorno nel cielo, nella nostra bella patria io ti guarderò e nel mio sguardo vedrai tutto quel che vorrei dirti, poiché il silenzio è la lingua dei beati abitanti del cielo!”.
I Gradi del Silenzio
Prima di elencare i vari gradi del silenzio è necessario precisare ciò che non è silenzio.
Vi sono, infatti, situazioni di vita in cui le condizioni presenti impongono il silenzio, casi di malattia, di prigionia, di vecchia. In tal caso il silenzio è subito o imposto dall’esterno.
Altre manifestazioni non vanno fraintese con il silenzio: sono forme di mutismo come il silenzio di risentimento, di rancore, di odio, di durezza di cuore, di egoismo, che è causa di mancanza di carità e spesso di peccato. Il silenzio per vigliaccheria, per paura di farsi dei nemici o di compromettersi, segno di poca fermezza di carattere; il silenzio di consentimento al peccato altrui, spesso motivato da guadagno, avarizia, onori è indice di scarsa maturità umana. Tali mutismi possono anche insinuarsi sotto forme nascoste nella pratica religiosa del silenzio, dando origine a sospetti e critiche, ostacolando l’esercizio della carità e creando isolamenti pericolosi.
Invece, il silenzio che interessa la vita dello spirito, è uno stato d’animo abituale, liberamente scelto, testimoniato nel comportamento esteriore e interiore, mezzo necessario per raggiungere al più presto la perfezione.
Il silenzio si presenta quindi su due piani: il silenzio esterno, di parola e di azione, e interno, delle potenze e delle aspirazioni più intime dell’anima.
Il silenzio esterno
Il silenzio esterno è come la premessa ambientale del silenzio interiore; è necessario per giungere al dominio e alla quiete della persona nei suoi movimenti esterni per nutrire il raccoglimento e la solitudine, tuttavia non sempre è possibile e del resto insufficiente in se stesso per il pieno sviluppo della vita spirituale.
Le forme di silenzio esterno sono:
Silenzio della parola. Parlare poco con le creature e molto con Dio. La parola esteriorizza pensieri e sentimenti, svuotando l’anima da ciò che possiede di intimo e di più personale. Molte parole la rendono superficiale e indeboliscono le sue capacità di perfezionarsi. Evitare parole inutili, sorvegliare il tono della voce e servirsi della parola con prudenza. Ottimo mezzo di autocontrollo è l’esame quotidiano: interrogarsi su quante volte si è parlato, per quanto tempo, per quale motivo, con quale intenzione.
Silenzio nel lavoro, nei movimenti. Occorre evitare un’attività troppo rumorosa (movimenti agitati, fracasso) e più ancora un attivismo esagerato, poiché turbano la pace dell’anima. Nel frastuono l’anima perde la sensibilità del contatto con Dio, diventando incapace di ascoltare la sua voce.
Il silenzio interiore per acquistare il pieno possesso delle facoltà interiori.
Silenzio dell’immaginazione e della memoria
L’incontro con Dio esige l’esclusione delle dissipazioni dell’attività interiore, esercitando su di essa un controllo effettivo. L’uomo deve creare il vuoto nelle sue potenze interiori, sbarazzare il palazzo dell’anima, come indicava santa Teresa D’Avila, da ricordi che turbano la pace, e deve impiegare tutte le sue forze per entrare nel raccoglimento attivo.
Silenzio con le creature e silenzio del cuore.
È chiamato anche silenzio d’amore vigilante. Consiste nel reagire energicamente contro ogni affetto naturale che si manifesta in pensieri, conversazioni interiori, desideri troppo ardenti, e così via, per dirigersi con un movimento di fede e di amore verso Dio. Occorre sorvegliare i desideri per non cedere a soddisfazioni contrarie alla volontà di Dio (piaceri, preferenze, simpatie particolari).
Anche sul piano soprannaturale, i maestri di spirito consigliano di mortificare la devozione troppo ardente (non moltiplicare le preghiere, le penitenze) e accettare le purificazioni interiori dei sensi.
Silenzio dello spirito e del giudizio
La vita contemplativa, giunta ad un certo grado di perfezione, si riassume in un solo atto: l’aprirsi ad ascoltare Dio, a ricevere l’irradiazione della sua luce, possibile solo a condizione che l’intelletto sia libero e vuoto da ragionamenti e giudizi naturali, da ricerche intellettuali e da intenzioni estranee a Dio.
Questo silenzio significa lo spogliamento totale dell’intelletto. Da parte dell’anima richiede perciò la più pura attenzione all’ammaestramento occulto, alla comunicazione della sapienza di Dio.
Il silenzio divino è di colui che vuole essere sempre unito a Dio nella più completa abnegazione personale. Santa Elisabetta della Trinità scrive che il silenzio è “la lode più bella che si canta nel seno della pacifica Trinità, il cielo sulla terra, l’anticipazione del Paradiso eterno”.
Il silenzio e la preghiera
La vita di preghiera è ritmata da un alternarsi di parole (esteriori e interiori) e da intervalli di silenzio. La preghiera liturgica conosce pause di silenziosa adorazione. Nella meditazione si tace per riposare in Dio. La preghiera contemplativa è contrassegnata da un silenzio continuo. Per abbandonare l’attività discorsiva nella preghiera, oltre ad una ben ponderata riflessione, occorre che l’anima sia elevata da Dio ad uno stato superiore.
 
Il Silenzio nel tempo liturgico di Avvento
La Parola e il silenzio
Un’antifona molto bella del tempo di Natale dice:
«Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Antifona della II domenica dopo Natale).
Sono parole che esprimono bene il silenzio accogliente e pacifico di quella notte, della terra e dell’umanità, che riceve e vede la nascita nel tempo del Verbo eterno di Dio. La Parola onnipotente di Dio non è un urlo, non un grido minaccioso, né una voce assordante, ma è Essa stessa imparentata in qualche modo con il silenzio, quasi abbarbicata ad esso. La Parola di Dio sgorga dal silenzio, ed è « impastata di silenzio » e solo così agisce ed è efficace. Talvolta addirittura si interrompe, quasi che solo il silenzio possa essere eloquente e possa dire la Parola di Dio.
Il passo del primo libro dei Re, racconta di Elia che, sull’Oreb, incontra e fa l’esperienza di Dio.
Dio non si manifesta nel vento impetuoso e gagliardo, né nel terremoto o nel fuoco, ovvero in eventi sensazionali e roboanti, bensì nel « mormorio di un vento leggero »: letteralmente, nel « mormorio di un silenzio sottile » (Cf 1 Re 19, 9-18).
Quella di Dio è « voce di un silenzio sottile », una parola sussurrata, come sono sussurrate le parole dell’amore e dell’intimità, le parole destinate, non soltanto a comunicare qualcosa, ma a penetrare nel cuore altrui e a dimorarvi, portandovi una presenza viva. Il silenzio si intesse con la parola ed è in questo modo che Dio si rivela come amico dell’uomo, gli si accosta con dolcezza e misericordia.
Ma anche quando Dio parla nel modo più pieno e compiuto, nel momento in cui manda il suo Figlio nel mondo, anche allora, a ben vedere, la Parola è strettamente congiunta al silenzio. Guardando a questo mistero, che è quello del Natale, l’evangelista Giovanni dice: «E il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14). La Parola eterna, infinita, onnipotente, quella Parola attraverso cui è stato creato l’universo, si esprime in qualcosa di finito, di limitato, di povero e dunque di silenzioso, come è la nostra carne, la nostra fragile umanità. Anche da ciò deriva quel senso di pace, di quiete, di stupore e tenerezza che continua ad attraversarci tutte le volte che, ad ogni Natale, ci affacciamo sulla greppia di Betlemme e riconosciamo in quel Bambino, ancora silenzioso, l’eterna Parola di Dio.
E anche Gesù, che pure non è stato silente, ma ha parlato e insegnato come uno che ha autorità (Cf Mc 1, 22), in alcune circostanze ha tuttavia taciuto. Così è stato davanti a Pilato, alla vigilia della sua morte, quando non risponde alle accuse, ma tace (Cf Gv 19, 9-11).
Le parole umane non possano « dire Dio » ed esprimere la Verità e che ciò che è impossibile alle parole sia qui possibile al silenzio. Tutto ciò è ancora più radicale nel momento della morte in croce di Gesù. Qui la Parola di Dio fatta carne viene messa a tacere, viene interrotta dalla violenza e dal peccato dell’uomo. Ma è proprio attraverso quel silenzio, il silenzio della morte, che viene comunicato all’uomo tutto l’amore di Dio, un amore « forte come la morte » (Ct 8, 6), un amore più forte della tracotanza, della barbarie, del peccato degli uomini.

Publié dans:LITURGIA- TEMPI LITURGICI, MEDITAZIONI |on 23 novembre, 2011 |Pas de commentaires »
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