Archive pour novembre, 2011
Cottolengo 17 maggio 2009 – (su Rm 8)
dal sito:
Cottolengo 17 maggio 2009
La vita nello Spirito
(su Rm 8)
Per introdurre questa conversazione sulla Vita nello Spirito, vita cristiana semplicemente, perché è proprio la presenza dello Spirito di Gesù glorificato, che festeggiamo e contempliamo in questo tempo pasquale, voglio leggervi un brano, forse un po’ lungo, ma essenziale, della Lettera di S. Paolo ai Romani al cap. 8:
“la legge dello Spirito che da vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito. Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. … Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. (Rm 8,2-16)
Quando parla di vivere secondo la carne o secondo lo Spirito, Paolo pensa al cristiano che nel battesimo ha ricevuto lo Spirito santo e che vive di questo Spirito rispondendo all’amore di Dio diffuso nel suo cuore, lasciandosi docilmente guidare da questa presenza forte e dolcissima, vivendo da figlio diletto di Dio in Gesù Cristo: questa è l’opera dello Spirito nei battezzati. Per comprendere questo è bene ricorrere a delle parole di Paolo che troviamo in un passo degliAtti degli Apostoli:
Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell’altopiano, giunse a Efeso. Qui trovò alcuni discepoli e disse loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». Ed egli disse: «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di Giovanni», risposero. Disse allora Paolo: «Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. (Atti 19,1-6)
In questo passo due cose mi sembrano importanti e possono aiutarci nella riflessione: la prima è che Paolo fa una distinzione fra il battesimo di Giovanni e quello di Gesù: il primo era un battesimo di penitenza e di conversione, mentre il secondo è dono dello Spirito santo. Se teniamo conto di questa profonda differenza possiamo mettere meglio a fuoco cos’è la vita cristiana: pur comportando una profonda conversione e una particolare vita morale, essa non si limita a questo e nemmeno ad un comportamento morale corretto o generoso perché non è questo l’essenziale della vita di fede, né dell’annuncio di Gesù. Certo l’amarsi gli uni gli altri come Cristo ci ha amati caratterizza il cristiano, ma non è la sua identità. Il cristiano non è semplicemente un uomo retto, che compie i suoi doveri (quello che Israele congrande profondità e impegno chiama osservanza della Legge), si sforza di amare i fratelli, prega e va a Messa la Domenica. Queste cose certo il cristiano le compie perché è cristiano, ma non è cristiano perché le compie, ma perché ha ricevuto il Battesimo nel nome del Signore Gesù e gli è stato dato lo Spirito santo. Come può il cristiano vivere il suo essere cristiano? Nella fede in Gesù e con la vita sacramentale iniziata col Battesimo, resa perfetta dalla Cresima e continuata nel corso della vita con l’Eucaristia. Questa lo unisce a tutti i cristiani in una sola Chiesa e in essa a Gesù. Gesù, a sua volta, ci incorpora nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione e ci dà il suo Spirito che ci fa partecipi della vita Trinitaria; questo è ciò per cui siamo stati creati, respirare del respiro (Spirito) della Trinità.
La vita sacramentale è vita di continuamente rinnovata irruzione dello Spirito santo nella vita, e, da creature disperse, siamo condotti a quell’unità che Gesù chiede al Padre nella Preghiera Sacerdotale (Gv 17). L’unità dei cristiani non è un’unione fusionale alla maniera delle sette o di ogni forma di plagio, e neanche un semplice stare bene insieme nel calduccio del gruppetto simpatico, ma una comunione di persone che vivono la libertà dei figli di Dio nella verità, mossi, animati dallo Spirito di Gesù, che è Spirito di figli. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,16-17) Comprendiamo come il battesimo di Giovanni, con la sua urgente chiamata ad una conversione morale che voleva rendere attenti alla presenza di Gesù, era certo importante, ma non era la pienezza del dono di Dio, non dava la salvezza né la comunione con la Trinità. Ugualmente una vita retta e anche moralmente conforme alla legge del Sinai o del Vangelo è non è ancora sufficiente come risposta a quanto il Signore ci dà rendendoci figli del Padre col dono del suo Spirito. Lo Spirito abita in noi in modo da realizzare con tale inabitazione la comunione con la Trinità. La seconda cosa che possiamo notare nel testo degli Atti è l’immediata discesa dello Spirito sui discepoli, discesa che li trasfigura e li rende profeti, cioè coraggiosi annunciatori della Parola,
capaci di avere uno sguardo evangelico sulla storia e sul mondo. Il cristiano è colui a cui Gesù ha inviato lo Spirito trasfigurante; per questo lo scopo della vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo (Serafino di Sarov: Dialogo con Motovilov): “La meta della vita cristiana consiste nell’assicurarsi il possesso dello Spirito Santo. Il digiuno, la veglia, la preghiera, l’elemosina e ogni altra opera di bene fatta nel nome di Gesù rappresentano i mezzi con i quali ottenere il possesso dello Spirito santo”. Le opere sono mezzi, ma il fine è vivere nello Spirito santo la filiazione divina e poter chiamare Dio Padre. Dio non ha dono per noi più grande che dare se stesso. Il dono di Dio è il Verbo incarnato che ha dato se stesso per noi, è morto e risorto per darci lo Spirito santo che ci divinizza, presenza, forza, gioia, pace. Senza il dono dello Spirito l’opera di Gesù resta un esempio di amore infinito, ma senza efficacia. La parola finale di Gesù nel Vangelo di Matteo è: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20); è una parola che lancia nel futuro e non è uno sguardo sul passato. Il cristiano, infatti, è colui che facendo memoria – che non vuol dire sguardo immobile e
nostalgico sul passato – dell’evento della salvezza, guarda verso il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, quando Dio sarà tutto in tutti e il suo disegno troverà la sua pienezza e costruisce il mondo per renderlo pronto per la trasfigurazione finale della Gloria del Cristo che ritorna. Se i Vangeli si chiudono con la risurrezione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si aprono con la
venuta dello Spirito santo, che conduce in modo nuovo gli uomini a realizzare il piano del Creatore
e a ricondurre tutto e tutti all’adorazione in spirito e verità; ciò che sembrava essere definitivamenteconcluso nella vittoria di Gesù sulla morte, diventa inizio del cammino della Chiesa sulle strade del mondo. Lo Spirito rimette in cammino in modo nuovo, l’uomo diventa attore della sua vita e della sua santificazione nella docilità allo Spirito. La memoria non è ripetere gli atti di Gesù, copiare il suo esempio, il suo modo di stare in mezzo ai discepoli. C’è una rottura e questa è il tempo del
cenacolo, dopo l’Ascensione e prima della Pentecoste, dopo la conclusione e prima dell’inizio. Gesù ha detto ai suoi di stare fermi, in preghiera e in attesa. Maria era garante della fede-fiducia che permetteva di vivere questo tempo di deserto: presenza di fede che aiutava a portare l’assenza e ad attendere il ritorno del Figlio dell’uomo nella presenza silenziosa e discreta, ma vivificante dello Spirito. Lo Spirito non ha infuocato la pasta umana rendendola perfetta e pronta per la conclusione della storia. Al contrario è stato seme, lievito che ha cominciato una lenta crescita dell’umanità verso la
pienezza del “Dio tutto in tutti”. Ha cominciato una storia in continuità e in rottura con la precedente. Mandando lo Spirito il Signore crea una nuova umanità: la Chiesa, la Sposa feconda. Lo Spirito rinnova ogni cosa e ciò che sembra concluso in Cristo ha un nuovo inizio – nuovo nel senso di novità non di ripetitività, – nella Chiesa che non annuncia se stessa, come lo Spirito non testimonia di se stesso e non si dà come modello o come roccia su cui appoggiarsi. Egli annuncia le
“meraviglie di Dio” in Cristo, ciò che Dio ha fatto per noi, in quanto Cristo ha tutto compiuto e nulla manca salvo la nostra adesione, e l’annuncia con la voce della Chiesa, la voce dei cristiani. Questo avviene in quanto noi siamo mossi, condotti, abitati, illuminati dallo Spirito, che riempie l’universo e opera nella Chiesa e nel mondo, particolarmente attraverso la Chiesa.
Viviamo la novità del “dopo Cristo”. Lo Spirito lancia la Chiesa e ciascuno di noi in questa novità. Questa grande missione non significa “giocare a fare Gesù”, ma vivere la salvezza che Gesù ci ha ottenuto e dato, vivere da “già salvati” in un mondo che attende ancora la salvezza, in una solidarietà con tutti i nostri fratelli gli uomini e donne del nostro tempo e di tutti i tempi, portando nella fragilità della nostra carne la salvezza ottenuta da Gesù per tutti. Ora questa salvezza nello Spirito noi possiamo annunciarla, perché resi noi stessi pneumatofori, portatori dello Spirito. Viviamo una “vita spirituale” che non significa, è chiaro, disincarnata o parallela alla vita del mondo, ma portando in noi dentro la pasta del mondo la presenza dello Spirito. Nella Chiesa, cioè nell’unità, nella comunione dei cristiani portatori per il Battesimo della presenza di Cristo, lo Spirito è onnipresente e agisce continuamente. La preghiera è una conseguenza importante di questa presenza.
S. Paolo, continuando sullo Spirito santo nella lettera ai Romani che ho citato all’inizio, dice: “Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26.). Questo significa che in noi in un certo senso la preghiera precede il nostro voler pregare o metterci a pregare. Lo Spirito già grida verso il Padre e la nostra preghiera non è che un’unione a questo grido inesprimibile Presente nella liturgia lo Spirito compie ogni cosa: raduna la Chiesa e la vivifica, lava il peccato e perdona le colpe, dà forza a chi canta, illumina chi ascolta, annuncia la Parola e scende sulle offerte per renderle Corpo e Sangue di Cristo. E’ la vita dei sacramenti. Lo Spirito abita in noi ed è nella Santissima Trinità, legame fra noi e Dio che ci divinizza, parola detta contemporaneamente in Dio e nel nostro cuore. Ogni nostra preghiera è detta da noi insieme allo Spirito ed è portata nell’eterna gioia della Trinità in cui lo Spirito è parola d’amore.
L’assemblea liturgica è riflesso della Trinità, perché la Parola è annunciata e cantata e lo Spirito unisce nella vita e nell’amore la terra (uomo) e il cielo (Dio) L’assemblea liturgica è un Corpo vivo composto di persone diverse e indipendenti le une dalle
altre, ma convergenti e rese una sola cosa dallo Spirito che prega in esse e le fa diventare una sola Eucaristia in Cristo per farle vivere nell’unità della comunione Trinitaria. Inoltre lo Spirito dimora in noi nella fedeltà dell’amore di Dio, che fa sì che siamo sempre legati alla Trinità che abita nei nostri cuori: “O non sape te che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo
che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Co 6,19). Siamo la casa di Dio e Gesù ha ricordato, parlando del tempio che: “La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri! ”. (Lc 19,46) Lo Spirito dunque ci rende casa di preghiera e la nostra conversione continua ci fa passare da spelonca di ladri in tutti sensi – dall’orgoglio che ruba la gloria di Dio all’avarizia che ruba il dovuto ai poveri – a casa di preghiera, cioè di incontro e di amicizia profonda e vitale con Dio e attraverso questa unione siamo in comunione con tutti gli uomini.
La forma cristiana per eccellenza della preghiera è la Lectio divina, cioè una lettura che è in verità ascolto e accoglienza della Parola rivolta dal Padre ai suoi figli per dir loro il suo amore, il mistero insondabile della sua Grazia e il suo disegno nascosto nei secoli e rivelato in Gesù Cristo: “cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi,
speranza della gloria.” (Col 1,26-27) La Parola di Dio è detta dallo Spirito che illumina la nostra intelligenza e ci fa comprendere la presenza di Dio in noi e ci apre alla speranza, cioè a una visione nuova del nostro destino: destino di comunione e di beatitudine, di pace e di unità, di realizzazione totale della nostra umanità. L’assemblea liturgica è riflesso della Trinità, perché la Parola è annunciata e cantata e lo Spirito unisce nella vita e nell’amore la terra (uomo) e il cielo (Dio)
L’assemblea liturgica è un Corpo vivo composto di persone diverse e indipendenti le une dalle altre, ma convergenti e rese una sola cosa dallo Spirito che prega in esse e le fa diventare una sola Eucaristia in Cristo per farle vivere nell’unità della comunione Trinitaria. Nella Messa come in ogni sacramento è lo Spirito che agisce e trasforma dei gesti e dei segni
umani in vita divina. Nella vita dei battezzati lo Spirito è la forza nella testimonianza, il coraggio nella perseveranza, la
gioiosa fantasia della carità, la fedeltà nell’amore, consolazione nel dolore e speranza nei drammi della vita, luce del cammino e nelle molteplici scelte, intelligenza che libera dalla logica ferrea e dittatoriale del mondo. E’ la libertà dei figli di Dio che conoscono la loro regalità e non sono sottomessi a nessuno, ma come Cristo si sottomettono a tutti nell’obbedienza dell’amore, profezia di vita e di parola che annuncia la presenza attuale di un mondo nuovo, il Regno dell’amore divino
incorruttibile, non separato, ma tessuto nella trama della storia del mondo mortale. La profezia del cristiano non è tanto nelle sue parole, quanto nella sua vita, che è “martirio di pace e di giustizia”. Lo Spirito conduce la storia attraverso le asperità e le contraddizioni del cammino, dentro l’oscurità del peccato del mondo verso la Luce e la realizzazione del piano della salvezza. Il difficile cammino dell’uomo è continuamente ri-tracciato dallo Spirito che fa nuove tutte le cose e
conduce alla salvezza.
I santi e i morti negli scritti di don Mazzolari
dal sito:
http://www.dehoniane.it/riviste/riv_articolo.php?CODICE=20501&CODE=SET&PAGE_ID=27
A 50 ANNI DALLA SUA MORTE, IL PARROCO DI BOZZOLO CI PREPARA VIVERE LA FESTIVITÀ DEI SANTI E LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI
I santi e i morti negli scritti di don Mazzolari
Secondo don Primo, il santo è il «capolavoro di Dio, la cattedrale di Dio». Si tratta di non concentrare l’attenzione solo sul risultato finale, dimenticando il percorso verso la santità. Se i santi sono i « nostri maestri », anche i defunti lo sono. L’episodio della moneta dell’aldilà e di due linguaggi. Come parroco, don Mazzolari si chiede cosa serve andare al camposanto se non si coltiva la fede nel Risorto.
Nell’omelia della festa di Ognissanti del 1933 don Primo Mazzolari definisce la santità una «bontà un po’ più su della solita bontà della buona gente». La santità serve «a far stare in piedi il mondo; è il lubrificante di un meccanismo spaventoso; è la forza ricostruttrice di fronte alle forze demolitrici». La santità non è una connotazione morale, ma il frutto della grazia di Dio nella persona umana e nella chiesa. Il santo è il «capolavoro di Dio, la cattedrale di Dio». Nulla è da confrontare fra gli splendori del creato a un’anima buona. L’incarnazione prova che a Dio sta più a cuore un’anima che ogni altra realtà del creato. Il santo si fa attraverso l’incontro di due amori: l’amore di Dio e l’amore di un po’ di polvere. Il disegno e la volontà di Dio su ognuno di noi è che noi diventiamo santi, è il nostro destino.
La virtù è luminosissima e agisce con efficacia. Quanto risente dell’ispirazione cristiana ricrea veramente e fa respirare. Il vangelo è lievito. La santità è «anormalità. C’è nella santità un’irragionevolezza spaventosa. Chi ragiona, nel senso piccolo della parola, non diventerà mai un santo; bensì un pedante, uno scocciatore. Niente di più fuori di posto che cercare delle teorie di santità. I santi sono dei capolavori della grazia di Dio. Vorrete mettere forse delle regole, delle misure allo Spirito che soffia dove vuole?».
Secondo don Mazzolari, l’importante è non concentrare l’attenzione solo sul risultato finale, dimenticando il percorso verso la santità. Occorre « ridonare l’animo al santo », cioè farlo vivere nel suo sforzo di purificazione e di espiazione, cogliendo che non c’è nulla di inumano e di antinaturale in lui.
La santità comincia sempre dall’evangelico: « Va’, vendi ciò che hai ». Senza questa preliminare valutazione sul valore dei beni di questo mondo, non c’è libertà, sapienza e vera esperienza di fede. Ci si mette alla ricerca di Dio quando si è presa distanza dai piccoli e brutti padroni del presente; quando non si cerca più la terra, si arriva a poter alzare gli occhi al cielo. Nel regno di Dio « non si entra con lo zaino ». Un secondo elemento importante sulla via della santità è l’amore alla persona di Cristo. Non si sta senza « padroni ». L’uomo non basta a se stesso, ha bisogno di « seguire » qualcuno, ma «il padrone migliore è Gesù».
Il terzo fattore comune ai santi è amare e servire Cristo nei fratelli. Egli è presente nei fratelli e specialmente nei poveri. Si ama Gesù volendosi bene vicendevolmente.
Il primo gradino della santità consiste nell’accettare con spirito umile e penitente la propria condizione interiore, di trasporto o di freddezza, in rapporto all’obiettivo finale che è la purificazione e l’elevazione del cuore. L’oscurità e la fragilità testimoniano più chiaramente l’affidamento al Signore. Perché più che i doni del Signore, dobbiamo cercare il Signore. Il « desiderio di Dio » è la molla dell’autentica santità.
La santità viene posta in circolo ed è ricchezza comune. «Non si può vivere in egoismo nella famiglia spirituale. Quello che uno guadagna spiritualmente viene unito ai meriti di Gesù e ricade in benedizione anche sugli altri. Questa consolante certezza si chiama comunione dei santi. Santi? Sì, i cristiani: quelli che sono uniti in comunione con Gesù e con la chiesa. Quando non si è in comunione con Gesù e con la chiesa, non si riceve e le comunicazioni sono interrotte. La comunione dei santi abbraccia vivi e defunti, purgatorio e paradiso. Le tre chiese (militante, purgante e trionfante) sono una sola chiesa: soffre, combatte e prega».
A chi gli parla di « spiritismo » per mettersi in comunicazione con i trapassati, don Mazzolari risponde di preferire il suo «non sapere nulla all’infuori di quanto rivelato dal vangelo e insegnato dalla chiesa». Quello che offre la fede della chiesa nella comunione dei santi, cioè lo scambio misterioso ma reale attraverso Gesù Cristo tra la vita di quaggiù e di lassù, «è bastevole se non per la mia curiosità, per la continuità e tranquillità della mia vita affettiva».
I santi « nostri maestri »
Per la Solennità dei santi del 1928 don Primo denuncia l’errata consuetudine di accedere ai santi come a degli avvocati o ad aiuti deresponsabilizzanti il credente. Bisogna andare dai santi come dai «maestri, per imparare a diventare buoni, senza deleghe e sostituzioni». La vita dei santi obbliga a pronunciare il nome di Dio non come quello di un morto, ma di un vivente. Nei santi non si manifesta il Dio impersonale. Il Dio che edifica queste « cattedrali viventi » non può essere una fantasia dell’immaginazione umana! Senza Dio, il santo è «un assurdo, una pazzia». Infine la vita dei santi obbliga a porsi non solo di fronte a Dio, ma anche di fronte all’uomo: la potenza e la debolezza.
Nell’omelia di Ognissanti del 1933 don Mazzolari abbozza una sequenza di intuizioni, bisognose di approfondimento: credere alla santità significa riconoscere che Dio c’è ed è presente; non si può diffidare di tutti, il « santo » è a portata di mano; diventare buoni è possibile e va sfatato l’alibi che è difficile.
La chiesa indica i santi per incoraggiare ad imitarli: l’unica tristezza consiste nel non essere santi; tra la santità passata, presente e futura c’è continuità, avendo la stessa sorgente, e l’una aiuta l’altra (la comunione dei santi). Nell’omelia vi è un breve accenno alle beatitudini, come grandi strade della libertà, e alla maggior facilità odierna ad essere santi.
I santi sono «la faccia del Signore», qualcuno degli infiniti aspetti del suo adorabile volto. Di qui la varietà infinita nei santi: la santità è libertà. L’imitazione di Cristo è un campo senza limiti e senza strade: ognuno deve farsi la propria strada, sviluppare l’immagine seminale del Cristo che la grazia gli ha messo nel cuore. I santi sono tutti unici, non si copiano: ognuno ha una forma di virtù, un’anima propria di santità. I santi, con Cristo, non si ripetono; si fanno rivivere. Ognuno è chiamato a porsi la domanda: « Che farebbe Gesù al mio posto, qui ed ora »? Il Cristo vive in noi nella misura in cui egli domina tutto in noi, facoltà e attività: quando in noi tutto viene da lui, quando pensiamo come lui e vogliamo ciò che egli vuole e tutto a lui sottomettiamo, allora regna in noi. La santità è il suo completo dominio in noi. L’importante, infatti, non è cambiare intorno a noi, ma rendere la propria natura libera al di dentro, anche a costo di essere soli in questa avventura. La santità è «aratura di se stessi», che genera pietà verso chi non cammina sulla medesima strada e riconoscenza a Dio per il privilegio avuto.
Per don Mazzolari i santi sono nostri fratelli: sono fango, su cui si è piegata la grazia, a cui il fango rispose: sono disponibile! I santi sono i più umili e i più consapevoli della propria condizione di peccatori. I peggiori sono coloro che si ritengono più buoni, perché hanno rotto lo « specchio », Cristo, con cui confrontarsi. I santi sono i più grandi « debitori », perché riconoscono il loro debito verso Dio, il quale fa ancora credito.
Secondo don Primo, il santo in Cristo è anzitutto un « espiatore »: per questo il dolore è l’azione più bella. Il santo espia per sé, in quanto peccatore ed esposto al contagio del male, ed espia per gli altri, offrendo per loro la propria vita. È l’applicazione della passione di Cristo, perché gli uomini hanno bisogno di qualcuno che paga i debiti col Signore. I santi sono «gli spazzini dell’umanità. Se sorgeranno, l’umanità si salverà per pochi buoni, altrimenti non so a quali conclusioni andremo incontro. L’alba del mondo nuovo è data dal moltiplicarsi di anime che diventano un olocausto. Perché non basta essere dalla parte della verità, ma occorre operare con lo spirito e il metodo della verità, la quale non dispensa da alcuna fatica».
I defunti « nostri » fratelli
Secondo don Mazzolari, i defunti non sono ombre; sono la realtà, noi siamo nell’ombra, la vita vera è di là. Il loro giudizio ci deve interessare perché sono nella luce e non possono ingannarsi né ingannare, avendo compiuto l’esperienza.
Il pensiero della morte ha sempre accompagnato il parroco di Bozzolo, toccato profondamente dalla perdita del fratello Peppino al fronte e dai tanti caduti incontrati come cappellano militare. Nell’ottobre del 1949 scrisse: «La morte è un mistero che sgomenta: ed io pure ne sono spaventato sempre. Poi, ci vedo « il resto » e mi abbandono a un mistero che non può non essere buono per il fatto che io non lo capisco. Per non lasciarci travolgere bisogna andare « di là » con chi va, invece di fissare il vuoto che è rimasto « di qua » e che cerca d’inghiottirci».
Nell’omelia del 2 novembre 1927 don Primo definisce il cimitero «la prima chiesa del villaggio, cioè una scuola, una casa di giustizia e una casa di riparazione. Se anche tacessero le campane sul campanile, se la chiesa domani non fosse più e il prete non potesse più parlare, finché rimarrà il cimitero in un paese, Dio avrà il suo profeta e la religione i suoi preti. Perché i morti sono i profeti e gli angeli di Dio, i quali gridano a noi: fratelli la vita non è qui, ma lassù».
La spiritualità maturata da don Mazzolari è stata cristologica, centrata sul Crocifisso. La morte non è il traguardo di una vita che finisce, ma il punto di partenza di una vita che incomincia davvero: «Bisogna morire, se vogliamo rispondere bene e completamente alle nostre attese».
La contemplazione del mistero pasquale fa riflettere Mazzolari sul tema dell’agonia. Cristo è l’agonizzante, «il lebbroso dell’amore per l’uomo», il rifiutato. Quaggiù ogni vita è un’agonia: l’agonia è il retaggio di ognuno. Tutto è conquista, tutto domanda sforzo e dolore: dall’aria al pane, dal sapere alla bontà… Ma «questa non è la tua agonia, Signore. Tu muori per guadagnarti il diritto di dare…». Ogni persona (ricco o povero, servo o padrone, oppresso o tiranno, italiano o di altra nazionalità) è un predestinato a Cristo; infatti, nessuno può sfuggire al suo sguardo, alla sua parola, alla croce. Ogni persona, infatti, è schiacciata dal mistero dell’agonia e della morte, che la sospinge sempre più dentro di sé e verso l’eterno: due dimensioni che esprimono l’altezza e l’orrore del Calvario.
Il 2 novembre 1925 don Mazzolari scrive nel Diario: «Ecco chi ci viene incontro, oggi: la morte! Non illudetevi di poterla scansare: l’avete tenuta lontana per un anno, con ogni cautela dai vostri pensieri. Ed ora, eccovela davanti, la morte, com’è… Per dire a voi che morirete tutti, presto o tardi non importa, che fra meno di un secolo quanti son qui non ci saranno più, ci vuole un profeta? Occorre aver studiato?… Chi ci perdonerà di aver soffocato la parola ai nostri morti? Essi non ci domandano preghiere: lo sanno bene che molti di noi non sanno più pregare. Per loro non contano né i vostri denari né le vostre cose. Non voi dovete dare ad essi. Sono loro che ci vogliono fare la carità, che vogliono metterci nel cuore una verità che un giorno anch’essi avevano dimenticato e fu l’errore più grande della loro vita. Ecco la carità dei nostri morti: « Figliuoli, si muore e c’è Qualcuno dietro la morte ». Aprite la vostra anima per raccogliere questa verità che i morti vi ricordano, oggi. Uscendo di qui, prima di soffocare la voce, pensateci. Potreste scrivere anche la vostra eterna condanna». L’amore è prova di immortalità: poco ama chi non si sente eterno.
La moneta per l’aldilà e i due linguaggi
Il 1° novembre 1957 don Mazzolari tenne un’omelia, che risentiva della morte improvvisa di Vittoria Fabrizi de Biani, nella sua canonica, il 27 ottobre. Certamente efficace l’immagine utilizzata: la moneta italiana, quando ci si reca in un altro paese, non vale: bisogna fare il cambio. All’altro mondo niente vale di questo denaro che noi abbiamo messo insieme. È anche inutile far stampare dei biglietti da visita e aggiungervi delle piccole vanità che rappresentano qualche cosa davanti agli uomini ma non valgono niente davanti a Dio. «Nulla tiene!.. Io sono uno « zero » quando mi presento di là: voi, perdonatemi, siete altrettanti « zeri ». Allora, vedete, davanti all’uomo buono, di questa bontà che è una briciola, Dio, con le mani forate del suo Cristo, ci mette un « uno ». Egli ha tracciato, davanti ai miei « zeri », il valore, l’unità: « uno ». Ecco, il cambio è avvenuto. Chi c’era lì, all’ufficio del cambio? Non ci avete mai pensato? Forse vi siete dimenticati d’incontrarlo… Guardate che bisogna tenere delle buone relazioni con quelli che sono al di là della frontiera, all’ »ufficio cambio », dove vale solo la bontà e la sua misericordia. Si chiama Cristo!».
Un’altra immagine è il linguaggio degli uomini, che si divide soltanto in due lingue: quella di Abele e quella di Caino. Ma nel mondo di Dio c’è soltanto una lingua che tiene: quella di Abele. È il fratello che vuol bene e parla da fratello, non fa mai la voce grossa e il prepotente, non minaccia mai e non ha una parola di odio. L’invito è a domandare ai nostri morti «ad apprendere questo linguaggio, perché, dopo averla domandata ai nostri morti la chiave di questa grammatica nuova, che il Signore ha portato in questa terra, non faremo fatica ad imparare il linguaggio che si parla in paradiso: è il linguaggio di ogni nostra preghiera, che è una preghiera di invocazione, di misericordia e di bontà, è il linguaggio di coloro che si vogliono bene, perché in paradiso finiremo per volerci male e ci vorremo bene per sempre».
Lo sguardo al futuro ultimo e al mondo di Dio illumina e converte il presente: «Ma non sapete che di là il mio e il tuo non esistono? Incominciate a prendere la preghiera che Gesù ci ha insegnato: « Padre nostro… pane nostro ». Ecco, mio e tuo non ci sono più… ecco, o miei fratelli, la perfetta uguaglianza nel possesso del Signore! E allora, quando si possiede il Signore, si possiede tutto!» (Discorsi, 397-398).
Dopo tanto amore ricevuto, è possibile dimenticare i propri morti, non fare una preghiera? «L’ingratitudine umana non arriva a questo eccesso: i secoli hanno pensato a questo giorno, la pietà lo ha adornato, la religione consacrato. Oggi prega l’uomo che piange, prega e piange la natura moribonda. Tutto è pianto, tutto è preghiera!».
I defunti speranza nell’aldilà
Come parroco, don Mazzolari si chiede cosa serve andare al camposanto se non si coltiva la fede nel Risorto. I defunti costituiscono la ragione della consolazione e della speranza di chi è ancora pellegrino nel tempo. Chi ha dimenticato Dio per tanto tempo ha bisogno di ritrovarlo vicino alle soglie dell’eternità! È l’unica certezza, l’unica cosa ferma, questa mano di morente che prende la mano di colui che ci garantisce che di là c’è qualcuno che ci aspetta! C’è una misericordia che fa dimenticare tutte le colpe e nella quale un giorno ci ritroveremo con tutti coloro che siamo costretti un momento a lasciare… Quando non si può più dare nulla ai propri cari, resta solo la « speranza ».
Pur avvertendo talvolta il senso di colpa verso i propri parenti per il comportamento tenuto quando erano in vita, se, nell’ora estrema, si potrà mettere nel loro cuore il lievito di speranza e di disposizione verso l’eternità, essi ci benediranno. Da loro abbiamo ricevuto la vita: restituire la vita eterna vuol dire confermare un vincolo. Allora troveremo che «in ogni morte, anche la più dura a portare, c’è la presenza del Cristo, che prende figura nello strazio di un povero volto, baciandolo. Dopo che l’avrete preparato a morire, sentirete di baciare il volto del Signore» (Discorsi, 393-396).
Nell’omelia della vigilia del 2 novembre 1956, don Mazzolari invita non a pregare per i defunti, ma ad invocarli per i vivi, per questo povero mondo che sta di nuovo riprendendo la strada della follia. «Loro sono i santi di casa nostra, sono le anime care che vedono meglio di noi e ci sono dentro quelli più vicini a noi, ci sono dentro anche coloro che hanno più sofferto nell’altra e in questa guerra. Ci sono i nostri poveri soldati silenziosi, eroici, sacrificati; ci sono le loro mamme, le loro vedove e i loro orfani. Si può dire che tutto il nostro cimitero ha una piaga nel cuore creata dalla guerra… Io prendo tutta la vostra pena, tutto il vostro martirio, tutta la vostra speranza e, prima di portarla all’altare, la metto nelle mani dei nostri morti. Parleranno per noi a Dio» (Discorsi, p. 375.377).
Ricordando i trecento preti uccisi da fascisti, nazisti e comunisti dal 1943 al 1948 nel triangolo della morte dell’Emilia, don Mazzolari ha scritto Anche i preti sanno morire, un testo che termina con queste parole: «I cimiteri non lanciano sfide: nessuna voce di vendetta sale da questo calvario su cui la croce disegna un perdono senza fine. Non gridano i nostri morti: attendono in pace l’ora della pace, quando, spezzata la spirale degli odi e delle vendette, qui riposeranno insieme i morti che non hanno odiato e i morti che hanno creduto di poter salvare la patria e il popolo uccidendo chi non poteva odiare… Sul tuo sepolcro appena chiuso, o Signore, già splende la luce della pasqua. Pur chi non crede cammina nella luce del tuo sepolcro glorioso, dove la vita ha vinto la morte, e l’amore l’odio (Discorsi, p. 127).
La morte è un fatto naturale; la risurrezione di Cristo è di ordine soprannaturale. Per constatare il primo bastano i sensi; per accettare la risurrezione i sensi non bastano, ci vuole la fede, cioè riconoscere che la nostra maniera di vivere è sbagliata, conduce alla morte, e avvertire che l’unica via di salvezza è quella offerta dal vangelo. La solidarietà del soffrire è poca cosa se non ci mettiamo il fondamento della vera solidarietà: il Signore crocifisso in ogni sofferenza.
Il « testamento spirituale » di don Mazzolari
Nel suo testamento spirituale egli chiede scusa alla sua gente di non averle dedicato tutto il suo tempo: ma al funerale si vide che non c’era stato il più piccolo angolo della parrocchia che egli non aveva visitato; anche i cosiddetti « lontani » si sentirono a lui vicini.
Il suo testamento è una pagina stupenda, che sintetizza tutto il suo stile di vita: «Chiudo la mia giornata come credo di averla vissuta in piena comunione di idee e di obbedienza alla chiesa… So di averla amata e servita con fedeltà e disinteresse completo… Non possiedo niente. La roba non mi ha fatto gola e tanto meno occupato. Non ho risparmi, se non quel poco che potrà sì e no bastare alle spese del funerali che desidero semplicissimi, secondo il mio gusto e l’abitudine della mia casa e della mia chiesa. Dopo la messa, il dono più grande: la parrocchia… Lo stesso amore mi ha reso a volte violento e straripante… Ho inteso rimanere in ogni circostanza sacerdote e padre di tutti i miei parrocchiani…».
Senza desiderare la morte, per la stanchezza don Primo sente ormai familiare il pensiero di poter riposare nella misericordia di Dio, confidando che la giustizia di Dio sarà placata dalla preghiera di quanti gli hanno voluto bene. Ormai è proiettato al futuro ultimo: «Di là sono atteso: c’è il grande Padre celeste e il mio piccolo padre contadino. La Madonna e la mia mamma. Gesù morto per me sul Calvario e Peppino morto per me sul Sabotino. I santi, i miei parenti, i miei soldati, i miei parrocchiani. I miei amici tanti e carissimi. Verso questa grande casa dell’eterno, che non conosce assenti, m’avvio confortato dal perdono di tutti, che torno a invocare ai piedi di quell’altare che ho salito tante e tante volte con povertà sconfinata, sperando che nell’ultima messa il sacerdote eterno, dopo avermi fatto posto sulla sua croce, mi serri fra le sue braccia dicendo anche a me: « Entra anche tu nella pace del tuo Signore »».
don Luigi Guglielmoni
COME SCOPRIRE DIO NEL MONDO CONTEMPORANEO
dal sito:
http://www.zenit.org/article-28534?l=italian
COME SCOPRIRE DIO NEL MONDO CONTEMPORANEO
di monsignor Lorenzo Leuzzi
ROMA, mercoledì, 2 novembre 2011 (ZENIT.org).- La proposta di Benedetto XVI di aprire una sorta di “cortile dei gentili” annunciata nel famoso discorso alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi del 21 dicembre 2009 può davvero essere considerata, dopo quella di “allargare gli orizzonti della razionalità”, il secondo snodo storico-culturale del primo decennio del terzo millennio.
La Chiesa, che con Giovanni Paolo II si è immersa nella modernità senza paura e senza nostalgia, si prepara con Benedetto XVI ad offrire la vera chiave interpretativa della modernità.
Le due proposte di Benedetto XVI – quella di allargare gli orizzonti della razionalità e quella del cortile dei gentili – sono un vero dono per tutta l’umanità per far ripartire con entusiasmo e fiducia il cammino di ricerca spirituale ed intellettuale dell’uomo contemporaneo.
A tale proposito è interessante leggere il capitolo primo del secondo volume del Gesù di Nazareth, là dove Joseph Ratzinger-Benedetto XVI parla della purificazione del tempio ricordando come il “grandissimo cortile dei gentili è lo spazio aperto, che invita tutto il mondo a pregarvi l’unico Dio” (Gesù di Nazaret, vol. II, ed. LEV, p. 28). È la finalità che lo stesso Gesù, parafrasando la profezia di Isaia, intende richiamare sia con il rimprovero, “ne avete fatto un covo di ladri” (Mc 11,17), sia con il rilancio della profezia: “la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (Is 11,17).
A ciò si aggiunge un’ulteriore riferimento biblico che Benedetto XVI ha richiamato nel suo Discorso pronunciato e trasmesso sul sagrato di Notre-Dame di Parigi in occasione del progetto parigino del Cortile dei gentili. Si tratta del testo di Paolo agli Efesini nel quale l’apostolo ricorda che Cristo Gesù è venuto per “abbattere il muro di separazione che divideva” ebrei e gentili (Cf. Ef 2,14.17), ossia quel muro che separava il popolo eletto dai gentili, destinati quest’ultimi a non superare il limite del cortile a loro destinato.
Questione di Dio e realismo della fede sono le due chiavi interpretative della proposta del cortile dei gentili, L’uomo contemporaneo, che desidera essere pienamente nella modernità, cerca questa religione, ossia il Dio vivo e vero e non un dio generico e astratto.
Ad un attento esame del famoso discorso del 21 dicembre 2009, così come il discorso video trasmesso il 26 marzo 2011, non è difficile cogliere la vera origine della proposta di Benedetto XVI: “dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione di Dio come questione essenziale della sua esistenza”.
Senza questa consapevolezza, ossia senza la scoperta sia teologica che filosofica di una nuova questione di Dio, il cortile dei gentili è una interessante esperienza culturale veterotestamentaria, lasciando la religione o le religioni in balia della prassi storiche antirealistiche le quali cercano morbosamente il religioso per rilanciarsi.
La proposta del cortile dei gentili, al contrario, è l’annuncio che è possibile incontrare nella storia il Dio vivo e vero e che è giunto il momento in cui tutti gli uomini possono liberarsi dal fardello delle precomprensioni o dei pregiudizi religiosi e culturali e nello stesso, senza rinunciare alla loro libertà di pensiero e di ricerca, possono scoprire che nella modernità, intesa in senso realistico e non idealistico, è nascosta la vera rivincita di Dio, ossia il tempo in cui l’uomo può scoprire e rivendicare i tre pilastri della sua esistenza storica: l’identità, la stabilità e l’eternità. E ciò è possibile perché non ci sono solo gli dèi, ma c’è il Dio vivo e vero. E, per ironia della sorte, liberando l’uomo dagli dèi non sorge il nulla o l’ateismo, ma il vero Dio e la vera fede. È davvero in gioco l’onestà intellettuale e morale di tutti gli uomini. Solo il Dio vivo e vero non ha paura dell’onesta intellettuale, anzi la sostiene e la protegge, perché è l’Amore-Logos.
L’invito ad entrare nel cortile dei gentili a tutti gli uomini di buona volontà è una proposta esigente. La proposta del cortile dei gentili è l’annuncio che l’uomo non è solo in questo cammino e che la ricerca non sarà vana.
Il cortile dei gentili proposto da Benedetto XVI è allora davvero “nuovo” e merita l’attenzione e il sostegno di tutti, credenti e non: insieme sarà possibile promuovere un nuovo dialogo tra fede e ragione, tra secolarità e sacralità, senza alcuna invadenza di campo, ma uniti nella costruzione della civiltà dell’amore.
Per chiunque volesse approfondire il tema “La questione di Dio oggi – Il nuovo cortile dei gentili” – Edizioni. Libreria Editrice Vaticana.