Archive pour septembre, 2011

(S. Simeone il Nuovo Teologo « Inni e Preghiere » – invocazione allo Spirito Santo)

dal sito:

http://www.gregoriopalamas.it/Preghiere.htm 

(S. Simeone il Nuovo Teologo « Inni e Preghiere » – invocazione allo Spirito Santo)

Vieni, luce vera
Vieni, eterna vita
Vieni, mistero nascosto
Vieni, tesoro ineffabile
Vieni, realtà indicibile
Vieni, persona incomprensibile
Vieni, esultanza perenne
Vieni, verace attesa di quanti saranno salvati
Vieni, il rialzarsi di chi giace
Vieni, risurrezione dei morti
Vieni, o potente, che ogni cosa sempre compi, muti e trasformi con il solo volere
Vieni, invisibile e del tutto intangibile e impalpabile
Vieni, tu che sempre rimani immobile, e ad ogni istante tutto ti muovi e vieni a noi che giacciamo nell’Ade, tu che sei al di sopra di tutti i cieli
Vieni, nome desiderato e celebrato, ma del tutto impossibile a essere detto da parte nostra chi egli sia o a essere conosciuto quale e quanto sia
Vieni, gioia eterna
Vieni, corona immarcescibile
Vieni, porpora del grande Dio e Re nostro
Vieni, cintura cristallina e di pietre preziose
Vieni, calzare inaccessibile
Vieni, vera destra regale purpurea e sovrana
Vieni, tu che ha bramato e brama la mia misera anima
Vieni, solo a chi è solo – poiché io sono solo, come vedi
Vieni, tu che mi hai separato da tutto e mi hai reso solo sulla terra
Vieni, tu che sei divenuto in me desiderio e hai fatto che ti desiderassi, o del tutto inaccessibile
Vieni, mio respiro e mia vita
Vieni, consolazione della mia povera anima
Vieni, gioia e gloria e delizia senza fine.

Omelia su Rm 14, 7-8

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/4738.html

Omelia (06-11-2003)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. (Rom 14,7-8)

Come vivere questa Parola? 
E’ un chiaro e forte discorso di appartenenza quello che Paolo propone, Sì, noi apparteniamo al Signore. E risulta di estrema attualità anche oggi. Non siamo venuti al mondo per nostra volontà. Non abbiamo « scelto » di vivere in questa epoca, né che la nostra vita si accendesse attraverso l’unione dei nostri genitori. La vita è un dono di Dio. A Lui apparteniamo. Così come a Lui appartiene l’ora e la modalità della nostra morte. « Chi di voi per quanto si dia da fare può aggiungere un’ora sola alla sua vita? » (Mt.6,27), chiede Gesù. Dio ci ha creati liberi e consapevoli, ma tagliare il filo dall’alto » che lega a Lui il nostro esistere, crederci autonomi da Lui è somma stoltezza. Chi non ricorda l’apologo dello splendido ordito di un ragno? La sua ragnatela è perfetta, ma ne è sostegno (appena percepibile a occhio nudo) un filo, che la tiene appesa a un alto ramo d’albero. E quando il ragno, tronfio della sua bravura, decide che la sua tela è perfetta e che quel filo dall’alto è inutile, lo taglia. Ma ahimè, è l’immediato afflosciarsi della sua tela, è la rovina. « Se noi viviamo, viviamo a causa del Signore e finalizzati al suo Amore. Anche l’ora della nostra morte è nelle sue mani, dentro un suo progetto che è sempre e solo Amore. E il Signore « è ritornato alla vita » nello splendore e nella forza della sua Risurrezione, per esercitare una signoria sulla vita e sulla morte delle sue creature: una signoria che è protezione, cura amorevole, libertà, realizzazione vera.
Oggi, nella mia pausa contemplativa, fuori dalla superficialità tipica di oggi, approfondirò la necessità di vivere lungo il giorno la « memoria Dei », il continuo ricordo di Te, mio tutto, a cui pienamente appartengo.
Signore, tienimi nella consapevole certezza continua del mio appartenere a Te. Dammi di vivere la fiducia che Tu per primo mi vieni a cercare. E quando mi smarrisco dentro qualche tentazione, io sappia che Tu mi prendi sulle tue braccia come la pecorella smarrita del Vangelo odierno.

La voce di un teologo ortodosso 
Il Volto di Cristo, nella Sindone di Torino, dov’è colto fra la morte e la resurrezione, è un Volto segnato da una morte d’amore, da un Amore per sempre vincitore della morte…Ecco che « l’IO SONO » del Roveto ardente si rivolge a ciascuno di noi e diventa un « Tu sei »: tu sei vivente per sempre. Perché il Nome è il Volto, e il Volto è l’AMORE.
Olivier Clément

Omelia (11-09-2011) : Che strano 11 settembre?

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23398.html

Omelia (11-09-2011)

don Alberto Brignoli

Che strano 11 settembre?

Il perdono non è un’invenzione del cristianesimo, e la domanda che Pietro rivolge al Maestro nel brano di Vangelo di quest’oggi ce lo rivela. Il dialogo tra Pietro e Gesù segue immediatamente l’insegnamento che abbiamo ascoltato la scorsa domenica, quello sulla correzione fraterna, dove l’invito di Gesù era che a ogni uomo, per quanto grande avesse potuto essere lo sbaglio da lui commesso, fosse concessa in ogni momento la possibilità di ravvedersi, grazie anche a una comunità accogliente disposta a fare di tutto pur di reintegrarlo nella società. Pietro pare seguire con attenzione il discorso di Gesù, e rimane colpito da quest’aspetto della pazienza da usarsi nei confronti di chi sbaglia: prima va esortato personalmente, poi insieme con altre persone che possano aiutarlo a ravvedersi, poi con l’aiuto della comunità.
Pietro deve aver senz’altro pensato a un processo lento e paziente, e quindi vuole tastare personalmente le idee del Maestro riguardo alla concessione del perdono da parte della vittima nei confronti del suo « aggressore »: fino a quando è bene ed è giusto perdonare? Dicevo che il perdono non è un’invenzione cristiana: la cultura giudaica nella quale Gesù stesso, come del resto Pietro, si è formato, prevedeva che ogni scuola rabbinica avesse le sue regole e le sue norme, anche in materia di perdono. Era una visione legalista, formale, quasi « quantificata » del perdono. La maggior parte delle scuole rabbiniche invitava i propri allievi a perdonare almeno tre volte, sull’esempio di Dio che perdona tre volte ogni uomo. Pietro sa che il tema del perdono e dell’attenzione nei confronti dei peccatori è un tema caro al suo Maestro, e allora presenta a Gesù una specie di « tabella », di « tariffario », nel quale gli propone che i suoi discepoli possano fare meglio degli altri, diciamo il doppio, e anche qualcosa di più: un perdono accordato sette volte, un numero simbolico quanto realisticamente poco realizzabile.
Siamo sinceri: chi di noi riuscirebbe a perdonare per sette volte un’offesa o uno sgarbo ricevuto dalla stessa persona? Una, due volte al massimo?la terza diventa già una punizione da infliggere, come ci insegnava la filastrocca imparata dalla maestra a scuola, che suonava come una minaccia quando di comportarsi bene in classe nemmeno la minima intenzione: « La prima si perdona, la seconda si condona, la terza si bastona! ». Applichiamola alle concrete situazioni della vita, e ci pare già di per se improponibile. Quale moglie perdonerebbe un’infedeltà al proprio marito per tre volte? Quale insegnante permetterebbe a un alunno tre volte lo stesso errore nello svolgimento di un compito? Che datore di lavoro lascerebbe correre tre mancanze ingiustificate di un proprio dipendente? E da qui a sette volte?ne corre!
Pietro sa bene di aver esagerato perché sa che il Maestro ha un concetto esagerato del perdono. Forse però non se lo aspettava così esagerato da sentirsi rispondere « settanta volte sette »: o si tratta di una presa in giro oppure l’espressione è volutamente iperbolica per indicare che il perdono non è per niente questione di calcoli o di conteggi. È un atteggiamento mentale, una disposizione del cuore che nasce dalla percezione di aver ricevuto da sempre da Dio un perdono incommensurabilmente più grande delle nostre reiterate mancanze, e che proprio per questo porta a dimenticare le offese ricevute e a creare una mentalità di riconciliazione basata sulla non violenza, sulla non vendetta, sul non desiderare agli altri il male che essi hanno fatto a noi.
Con il perdono, se vissuto in quest’ottica di « per-dono », di dono ricevuto più volte da Dio, non si possono fare calcoli: saremo sempre in debito nei confronti di Dio, per cui è inutile e pure ingiusto andare a riscuotere dagli altri il dovuto per delle offese da essi ricevute. Con che coraggio un debitore di 10.000 talenti d’oro (35 tonnellate di metallo prezioso) va a chiedere che gli siano restituiti da un suo pari 100 denari (400 grammi circa di oro)? Con che coraggio lo fa strisciare ai suoi piedi, si disinteressa totalmente della sua richiesta di ulteriore tempo, e lo fa sbattere in carcere per un’insolvenza di 10.000 euro, quando a lui è stato applicato un condono fiscale di oltre 1 miliardo di euro?
Questo dovrebbe aiutarci a capire cos’è il perdono cristiano. Il perdono che Gesù Cristo propone ai suoi discepoli non è basato sul concetto di giusta retribuzione e di un calcolo a essa conseguente, perché Dio, nei nostri confronti, giusto non lo è affatto: non lo è mai stato e non lo sarà mai (lo vedremo anche domenica prossima), perché per nostra grazia « non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe » (come ci ricorda il salmo responsoriale). Allora, visto che il Dio di Gesù Cristo non è giusto, ma è clemente e misericordioso, le relazioni umane dei credenti in Cristo non possono avere come legge né il taglione (occhio per occhio) né la retribuzione (pagare per ciò che si ha fatto), che fondamentalmente sono leggi basate sul concetto di vendetta (« do a te ciò che tu hai dato a me », nel bene e nel male): le relazioni create dai cristiani devono essere basate esclusivamente sul perdono, che trova il suo fondamento nell’Alleanza, nel rapporto stretto tra Dio e l’uomo, come ci ricorda già Siracide nella prima lettura, « ricordati dell’Alleanza con l’Altissimo e non far conto dell’offesa subita ». Dio ama a tal punto l’uomo da perdonarlo incondizionatamente e infinitamente: e questo è il metro su cui l’uomo deve misurare le proprie relazioni con i suoi simili.
Giuridicamente parlando, è una follia, è la negazione del diritto: chiedere a chi subisce offese e violenze di dimenticare e perdonare è puramente una follia, e – ironia della sorte – lo leggiamo nel vangelo di quest’oggi, domenica 11 settembre, anniversario di quel giorno in cui morte e distruzione non evocano certo perdono e impunità. Un modo strano, per la liturgia, di ricordare quella data: parlando di perdono, di misericordia, di rabbia e rancore da eliminare perché « abominevoli »?
Vallo a capire, un Dio così, che parla di perdono invece di parlare di giustizia! Del resto, cos’ha fatto, lui, perdonando chi gli ha ammazzato il Figlio in croce e continua a farlo crocifiggendo i suoi figli sulle migliaia di croci della storia?
Lui stesso, comunque, ha messo dei paletti: perdonerà tutto, sempre, ma tralascerà di farlo con chi non fa altrettanto con i fratelli. « Chi si vendica avrà la vendetta del Signore, ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati ».
Il perdono non è un’invenzione del cristianesimo, ma lo sono la folle perseveranza nel perdono e la costruzione di una società nuova basata sulla cultura dell’amore e della non violenza.
Sono passati duemila anni, ma siamo ancora solo agli inizi: la partita rimane tutta da giocare.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 10 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

DOMENICA 11 SETTEMBRE 2011 – XXIV DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 11 SETTEMBRE 2011 – XXIV DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A24page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Rm 14, 7-9
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Inizio del «Discorso sui pastori» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 46, 1-2; CCL 41, 529-530)

Pastori siamo, ma prima cristiani
Ogni nostra speranza è posta in Cristo. È lui tutta la nostra salvezza e la vera gloria. È una verità, questa, ovvia e familiare a voi che vi trovate nel gregge di colui che porge ascolto alla voce di Israele e lo pasce. Ma poiché vi sono dei pastori che bramano sentirsi chiamare pastori, ma non vogliono compiere i doveri dei pastori, esaminiamo che cosa venga detto loro dal profeta. Voi ascoltatelo con attenzione, noi lo sentiremo con timore.
«Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori di Israele, predici e riferisci ai pastori d’Israele» (Ez 34,1-2) Abbiamo ascoltato or ora la lettura di questo brano, quindi abbiamo deciso di discorrerne un poco con voi. Dio stesso ci aiuterà a dire cose vere, anche se non diciamo cose nostre. Se dicessimo infatti cose nostre saremmo pastori che pascono se stessi, non il gregge; se invece diciamo cose che vengono da lui, egli stesso vi pascerà, servendosi di chiunque.
«Questo dice il Signore Dio: Guai ai pastori di Israele che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge?» (Ez 34,2), cioè i pastori non devono pascere se stessi, ma il gregge. Questo è il primo capo di accusa contro tali pastori: essi pascono se stessi e non il gregge. Chi sono coloro che pascono se stessi? Quelli di cui l’Apostolo dice: «Tutti infatti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (Fil 2,21).
Ora noi che il Signore, per bontà sua e non per nostro merito, ha posto in questo ufficio — di cui dobbiamo rendere conto, e che conto! — dobbiamo distinguere molto bene due cose: la prima cioè che siamo cristiani, la seconda che siamo posti a capo. Il fatto di essere cristiani riguarda noi stessi; l’essere posti a capo invece riguarda voi.
Per il fatto di essere cristiani dobbiamo badare alla nostra utilità, in quanto siamo messi a capo dobbiamo preoccuparci della vostra salvezza.
Forse molti semplici cristiani giungono a Dio percorrendo una via più facile della nostra e camminando tanto più speditamente, quanto minore è il peso di responsabilità che portano sulle spalle. Noi invece dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori.

Day 5 Fisches and birds

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http://www.artbible.net/1T/Gen0120_5Fishes_birdslife/index_4.htm

Publié dans:immagini sacre |on 9 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

L’auto-limitazione di Dio e l’origine dell’Universo

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=296:luria&catid=55:kabalah&Itemid=93

L’auto-limitazione di Dio e l’origine dell’Universo   
 
« Sappi che, prima che le emanazioni fossero emanate e che le creature fossero create, la semplice Luce Superiore colmava tutta l’esistenza.
Non esisteva nessun posto libero, né di aria vuota né di spazio, ma tutto era colmo di quella semplice Luce Infinita. Non aveva distinzione, né di inizio né di fine, ma tutto era un’unica semplice Luce uguale in un’unica eguaglianza ed essa è quella che viene chiamata Or-Ein Sof  »
Queste parole del grande Kabbalista Rabbi Isaac Luria (1534 – 1572) furono riportate nell’opera « Etz Chayim » dal suo principale discepolo, Chayim Vital di Calabria.
Questo maestro del misticismo ebraico elaborò una sua visione sull’origine dell’Universo basandosi sui concetti fondamentali della Kabalah.
Nel brano sopracitato, Isaac Luria si riferisce ad un qualcosa di cui il testo della Bibbia (interpretato letteralmente) non parla. Si tratta di quel periodo precedente alla Creazione, quando l’Universo non c’era e l’esistenza veniva riempita solo dalla Luce Superiore, una forma di energia purissima appartenente all’Ein Sof, che significa « Senza Fine », uno dei nomi di Dio nella Kabbalah.
Riferendoci alla condizione in cui esisteva soltanto l’Ein Sof, non potremmo in realtà parlare neanche di spazio e di tempo, che sono dimensioni nate in seguito, perchè come scrive in seguito lo stesso Luria: « Non c’è nessun intelletto che è stato creato che possa realizzare l’Ein Sof, dato che Esso non ha luogo, e non ha confini e non ha Nome. »
Quando Dio decise di creare l’Universo, dovette innanzitutto fare in modo che esistesse uno spazio in rapporto a sè stesso. Così l’Ein Sof restrinse la Sua Luce illimitata formando un vuoto capace di ospitare la Creazione, e si ritirò ai lati di questo spazio vuoto che è perfettamente circolare.
Il misterioso e affascinante processo di auto-limitazione (o restrizione) di Dio è chiamato Tzim-Tzum. Non si tratta di un concetto introdotto da Isaac Luria, ma di un antichissimo termine Kabbalistico.
Sappiamo che lo Tzim-Tzum è ancora in corso poichè l’Universo è in continua e lentissima espansione.
Il vuoto di aria e di spazio generato dall’auto-limitazione dell’Ein Sof era circondato da dieci cerchi chiamati « vasi » (kelim) che si identificano con le dieci Sefirot, corrispondenti in questo caso ai diversi livelli di realtà presenti nella Creazione.
Ma la Luce Superiore non abbandonò completamente lo spazio vuoto. Infatti, ecco cosa scrive Luria a riguardo:
« Ed allora scaturì dalla Luce di Ein Sof una singola linea dall’Alto al Basso, che si svolge scendendo dentro quello spazio [vuoto].
E per mezzo di quella linea emanò, creò, formò e fece tutti i Mondi »
Dunque fu proprio un residuo di Luce emanata dall’Ein Sof a creare ogni cosa che esiste nel mondo.
Oggi alla Scienza è nota la possibilità di trasformare luce in materia e viceversa e infatti secondo una moderna teoria il cosmo potrebbe essersi formato proprio a partire da particelle di luce: i fotoni.
La singola linea di Luce attraversò tutti i dieci « recipienti » che circondano il vuoto, ma alcuni di essi non riuscirono a contenerla e così, secondo Rabbi Luria, si ruppero provocando la cosiddetta Shevirat HaKelim (frammentazione dei recipienti), una catastrofe cosmica che provocò l’inizio del caos nell’Universo ma anche la nascita dell’individualità. 
Gli insegnamenti mistici di Isaac Luria, nonostante alcune controversie, sono alla base di quella che oggi è la principale scuola di pensiero della Kabbalah. Lo Tzim-Tzum e la Shevirat HaKelim vengono interpretati in diversi modi e da questi processi mistici sono stati tratti anche degli insegnamenti morali come l’importanza di « dare spazio » agli altri e di non imporsi sul prossimo a imitazione dell’Ein Sof. 

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 9 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Irradiare la bellezza di Dio

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=150

Irradiare la bellezza di Dio

sintesi della relazione di Giannino Piana

Verbania Pallanza, 10 marzo 2001

Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l’amore che Dio è.
la bellezza di Dio
Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell’imprevedibile. E’ la bellezza del gesto gratuito, dello « spreco » da parte della donna che versa l’unguento sui piedi di Gesù.
Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l’al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all’al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.
la manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo
La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell’uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
Innanzitutto la creazione porta su di sé l’impronta del creatore (« e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello »). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. « I cieli narrano la gloria di Dio ». La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
Nel creato è l’uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l’uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi « a sua immagine li creò », quindi l’essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L’immagine di Dio è nella realzione.
Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L’amore è la comunione tra persone.
In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall’uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell’essere un gesto d’amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l’amore senza riserve e misura che esprime.
Inoltre la croce è solo la penultima parola, l’ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
La bellezza di Dio è coglibile solo « come attraverso uno specchio », cioè solo attraverso la mediazione, ed « enigmaticamente », cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l’opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell’uomo).
luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio
Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio
testimonianza della santità
Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
E’ una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell’impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l’essere e l’agire dell’uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L’attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell’accogliere il dono. L’accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall’adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell’essere pacificatori…
Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell’amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). E’ la bellezza del perdersi, del donarsi.
La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell’ « io vi dico »: non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all’amore per il nemico.
Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.
il linguaggio simbolico
Anche l’annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
L’annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell’irrazionale.
Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un’altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all’infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l’infinito.
Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all’alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell’annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l’applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell’ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
C’è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all’accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali…
2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell’uomo di oggi. C’è ancora troppo didascalismo.
Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all’alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole « perché vedendo non vedano e udendo non odano », C’è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l’udire non è ascoltare. L’ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l’interiorità dell’altro e non il rimanere in superficie
Gli stessi sacramenti sono l’assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.
la preghiera come paradigma
La preghiera, non il recitare preghiere, ma l’attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. E’ il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un’alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
L’essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell’intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
E’ la bellezza come profondità delle cose e dell’essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
La preghiera non è tanto un atto dell’uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l’uomo. « Ascolta Israele » è l’invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. E’ l’invito all’ascolto, all’accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio. 

Publié dans:TEOLOGIA |on 9 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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