Archive pour septembre, 2011

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO

molte note, sul sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/padrenostroesegesisancipriano.htm

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO
 
Innocenzo monaco
Inserendosi nella tradizione, già seguita da Tertulliano, Cipriano vede nel «Padre nostro» la sintesi (“breviario”) dell’intero evangelo. Come tale il «Padre nostro» è l’espressione del sacrificio più grande e più gradito a Dio che la comunità cristiana possa presentare: l’unità, l’amore e la pace, vissuti nella comunione con la chiesa. Il «Padre nostro» viene così a definirsi: come preghiera di pace offerta e ricevuta, che precede e supera ogni altro gesto cultuale e come preghiera del cuore, che fa del cristiano stesso un luogo di preghiera ovunque egli si trovi. Il «Padre nostro» rivela inoltre che la preghiera è “spirituale”, perché dettata dallo Spirito, dono pasquale del Risorto. Finalmente la preghiera dei “santi” del Nuovo Testamento è una preghiera feconda e continua, identificata con la vita.
 
1. Il “breviario” dell’Evangelo
            Il capitolo sesto dell’Evangelo di Matteo era già per Tertulliano il punto di partenza obbligato di ogni preghiera cristiana. Analizzando le indicazioni offerte da Matteo, Tertulliano aveva concluso: La preghiera cristiana è anzitutto una preghiera fatta nel segreto del cuore[1] ed espressa con la massima semplicità, perché «non possiamo illuderci di essere ascoltati dal Signore per la forza delle parole»[2]. Il nuovo modo di pregare, insegnato dal Signore stesso ai discepoli desiderosi di imparare, trova nel «Padre nostro» – aggiungeva Tertulliano – la sua forma più piena ed esemplare[3]. Il «Padre nostro» è la preghiera “simpliciter”, cioè è la definizione stessa della preghiera cristiana. Esso contiene infatti praticamente «ogni parola del Signore» fino al punto da poter essere definito «sintesi (breviarium) dell’intero evangelo»[4]. Il «Padre nostro» – concludeva Tertulliano – va ritenuto dunque il «fondamento stesso di qualsiasi altra richiesta o desiderio»[5].
Cipriano si pone nella linea della stessa tradizione, anche per lui il «Padre nostro» è la preghiera cristiana per eccellenza e la forma di preghiera in cui il Signore «sintetizzò (breviavit) in un’unica parola di salvezza ogni nostra possibile preghiera»[6]. Ed aggiunge: Gesù ha voluto riassumere ogni preghiera possibile nel «Padre nostro» per fare con la preghiera ciò che aveva già fatto con le prescrizioni della legge quando «sintetizzò tutti i suoi comandamenti» nel precetto della carità[7]. Ciò che preme al Signore è permettere – spiega Cipriano – che tutti, dotti ed ignoranti, uomini e donne, grandi e piccoli, possano ascoltare e ricevere la parola che salva[8]. Il cristianesimo non è per una élite, non è per degli iniziati che abbiano già raggiunto un supposto livello di maturità socio-culturale o spirituale, ma è semplicemente per tutti. Ogni tentativo perciò di separazione, sotto qualsivoglia forma si presenti, deve essere tagliato alla radice, perché la disponibilità alla comunione con tutti è il presupposto indispensabile alla possibilità stessa della preghiera cristiana.
 
2. Il sacrificio più grande
Il messaggio cristiano è un messaggio di unità, di amore e di pace. Chi rompe quindi l’unità, l’amore e la pace, si taglia fuori dalla comunità dei figli di Dio, va contro il comando del Signore e rende perciò vana e inutile ogni sua preghiera ed ogni sacrificio:
«Dio ci domanda di stare nella sua casa con pace, concordia e unanimità; vuole che proseguiamo ad essere ciò che Lui fece di noi nella seconda nascita (battesimale). Perciò, dal momento che abbiamo cominciato ad essere figli di Dio, restiamo nella pace di Dio e, dal momento che è uno solo il nostro spirito, sia unica l’anima, unico il sentimento. D’altra parte Dio non accoglie il sacrificio di un uomo discorde e comanda di ritornare prima a riconciliarsi con il fratello[9], perché Dio possa essere placato da preghiere di pace»[10].
Cipriano crede di poter capire dalla semplice espressione “Padre nostro” che la realizzazione dell’unità nell’amore e nella pace è messa dal Signore al di sopra di ogni altra manifestazione cultuale. Il cristiano è stato chiamato all’unità con la seconda nascita avvenuta nel battesimo. Non vivere l’unità significherebbe vanificare la grazia battesimale e andare quindi contro l’espresso comando del Signore. Il vero culto cristiano consiste nel perseverare in quello stato di figli di Dio che ci permette di rivolgerci appunto a Dio chiamandolo “Padre”. Siamo rinati come figli di Dio nel battesimo? Dunque rimaniamo nella pace di Dio. Abbiamo ricevuto tutti lo stesso spirito? Dunque procuriamo di avere gli stessi sentimenti ed un’unica volontà e così potremo dire non solo “Padre”, ma “Padre nostro”. Soltanto le preghiere che sono espressione di questa pace e unità conservate con Dio e coi fratelli, saranno esaudite da Dio. Dio infatti vuole essere pregato da preghiere di pace (“pacificis precibus”):
«Il sacrificio più grande e più gradito a Dio è la pace fra noi e la fraterna concordia di un popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[11].
Nelle prime parole del «Padre nostro» Cipriano pensa di vedere sintetizzato perciò tutto il messaggio portato dal Signore mentre nello stesso tempo è convinto che esse indichino anche la natura ultima della preghiera del Nuovo Testamento. Pace, amore, unità. Tutto il seguito dell’esegesi di Cipriano sul «Padre nostro», esegesi che egli si preoccupa di attualizzare puntualmente nella sua comunità, sarà uno sviluppo, una riaffermazione, oppure una difesa di questa triade fondamentale. I testi sembreranno addirittura la variazione musicale di un unico tema. Chi rompe questa triade non può neppure dirsi cristiano. Come può dunque pretendere di pregare cristianamente? Come può un imitatore di Giuda ritrovarsi insieme con Cristo? Neppure il martirio del sangue – conclude drasticamente Cipriano – sarà espiazione adeguata di questo immenso delitto[12]. Del resto è il testamento stesso del Signore – precisa – che ci obbliga a dare un giudizio così severo: «Il desiderio ultimo del Signore fu che noi rimanessimo in quella stessa unità che è del Padre e del Figlio. Da qui si può capire quanto grave sia il peccato di chi frantuma l’unità e la pace della comunità cristiana»[13].
Alcuni brani dell’Epistolario di Cipriano riprendono con altrettanta forza il medesimo tema. Concordia, unità e pace sono già preghiera. Una preghiera talmente efficace che non solo ha potere di ottenere da Dio il superamento dei pericoli e delle difficoltà presenti, ma addirittura di scongiurare quelli che potrebbero ancora venire[14]. La ragione prima di ciò che noi chiamiamo “preghiera inefficace” – spiega Cipriano – sta molto spesso nella nostra incapacità ad essere in comunione con gli altri durante la preghiera. Non siamo veramente concordi. Non abbiamo un cuore e un’anima sola mentre preghiamo. Spesso ci si raccoglie in preghiera per chiedere unicamente ciò che più preme a ciascuno di noi senza pensare ai fratelli, anzi molto spesso chiediamo cose che sono in aperto contrasto col desiderio intimo dei nostri fratelli. Siamo bugiardi nel dire “Padre nostro”. E allora il Signore non benedice[15]. Nella comunità cristiana non vi può essere posto per l’individualismo, neppure quando ci raccogliamo nel segreto della nostra stanza per vivere l’esperienza intima di una comunione personale con Dio. Non esistono due forme di preghiera, l’una individuale e privata e l’altra pubblica e comunitaria. Ma soprattutto non si da invocazione cristiana che sia in rottura con l’armonia degli altri fratelli. La preghiera cristiana è per sua natura comunitaria. Così ci ha insegnato il Signore e così viene richiesto dal nostro essere «popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». Perciò nella comunità cristiana
«Ciascuno preghi il Signore non solo per i propri bisogni personali, ma anche per i bisogni di tutti i fratelli come il Signore ci ha insegnato quando ci ha comandato di pregare non ciascuno per conto suo, ma in comune e in comunione con la preghiera di tutti»[16].
Questa forte accentrazione comunitaria Cipriano la ricava da un’esegesi molto profonda dello spirito che è sotteso ad ogni singola invocazione del Padre nostro. In queste invocazioni – spiega Cipriano – il Signore ha voluto anzitutto metterci in guardia contro ogni tentazione di pregare ciascuno per conto suo e secondo i capricci dei propri bisogni personali:
«Infatti non diciamo “Padre mio” che sei nei cieli; né diciamo “dammi oggi il mio pane quotidiano”, né ciascuno chiede che gli venga rimesso solo il suo debito personale o che lui soltanto non venga indotto in tentazione e venga liberato dal maligno. La nostra preghiera invece è sempre pubblica e comunitaria; e quando preghiamo non lo facciamo solo in favore di una persona, ma per il popolo intero, perché l’insieme del popolo è come un unico corpo. Il Dio della pace che è maestro di comunione concorde. Lui che ci insegnò l’unità, volle che ciascuno pregasse per tutti sull’esempio di Lui che, da solo, si prese cura di tutti»[17].
All’origine della possibilità stessa della preghiera cristiana c’è l’azione salvifica di Cristo che tutti ci ha condotti all’unità. Cristo diviene così il fondamento ultimo della nostra preghiera di cristiani. Infatti è per l’unità stabilita da Lui ed in Lui che tutto il popolo può affermare di essere una cosa sola esprimendo con forza questa ritrovata unità nella preghiera pubblica e comunitaria al “Padre nostro che è nei cieli”.
 
3. Una preghiera pacifica e semplice
Abbiamo visto quali sono i presupposti indispensabili perché la preghiera cristiana sia possibile ed efficace. Ma quali sono le caratteristiche proprie di questa preghiera? Anche a questo proposito si può parlare di una triade cui Cipriano annette grande importanza. Cipriano ne parla nel contesto di un richiamo ad Atti 1, 14: «Erano tutti perseveranti in preghiera con le donne e Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di Lui» e al Salmo 67, 7: «Colui che fa abitare gli unanimi nella casa».
Di questi richiami Cipriano si serve per spiegare “cristianamente” anche il canto dei tre fanciulli nella fornace ardente di Daniele 3, 51s:
«La loro preghiera – spiega Cipriano – fu un discorso impetrante ed efficace, perché il Signore veniva invocato da una preghiera pacifica, semplice e spirituale»[18].
La preghiera deve avere dunque queste tre note: deve essere pacifica, semplice e spirituale.
Pacifica – sottolineerebbe ancora una volta Cipriano – nei due sensi di “espressione della pace” e di “richiesta della pace”. La preghiera deve cioè: da una parte esprimere e manifestare il nostro essere in pace con tutti[19]; dall’altra deve chiedere di impetrare lo stato di pace con Dio[20].
Semplice. È assolutamente importante che impariamo a pregare il Signore dall’intimità del cuore e con la totalità dei nostri pensieri: «Preghiamo dunque “de intimo corde” et “de tota mente”[21]. È un invito pressante a fare esperienza della preghiera del cuore, quella preghiera “monologica” (fatta cioè di una parola soltanto come per es. “Abbà, Gesù, Amen” ecc.) che avrà poi tanta importanza nella tradizione monastica e che proseguirà ad essere la preghiera preferita da intere generazioni cristiane nella forma comune delle “giaculatorie” diffuse fin dal tempo dei padri del deserto. Cipriano è uno dei primissimi padri che rivendica questa nota peculiare della preghiera cristiana. Non c’è posto, nell’esperienza della preghiera cristiana, per le «parole confuse»[22] o per la «tumultuosa loquacitate»[23]. Il cristiano sa infatti di dover porre attenzione, quando si parla di preghiera, anche al portamento del corpo e al tono della voce. La preghiera richiede disciplina e armonizzazione non solo della mente, ma anche del corpo:
«Bisogna piacere agli occhi di Dio sia nel comportamento del corpo che nel tono della voce… Pensiamo che siamo davanti a Dio… abbiano dunque coloro che pregano una parola ed una voce disciplinate, soffuse di calma e di pudore»[24].
La calma (in latino “quies” che potremmo forse tradurre meglio “silenzio”), accompagnata da una seria disciplina del corpo, è il contesto ottimale della preghiera semplice del cuore. Anche qui abbiamo dei segni anticipatori di quella che sarà chiamata più tardi «preghiera esicasta» o «preghiera del cuore», oppure ancora «preghiera di quiete». Il contesto immediato in cui ne parla Cipriano è certamente diverso e riferibile alla situazione storica delle sue comunità africane. Forse egli nota degli abusi qua e là. Forse il metodo montanista di pregare, che spesso diveniva occasione di manifestazioni psico-fisiche poco equilibrate, tenta di far breccia anche all’interno delle assemblee cattoliche. Cipriano intende forse arginare simili tentativi. In ogni caso lo fa con molta efficacia e forza sottolineando le caratteristiche di semplicità e di compunzione discreta, ma profonda, tipiche della preghiera cristiana:
«Noi supplichiamo il Signore con semplicità e in comunione senza smettere mai e con la fiducia di essere esauditi; lo preghiamo con gemiti e pianti…»[25].
Così negli anni della persecuzione e del nascondimento forzato. Ma anche in periodi di maggiore serenità per la Chiesa, Cipriano dirà:
«Quando ci raduniamo insieme coi fratelli e celebriamo i sacrifici divini col sacerdote dobbiamo ricordarci di essere modesti e disciplinati senza sbandierare preghiere improvvisate con voce smodata e senza buttare lì, con modo di parlare inconsulto, una supplica da presentare invece a Dio con modestia ed umiltà. Dio infatti non si cura della voce, ma ascolta direttamente il cuore»[26].
Cipriano fonda tutte queste indicazioni sulla semplicità e sulla necessità di una preghiera fatta nel silenzio del cuore, sull’esegesi di Mt 6, 5-8. Lo stesso brano di Matteo gli suggerisce la rivendicazione di un allargamento geografico talmente ampio da far coincidere il luogo della preghiera col mondo intero. Non c’è luogo in realtà, per quanto remoto e profano esso possa apparire, che non sia adatto alla preghiera cristiana:
«Col suo insegnamento il Signore ci ha detto di pregare in segreto, in luoghi nascosti e lontani, nelle stesse camere riservate (della casa) – ciò che è più appropriato alla fede –, perché impariamo che Dio è presente dappertutto, che ascolta e vede tutti e che la pienezza della sua maestà penetra fin nei luoghi più lontani e segreti»[27].
In conclusione Cipriano pensa che il brano di Mt 6, 5-8 voglia sostanzialmente dire queste due cose: primo, che la preghiera deve essere semplice e fatta dal cuore; secondo, che essa non ha bisogno di luoghi speciali cui recarsi per poterla esprimere, perché il mondo intero è tempio di Dio e luogo privilegiato della sua costante presenza.
 
4. Preghiera spirituale
La terza caratteristica della preghiera cristiana è data dalla sua natura spirituale: “spiritualis oratio”. Cipriano arriva a questa conclusione per le indicazioni che egli trova in Gv 4, 23. Ma non si accontenta della semplice espressione letterale. Egli vuole esplicitare il significato ultimo dell’aggettivo “spirituale” dato da Gesù alla preghiera. E lo fa inserendo il testo di Giovanni nel contesto del «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Perciò spiega: Il Signore Gesù è colui che ha realizzato la profezia presente in Gv 4, 23: «Verrà l’ora quando i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità», quando, donandoci lo Spirito della Verità, ci ha donato anche la possibilità di pregare in modo veritiero e spirituale. Dunque la preghiera “spirituale” è il frutto gustoso di quello Spirito promesso dal Signore come colui che ci avrebbe introdotto in tutta la verità. È preghiera “spirituale” la preghiera dettata dallo Spirito. Ma la preghiera dettata dallo Spirito, che grida dentro di noi: “Abbà-Padre”, si identifica con la preghiera insegnata dal Signore e che noi siamo in grado di riconoscere nel «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Gesù viene ad essere così colui che ci ha iniziati alla preghiera “spirituale” e colui che, donandoci lo Spirito, ci ha posti anche nella possibilità concreta di far nostra una preghiera che è insieme sia dello Spirito che della Verità:
«Quale preghiera infatti può essere più “spirituale” di quella insegnata da Gesù dal quale lo Spirito santo è stato avviato? E quale preghiera può essere più vera presso il Padre di quella che è venuta fuori dalle labbra del Figlio che è la Verità?»[28].
La preghiera cristiana è dunque veramente “spirituale” quando è espressione della presenza dello Spirito santo, che è Spirito di unità, di concordia e di pace. Se perciò è presente lo Spirito dell’unità perfino una preghiera fatta prima della venuta del Signore, come per esempio quella dei tre fanciulli nella fornace ardente[29], può essere considerata, ed è di fatto, una “spiritalis oratio”[30]. La concordia e l’armonia reciproca che regnavano fra i tre fanciulli erano già segno evidente sia della presenza dello Spirito santo che dell’adesione al Cristo venturo. È un tentativo di proiezione che oggi potremmo definire ecumenica?
 
5. Preghiera feconda
La preghiera del cristiano deve essere “pacifica, semplice e spirituale”, ma non può in alcun modo essere una preghiera sterile (“sterilis oratio”). Già abbiamo visto sottolineare in modo fortissimo la necessità della concordia coi fratelli per l’orante cristiano. Cipriano richiede anche qualcos’altro: l’impegno alla conversione. Se infatti è assurda la preghiera di un cuore discorde coi fratelli, è per lo meno inefficace una preghiera che non sia accompagnata da opere di conversione[31]. Le opere di conversione sono anzitutto quelle che stabiliscono la comunità cristiana nell’umiltà, nella pace, nella ricerca della concordia reciproca, nella sottomissione timorosa al Signore[32]; ma esse si esprimono anche in un cammino ascetico vero e proprio che comporterà, fra l’altro, una certa discrezione nel cibo ed abbondanza di lacrime, digiuno ed elemosine[33].
 
6. Preghiera di santi
Cosa in fin dei conti chiediamo nella preghiera? Il cristiano – risponde Cipriano – chiede una cosa soltanto: la perseveranza nella grazia battesimale
«in modo che noi, (i quali siamo stati) santificati nel battesimo, possiamo avere la forza di proseguire nel cammino intrapreso»[34].
Chiediamo quindi una santità non da raggiungere o conquistare, ma da riconoscere e conservare. Il battesimo ha già reso santo il cristiano; la preghiera chiede allora a Dio il dono della permanenza in questa santità[35]. Nessuna preoccupazione perfezionista, ma soltanto desiderio e richiesta di restare solidamente nella nuova condizione inaugurata dal battesimo. Il punto centrale intorno al quale ruota tutta la preghiera cristiana è perciò la permanenza nella chiesa, nell’unità del corpo di Cristo. A questo tende la richiesta del “pane quotidiano” nel «Padre nostro»
«Chiediamo il nostro pane, perché Cristo è il pane di coloro che fanno parte del suo corpo»[36].
A questo è ordinato il nutrimento eucaristico quotidiano[37]. Il peccato è perciò il male più grave che può capitare al cristiano appunto perché, allontanandolo dall’eucaristia, rischia di separarlo dal corpo di Cristo:
«Dobbiamo temere e pregare perché non accada per qualcuno che, dovendosi astenere dall’eucaristia, non venga separato da Cristo e si ritrovi lontano dalla salvezza… Perciò chiediamo che ci venga dato il nostro pane, cioè Cristo, ogni giorno affinché, rimanendo e vivendo in Cristo, non ci stacchiamo dalla santificazione che viene dal suo corpo»[38].
 
7. Preghiera di vita
Un’ultima domanda: Quando pregare? Per Cipriano non esistono dubbi a questo proposito. Occorre pregare sempre:
«Procura di essere assiduo alla preghiera e alla lettura: o sii tu a parlare con Dio o sia Dio a parlare con te insegnandoti i suoi comandamenti e disponendoti ad osservarli. Se sarà lui ad arricchirti, nessuno ti impoverirà: non vi sarà più indigenza per colui il cui petto sarà stato saziato una volta dal grano del cielo»[39].
Potrebbe essere una sintesi sulla preghiera e invece questo brano è la semplice esortazione di un vescovo. Il carattere dialogico della preghiera cristiana è evidente. Ancora più chiaro è il riferimento alla “lectio” come momento in cui Dio stesso parla al cuore del cristiano. La voce, la risposta, l’insegnamento di Dio, si fanno vivi e presenti attraverso la “lectio”. Attraverso di essa il “pectus” del cristiano è talmente saziato dal “grano del cielo” che ormai più nulla può mancargli. Si ha l’impressione di essere alle sorgenti di quella abitudine alla “lectio divina” che diverrà poi una costante dell’intera tradizione monastica sia d’oriente che d’occidente. Ma Cipriano ci dice anche altro: il legame fra il tempo della preghiera cristiana e il tempo nuovo inaugurato da Cristo.
La novità della venuta di Cristo dà la ragione della preghiera fatta nel tempo, ma nella misura in cui libera la preghiera stessa da ogni tipo di vincolo col tempo cronologico. L’evento-Cristo è infatti l’unica vera misura del tempo. Così la mattina si prega per celebrare la resurrezione del Signore e la sera si prega per implorarne l’avvento. L’intera giornata del cristiano è immersa nell’evento pasquale e il giorno o il sole di questo mondo terreno ritrovano il loro carattere di segni e figure del mondo celeste «perché è Cristo il vero sole e il giorno vero»[40]. Anzi, a ben riflettere – prosegue Cipriano –, per colui che ha scoperto in Cristo il vero sole e il giorno vero, non esiste più il problema di stabilire quali ore del giorno o della notte siano le più adatte alla preghiera.
Il cristiano non è legato più al ciclo cosmico di luce-tenebre, tenebre-luce. Egli abita costantemente nella luce, ed è figlio della luce, perché abita in Cristo unica e vera luce del mondo. La preghiera a questo punto non è più qualcosa che si fa, ma si identifica con l’essere: essere in Cristo, essere nella luce, essere nello Spirito e nella Verità. Divenire preghiera. È questa la conclusione di Cipriano. A questo lo ha condotto il «Padre nostro» e la sua esegesi.

21 SETTEMBRE – SAN MATTEO APOSTOLO (UFFICIO DELLE LETTURE)

dal sito:

http://www.maranatha.it/Ore/solenfeste/0921letPage.htm

21 SETTEMBRE  – SAN MATTEO APOSTOLO

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera agli Efesini di san Paolo, apostolo 4, 1-16

Varietà dei carismi distribuiti in un solo corpo
Fratelli, vi esorto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo sta scritto:
Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini.
Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.
È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità.

Responsorio   Cfr. 2 Pt 1, 21; Pro 2, 6
R. Non da volontà umana fu rivelata a noi la parola divina: * mossi da Spirito Santo quegli uomini parlarono da parte di Dio.
V. Il Signore dà sapienza, dalla sua bocca esce prudenza:
R. mossi da Spirito Santo quegli uomini parlarono da parte di Dio.

Seconda Lettura
Dalle «Omelie» di san Beda il Venerabile, sacerdote
(Om. 21; CCL 122, 149-151)

Gesù lo guardò con sentimento di pietà e lo scelse
Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi» (Mt 9,9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: «Seguimi». Gli disse «Seguimi», cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi, quanto con la pratica della vita. Infatti «chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato» (1Gv 2,6).
«Ed egli si alzò, prosegue, e lo seguì» (Mt 9,9). Non c’è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all’interno con un’invisibile spinta a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui potesse comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili.
«Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli» (Mt 9,10). Ecco dunque che la conversione di un solo pubblicano servì di stimolo a quella di molti pubblicani e peccatori, e la remissione dei suoi peccati fu modello a quella di tutti costoro. Fu un autentico e magnifico segno premonitore di realtà future. Colui che sarebbe stato apostolo e maestro della fede attirò a sé una folla di peccatori già fin dal primo momento della sua conversione. Egli cominciò, subito all’inizio, appena apprese le prime nozioni della fede, quella evangelizzazione che avrebbe portato avanti di pari passo col progredire della sua santità. Se desideriamo penetrare più a fondo nel significato di ciò che è accaduto, capiremo che egli non si limitò a offrire al Signore un banchetto per il suo corpo nella propria abitazione materiale ma, con la fede e l’amore, gli preparò un convito molto più gradito nell’intimo del suo cuore. Lo afferma colui che dice: «Ecco, sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Gli apriamo la porta per accoglierlo, quando, udita la sua voce, diamo volentieri il nostro assenso ai suoi segreti o palesi inviti e ci applichiamo con impegno nel compito da lui affidatoci. Entra quindi per cenare con noi e noi con lui, perché con la grazia del suo amore viene ad abitare nei cuori degli eletti, per ristorarli con la luce della sua presenza. Essi così sono in grado di avanzare sempre più nei desideri del cielo. A sua volta, riceve anche lui ristoro mediante il loro amore per le cose celesti, come se gli offrissero vivande gustosissime.

21 SETTEMBRE – SAN MATTEO, APOSTOLO ED EVANGELISTA (di dom Prosper Guéranger)

dal sito:

http://www.unavoce-ve.it/pg-21set.htm

di dom Prosper Guéranger

21 SETTEMBRE – SAN  MATTEO,  APOSTOLO ED EVANGELISTA

La chiamata del Signore.
« La vocazione del pubblicano che Gesù invita a seguirlo è tutto un mistero » dice sant’Ambrogio (Commento su san Luca l. v, c. 5). Già parecchie feste di apostoli ci hanno descritta la loro chiamata. ma oggi vediamo chiamare un pubblicano, uno degli uomini che il popolo detestava, perché esigeva per conto di Erode Antipa le tasse di dogana, dazio e pedaggio. Sant’Ambrogio ce lo presenta « avaro e duro, intento a volgere a suo profitto il salario dei braccianti, le pene e i pericoli dei marinai ». Forse sant’Ambrogio è troppo severo e gli attribuisce i difetti dei suoi colleghi, ma, comunque sia, Gesù passò vicino al suo banco di doganiere, a Cafarnao, lo osservò attentamente e gli disse senz’altro: « Seguimi! ».

La risposta di san Matteo.
Nella parola di Gesù vi sono autorità e tenerezza insieme e l’anima di Matteo, che era retta, fu illuminata da Dio e, lasciato tutto, abbandonato ad un altro l’ufficio, seguì il Signore. Egli meritò così il nome di Matteo, che vuoi dire il donato, ma il dono di Dio avrebbe poi superato di molto il dono che egli aveva fatto di se stesso. Dio era venuto a scegliere sulla terra quanto vi era di più umile e di più disprezzato, per la funzione sociale che compiva, per farne un principe del suo popolo (Sal 112) e dargli la dignità più alta che vi sia al mondo, dopo la Maternità divina, la dignità di Apostolo!

La riconoscenza.
Matteo volle festeggiare la sua chiamata con una grande cena alla quale invitò, non soltanto il Signore e i discepoli, ma anche tutti i suoi amici pubblicani, che furono numerosi al banchetto. Gesù si prestò ad un avvicinamento, che gli permetteva di proseguire la predicazione sul peccato e sul potere che aveva di perdonarlo, ma questo era un bello scandalo per la giustizia sdegnosa e rigida dei farisei, che trattavano come peccatori tutti quelli che non vivevano come loro, e non poterono tacere il loro stupore e la loro disapprovazione.

La risposta di Gesù.
Con la semplicità e bontà che consola chi è giudicato male e nello stesso tempo illumina chi è stato troppo severo, il Signore rispose: « Non coloro che stanno bene hanno bisogno del medico, ma i malati: io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori ». Il Signore è medico, medico dei corpi e più ancora medico delle anime. Se chi è malato ricorre a lui, chi può rimproverarlo? Il medico presta la sua opera a chi lo avvicina: è cosa regolarissima. Gesù è venuto in questo mondo per guarire e restituire la salute, per guarire chi sente di aver bisogno di guarigione. Chi sta bene, o crede di star bene, non ha bisogno del medico e il Signore non è venuto per lui. Chi si crede giusto non ha bisogno delle sue misericordie ed egli si dedica ai peccatori: è venuto per invitarli a penitenza. Infelice chi crede di bastare a se stesso! » (Dom Delatte, L’Evangelo, I, 240, Mame, 1922).

L’Apostolo.
Matteo seguì il Maestro e restò per tre anni in intimità con lui, attento al suo insegnamento, testimone dei suoi miracoli e della sua Risurrezione. Dopo la Pentecoste partì, come gli altri Apostoli, per evangelizzare il mondo. Sant’Ambrogio e san Paolino da Nola parlano della sua predicazione in Persia. Pare sia morto in Etiopia donde il suo corpo sarebbe stato portato a Salerno e la chiesa cattedrale salernitana è a lui dedicata. Clemente di Alessandria lo dice di grande austerità di vita e la tradizione afferma che morì martire, per aver sostenuto i diritti della verginità consacrata a Dio.

L’Evangelista.
La Chiesa sarà sempre riconoscente a san Matteo perché scrisse per il primo, e cioè prima del 70, l’insegnamento che aveva ascoltato dalla bocca stessa del Signore e che, dopo l’Ascensione, era trasmesso oralmente.
Lo scrisse in aramaico per i Giudei già convertiti, ma anche per tutti coloro che non avevano voluto riconoscere in Gesù il Messia promesso ai padri. Egli si propose di dimostrare che il Crocifisso del Calvario era l’erede delle promesse fatte a Davide, il Messia annunziato dai Profeti, colui che era venuto a fondare il vero regno di Dio. Si rivolse anche a tutti i cristiani e anche a noi, che consideriamo il Vangelo la « buona novella per eccellenza, la sola, parlando con esattezza, che esista al mondo: l’annunzio che l’uomo, chiamato prima all’amicizia e alla vita di Dio, poi decaduto da tanta grandezza, vi era riportato dal Figlio di Dio » (Dom Delatte, L’Evangelo, I, vii).

L’umiltà.
Come piacque al Signore la tua umiltà! Ti meritò di essere oggi così grande nel regno dei cieli (Mt 18,1-4), fece di te il confidente dell’Eterna Sapienza incarnata. La Sapienza del Padre, che si allontana dai prudenti e si rivela ai piccoli (ivi 11,25), rinnovò l’anima tua con la sua divina intimità e la riempì del vino nuovo della sua celeste dottrina (ivi 1,21-23). Tu avevi compreso così bene il suo amore che ti scelse per farti il primo storico della sua vita terrestre e mortale che per mezzo tuo l’Uomo-Dio si rivelò al mondo. Insegnamento magnifico il tuo (ivi 5-8) dice la Chiesa nella Messa, raccogliendo l’eredità di colei, che non seppe comprendere né il Maestro né i Profeti che l’annunziarono!

Preghiera.
Evangelista e martire della verginità, veglia sopra la parte eletta del gregge del Signore. Non dimenticare però nessuno di quelli ai quali insegni che l’Emmanuele ebbe il nome di Salvatore (1,21-23). Tutti i redenti ti venerano e ti pregano. Per la via tracciata, per merito tuo, nell’ammirabile Discorso della Montagna, conduci noi tutti al regno dei cieli, che la tua penna ispirata così spesso ricorda.

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1096-1099    

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 20 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

The Holy Mandylion (Napkin) of Christ (Not-made-by-hands)

The Holy Mandylion (Napkin) of Christ (Not-made-by-hands) dans immagini sacre Holy%20Mandylion%202

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Publié dans:immagini sacre |on 19 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

L’IMMAGINE DI CRISTO NON OPERA DI MANO D’UOMO

 dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/immagouspensky.htm

Léonide Ouspensky

L’IMMAGINE DI CRISTO NON OPERA DI MANO D’UOMO

 Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ?N (Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].

«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)

Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”
 
Traduzione dal Francese del prof. G. M.
Palermo, agosto 2006.
…………….
[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l’image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (…) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
[7] E. Troubetskoï, Il senso della vita, Berlin, 1922, p. 228 (in russo). Virgolettato dall’autore.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA |on 19 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Lottatori e podisti nello stadio di Dio (citazione mia presa dal testo: Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti…)

non c’è la data, forse 2004, dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus06/0408je/0408je10.htm

Olimpiadi e spirito

Lottatori e podisti nello stadio di Dio

(citazione mia presa dal testo: Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti…)

di Piero Viotto 

Dal 13 al 29 agosto Atene ospita i Giochi a cinque cerchi.
È l’occasione per rileggere le lettere che san Paolo scrisse di ritorno dalla Grecia. In queste epistole, lo sforzo dell’atleta per conquistare la vittoria è paragonato al cammino del cristiano verso l’eternità. 

A guardare da spettatori il ritorno ad Atene dei campioni olimpici sembra di ritrovarsi davanti a una inutile festa profana, che esalta la forza e la bellezza del corpo in una serie di competizioni, che non hanno altro scopo che la vittoria sugli avversari per compiacersi del proprio successo. Siamo ben lontani dalle competizioni medioevali, dal palio di Siena o dalle regate venete, vissute in un clima di festa religiosa in onore dell’Assunta o di san Marco.
Ma guardando con più attenzione a questo avvenimento, con la gelida liturgia della fiaccola olimpica, che arde per tutto il tempo delle competizioni, senza alcun riferimento a valori religiosi, si può ancora scoprire un’implicita istanza religiosa nello sforzo ascetico, che ogni atleta deve fare su se stesso e nella gratuità del suo gesto sportivo, che una commercializzazione selvaggia dello spettacolo non ha ancora del tutto guastato. Anche san Paolo, come raccontano gli Atti degli apostoli, quando nei suoi viaggi giunge ad Atene nel discorso all’Areopago loda la religiosità degli ateniesi, che pur perdendosi dietro agli idoli di marmo e di bronzo, hanno riservato un altare al Dio ignoto, e annuncia loro questo Dio «che ha fatto il mondo e tutto ciò che esso contiene, che è signore del cielo e della terra… In Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto» (Atti 17,22-28).
Se l’artista, come scrive Maritain a Jean Cocteau, con le sue opere completa e arricchisce la creazione di Dio, lo sportivo la prolunga, perché è lui stesso la sua opera d’arte, perché porta al massimo della perfezione possibile, in agilità e forza, in scioltezza e vigore, il corpo umano, che è il capolavoro della creazione.
Lo sport è nato a Olimpia, dove si tenne la prima olimpiade nel 776 avanti Cristo per celebrare la gloria degli dei dell’Olimpo, ma questi dei della mitologia greca non erano che una proiezione inconscia dell’uomo, che in essi esaltava se stesso con la conseguenza di considerare il corpo un valore per se stesso, un valore assoluto, che l’arte di Fidia esaltava nella bellezza delle forme. È questa l’illusione del paganesimo, dalla quale san Paolo vuole liberare gli ateniesi, parlando della incarnazione del Figlio di Dio e della resurrezione della carne, rilevando del corpo umano, che è il tempio dello Spirito Santo, la precarietà, da cui sarà liberato solo dopo la morte, conseguenza del peccato. Ma a questo punto del discorso gli ateniesi – leggiamo negli Atti – non stettero più a sentirlo: a loro questo discorso era incomprensibile e insensato.
Per il paganesimo è impossibile accettare la precarietà della vita e l’attesa di una riuscita definitiva solo dopo la morte. San Paolo nelle sue Lettere si dimostra esperto di gare, di lotte, di corse, riconosce il valore dell’attività sportiva, come capacità di superare l’ostacolo e di vincere rispettando le regole: «Anche nelle gare atletiche non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole» (2Timoteo 2,5), ma sottolinea la precarietà dei risultati, perché anche dopo la vittoria la corsa continua («Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti», Ebrei 12,1), perché il traguardo si sposta sempre più in là, il premio ricevuto è provvisorio, ed è in gioco una salvezza che va oltre la gara. Lo evoca nella lettera ai Filippesi: «Non è che abbia già ricevuto il premio, o che sia già perfetto, ma continuo a correre per conquistare quello per il quale anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Però fratelli, non credo d’averlo ancora conseguito, ma non faccio altro che dimenticare quello che ho dietro alle spalle e slanciarmi sempre in avanti, per avvicinarmi alla mèta, al premio della suprema vocazione di Dio in Gesù Cristo» (3,12-14).
La mèta per l’apostolo non è il segno, che era posto ad Atene a metà del percorso nello stadio per la corsa dei cavalli, con una colonna al termine della spina, che divideva in due il terreno della gara; ma è il fine oltre il fine. Non è la vittoria su stessi in uno sforzo in cui compiacersi, ma la perfezione cristiana, che va oltre il successo temporaneo ed è un dono di Dio.
La teologia di san Paolo utilizza il vocabolario della lotta dei gladiatori per raccomandare al cristiano di impegnarsi nella corsa della vita, per combattere l’avversario, che è il diavolo, con strumenti adeguati, soprattutto contando sulla forza di Dio, che ha vinto il mondo.
Agli Efesini (6,13-17) scrive: «Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo avere superato tutte le prove. State dunque fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagandare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio».
Nella sua ultima lettera a Timoteo (4,6-8), accomiatandosi da questo mondo, Paolo usa ancora un linguaggio sportivo, parla di lotta e di corsa, della corona che deve ricevere in premio, del giudice di gara: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno».
Le considerazioni paoline riconoscono alla gara un valore autenticamente umano, perché nello sport non si tratta tanto di confrontarsi con un altro, quanto con se stessi, e in questo confronto bisogna rispettare le regole con lealtà, perché chi vince eludendo la regola sa di non avere vinto, anche se ha ricevuto il premio tra gli applausi della folla.
Gli avversari nella competizione non sono i nemici da abbattere, quanto i compagni di una lotta comune, l’aggressività nei loro riguardi fa parte del gioco, e la stretta di mano dopo la gara, o al termine della partita, non è solo un segno di ripacificazione ma soprattutto il riconoscimento di una vittoria, che ha permesso un traguardo su se stessi, superando l’ostacolo e coinvolgendo l’avversario.
Lo sport si presenta così come una forma di ascetismo, nella quale ciascuno è solo nella lotta contro il tempo e contro lo spazio, al termine della quale ha raggiunto un traguardo intermedio, un successo precario, perché ci si troverà di nuovo alle prossime gare per superare i risultati raggiunti. Anche la più sfolgorante vittoria passa e si resta soli con se stessi, se la speranza cristiana in un traguardo definitivo non ci viene in soccorso.
Mi sono venuti in mente questi pensieri sfogliando i cataloghi dei viaggi in Grecia di un artista, Michel Ciry, che ha fatto della solitudine non solo uno stile di vita personale, ma l’oggetto della sua rappresentazione artistica per cogliere la precarietà delle vicende di questo mondo, in una luce che illumina e inonda le rovine delle cose, che finiscono nel tempo, e consola lo spettatore, che sa guardare oltre il tempo. Michel Ciry è un artista cristiano, che in Grecia è stato più volte, ha descritto le sue emozioni in un Diario, in cui quotidianamente si confessa, che ha tratto dagli appunti disegnati sul posto ispirazione per grandi acquerelli, che sono ora in collezioni private o nei musei di tutto il mondo.
Quanto Michel Ciry scrive sulla solitudine dell’artista davanti alla sua opera, del suo impegno per migliorarsi con il suo lavoro, vale a maggior ragione per lo sportivo, perché nello sport l’atleta è direttamente impegnato a fare del suo corpo un’opera d’arte: «Bisogna dunque unire ad una certa tempra d’animo una ricerca della solitudine, che è soltanto una delle sfaccettature della pietra meravigliosa di cui Dio ci ha affidato il taglio. Eccoci orafi a levigare senza mai stancarsi questo unico gioiello, nostro unico bene, avendo la missione di rimetterlo nelle più insigni delle mani nell’ultimo giorno del nostro lavoro. Cesellato nel migliore modo possibile, per tutta la nostra vita, questo dono dev’essere ineguagliabile, perché non possiamo farne un altro. Dev’essere il nostro capolavoro, anche se non sempre è un capolavoro. È il conto che dovremo pagare al termine di un fugace momento, di cui noi dovevamo fare il migliore uso e che passa come un lampo nell’infinito dell’eternità» (Riflessioni sul mio mestiere, 1981).
Sembra di leggere un commento alle lettere paoline, perché Ciry mi ricorda che se non mi metto in dirittura d’arrivo, verso il traguardo finale, che è la vita eterna, lotto inutilmente, corro per correre in un fugace momento, batto l’aria, non raggiungo la vittoria, che sta al di là del successo immediato. Infatti la pietra preziosa che debbo coltivare e cesellare, non sono le mie opere, ma me stesso. L’atleta nello sforzo ascetico per raggiungere una buona performance, cura se stesso, si perfeziona, e non deve riposare sui risultati, perché questi sono provvisori, destinati inesorabilmente a perire come i monumenti della Grecia classica, che Ciry visita nei suoi viaggi, cogliendo tutta la precarietà della loro bellezza.
Non sono paesaggi di desolazione, non vogliono significare l’inutilità della fatica dell’uomo, dell’artista, dello sportivo, che costruisce nel tempo opere destinate alla rovina, successi provvisori, ma sono segni della precarietà dell’esistere a cui una luce, che viene da lontano, può dare un significato, che va oltre la caducità delle cose. Ciry è appassionato a questo tema della solitudine che vede in ogni albero, sempre scheletrito, spoglio di fiori e di foglie, nelle barche che si sfasciano sulla spiaggia corrotte dalla salsedine, nei ruderi dei monumenti antichi rovinati a terra.
Negli acquerelli e negli olii che l’artista dipinge, durante i suoi viaggi ad Atene, ad Eleusis, a Delos, a Patmos e in altre città e isole della Grecia, nella dolce malinconia dei paesaggi con le rovine archeologiche, si possono ritrovare questi sentimenti che l’uomo può provare nelle profondità della sua vita interiore, quando prende coscienza della precarietà dei suoi successi e ha bisogno di trovare nella contemplazione della bellezza una consolazione alla sua tristezza.
Nel grande acquerello del 1977, che rappresenta l’Acropoli di Atene, l’artista mette in primo piano le pietre rovinate a terra, frantumate, fessurate, incrinate dal tempo, ma la luce che inonda l’intera composizione significa che il passato non è tramontato, che persiste al di là delle apparenze di ciò che per natura nella vita è provvisorio, e comunica una sensazione di serenità, tanto che Michel Ciry scrive nel suo Diario: «La roccia non si fessura che al fine di lasciare scorrere l’acqua dolce di un sollievo completo» (26 agosto 1950).
L’acquerello del 1968, che illustra le rovine di Delos con il suo leone ruggente in primo piano e i resti archeologici sparpagliati del « Ginnasio » (da cui deriva il vocabolo ginnastica), dove i giovani praticavano lo sport e facevano gli allenamenti per le olimpiadi, sottolinea la fierezza dell’atleta pur nella solitudine della sua impresa, che ha avuto un successo e un applauso, che sono passeggeri.
Anche l’acquerello dedicato alle regate nella baia di Eleusis veicola questa sensazione della precarietà delle vicende umane, questo sentimento della solitudine di un uomo che lotta contro il mare scuro, utilizzando il soffio del vento, ma in un cielo pieno di luce.
Michel Ciry nei suoi viaggi in Grecia non poteva mancare di visitare le Meteore, i rilievi rocciosi a strapiombo della Tessaglia, dove i monaci per sfuggire alle invasioni dei turchi si sono rifugiati e hanno costruito monasteri inaccessibili, decorandoli con affreschi in stile bizantino.
L’acquerello del 1973 rappresenta queste ripide montagne in un gelido inverno, icona che sottolinea l’ascetismo di questi atleti dello spirito appollaiati sulle sommità dei rilievi, non solo per sfuggire alla furia degli eventi umani, ma anche per essere più vicino al loro Dio, termine ultimo della corsa.
Vertice conclusivo di questa ricerca pittorica di Michel Ciry non poteva essere che la rappresentazione di San Giovanni a Patmos, là dove l’evangelista ha ricevuto la visione della Gerusalemme celeste, della vittoria definitiva della Donna sul dragone, del premio per tutti quelli che hanno lottato contro il maligno. L’artista è tornato più volte su questo tema che l’affascina, la tavola ad olio del 1973 è tra le più belle. L’evangelista seduto tra le rovine, solo di fronte alla sua missione, lo sguardo sull’infinito, la penna in mano, il foglio è ancora bianco, è in tensione per ascoltare la parola di Dio. La luce lo illumina, i colori della sabbia e dei marmi lo circondano, all’orizzonte, dietro le spalle, una sottile striscia azzurra ricorda il mare, un tempo tempestoso, delle vicende umane.
I paesaggi che Michel Ciry ha disegnato durante i suoi viaggi in Grecia ci aiutano a comprendere le lettere che san Paolo scriveva alle prime comunità cristiane nei suoi viaggi ad Atene, a Corinto a Tessalonica, a Filippi; immagini e parole che sono un invito a guardare, con partecipazione e con distacco, alle competizioni olimpiche che quest’anno si svolgono in Grecia; gare che sono un segno e un simbolo della lotta che ciascuno deve intraprendere da solo per superare i traguardi della vita in vista del risultato finale, che è oltre le vicende della storia, ma che dipende dalle vicende della storia.
San Paolo ce lo ricorda nella prima lettera ai Corinzi (12,24-27): «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Per questo ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi, invece, una incorruttibile. Io, dunque, corro, ma non come colui che è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come uno che batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù, perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga squalificato».

Piero Viotto

Stimmate di San Francesco

Stimmate di San Francesco dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 17 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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