Archive pour septembre, 2011

Paolo un Apostolo a tre facce (Romano Penna)

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=125222

Paolo un Apostolo a tre facce

(Romano Penna)

Paolo ha cominciato a scrivere per necessità dopo la conversione e così è passato alla storia grazie a epistole giustamente famose: la letteratura cristiana comincia con lui!
Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore. Non vi era predisposto già nel senso materiale del saper impugnare un calamo (visto che i suoi scarsi interventi di questo genere. stando a quanto leggiamo in Gal 6, 11, dovevano essere poco eleganti), ma neanche quanto all’orgoglio e al piacere di saper stendere un qualsivoglia testo magari per dettatura a uno scrivano, come di solito avveniva (visto che in 2Cor 11, 6, per quanto si debba qui tener conto di un atto di modestia, si professa inesperto nella parola). Un terzo modo di scrivere una lettera consisteva nell’affidare a un segretario o amanuense di fiducia il pensiero da svolgere, lasciando a lui la stesura effettiva del testo; ma prima della sua «conversione» Paolo non aveva comunque nessun motivo per redigere un qualsiasi testo scritto.
 Infatti, l’educazione farisaica che aveva ricevuto a Gerusalemme ai piedi di Gamaliele, come dimostrerà per lungo tempo la tradizione delle scuole rabbiniche (almeno fino al 200 d. C.), consisteva essenzialmente nel saper leggere i testi classici delle Scritture di Israele e nell’arte di spiegarli a viva voce, non nello scrivere. E invece egli passò alla storia, oltre che come infaticabile apostolo, cioè come evangelizzatore itinerante, anche o almeno altrettanto come autore di un certo numero di lettere, diventate giustamente famose. Anzi, dal I secolo in cui egli è vissuto, se prescindiamo da alcuni brevi e interessantissimi testi epistolari su papiro originale di provenienza popolare, di fatto sono giunte fino a noi soltanto le lettere di Seneca in latino e le sue in greco. In più, come riconosce oggi qualche studioso ebreo, i suoi sono anche gli unici scritti di un fariseo vissuto nel secolo I dell’era volgare! Bisogna però precisare che i suoi scritti sono produzioni della fase cristiana della sua vita, ed è come dire che senza l’evento della strada di Damasco Paolo probabilmente non avrebbe mai impugnato la penna o dettato un testo. Non che l’essere cristiano sia per natura collegato a un’attività scrittoria. E stata piuttosto l’occasione a fare di lui uno scrittore. Con ogni probabilità egli non si sarebbe mai impegnato su questo fronte, se non gli si fosse ripetutamente presentata la necessità di intervenire nelle situazioni delle varie Chiese, a seconda delle questioni di vita che in esse prendevano corpo. È stato scrittore per necessità, mosso da un forte senso di responsabilità pastorale. E per fortuna, poiché altrimenti non avremmo conosciuto il suo pensiero, la sua autentica e personalissima ermeneutica dell’evangelo, visto che quanto ne sappiamo dai soli Atti lucani è assolutamente poca cosa e soprattutto non corrisponde in pieno a come egli si esprime in prima persona nelle sue lettere. In aggiunta occorre anche riconoscere (Paolo è l’uomo di vari primati) che i suoi sono i primi scritti in assoluto nella storia del cristianesimo: la letteratura cristiana comincia appunto con lui! Le lettere odierne, comprese le e-mail (del tutto diverso è il sistema dei telegrammi e degli Sms), seguono uno schema che non corrisponde alle lettere antiche. Quelle, invece di recare la firma del mittente in fondo al testo epistolare, lo esponevano fin da principio addirittura come prima parola. Solo al secondo posto veniva il nome del destinatario.
Seguiva poi subito una formula di saluto, che veniva ripresa con variazioni alla fine dello scritto. Tra le lettere antiche giunte fino a noi ci sono anche quelle di Paolo di Tarso. A parte quelle che probabilmente sono andate perdute (forse un paio: cf. 1Cor 5, 9; 2Cor 2, 4?), 13 portano il suo nome, ma con ogni probabilità solo 7 vanno fatte risalire direttamente a lui (in probabile ordine cronologico: 1Ts, 1-2Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), mentre le altre 6, per ragioni letterarie, teologiche e storiche, vanno attribuite a discepoli posteriori secondo il diffuso fenomeno della pseudepigrafia. La media della loro lunghezza supera ampiamente quella di tutte le altre lettere antiche. Secondo un computo attendibile, si può confrontare il caso di Paolo con altri due gruppi di lettere: il gruppo maggiore è quello delle lettere private, circa 14 mila, che vanno da un minimo di 18 parole a un massimo di 209, e in media ne contengono 87; le lettere degli scrittori professionali variano: quelle di Cicerone hanno un minimo di 22 parole e un massimo di 2530, con una media di 295; quelle di Seneca vanno da 149 a 4134, con una media di 995. Le lettere di Paolo, invece, contengono un minimo di 335 parole (a Filemone) e un massimo di 7094 (ai Romani), con una media di 2495. Già su questa base dobbiamo essere cauti nell’accogliere una celebre distinzione dello studioso tedesco dell’inizio del secolo XX, Deissmann, che distingueva tra «lettera» ed «epistola». La prima, di stile non letterario, sarebbe di natura intima e personale, un pezzo di vita, espressione del solo rapporto esistente tra mittente e destinatario, estranea all’interesse del grande pubblico. La seconda, invece, sarebbe una forma d’arte, un prodotto convenzionale appositamente costruito, e il suo contenuto terrebbe conto del grande pubblico a cui si rivolge: «Se la lettera è un segreto, l’epistola è una merce da mercato, chiunque può e deve leggerla». Ebbene, Deissmann riteneva che quelle del nostro Apostolo non fossero epistole ma lettere. Ma Paolo non può essere confinato nell’ambito del privato! È vero che nelle sue lettere si riflette esattamente il suo genuino carattere impulsivo, generoso, forte e tenero insieme.
Niente di burocratico. Tutt’altro. Egli però sa di scrivere con un’autorità che è solo sua e che gli deriva sia da Cristo stesso sia dalla sua responsabilità di fondatore e guida delle varie Chiese. L’immediatezza della scrittura di Paolo rispecchia esattamente la sua vitalità scevra da affettazioni e ricercatezze. Una questione a parte riguarda la discussa dipendenza di Paolo dalle regole della retorica antica, intesa come «arte del parlare bene». A Tarso, senza escludere Gerusalemme, egli deve aver imparato almeno i rudimenti del ben parlare. Ed è fuor di dubbio che egli utilizzi a più riprese molte delle cosiddette figure retoriche. Più discutibile è l’eventualità che egli abbia elaborato il suo discorso seguendo le norme della «dispositio» retorica. Questa era abituale nei discorsi orali pronunciati fondamentalmente in tre occasioni: nelle assemblee deliberative, in quelle giudiziarie e in quelle celebrative, che davano origine ai tre generi già codificati da Aristotele. In questi casi il discorso era strutturato di norma in 4 parti: l’«exordium», che introduceva l’argomento eventualmente mediante una «narratio» o esposizione del caso; la «propositio» o enunciazione programmatica del tema; la «argumentatio» o dimostrazione dell’assunto eventualmente con una «refutatio» delle tesi contrarie; la «peroratio», che riprendeva l’argomento portandolo alla conclusione. Tutto il problema sta nel sapere se anche una composizione epistolare doveva sottostare a questa disposizione.
Pur non potendolo escludere per principio, dato che per esempio il testo di Rm 1, 16-17 gioca abbastanza chiaramente il ruolo di una «propositio», non risulta che i teorici della retorica abbiano mai applicato le loro regole all’epistolografia. Come ben si esprime uno studio recentissimo, «i due generi possono essere stati fidanzati, ma coniugati non lo furono mai». Per studiare le lettere di Paolo, perciò, non bisogna applicare loro la griglia angusta e soffocante del cosiddetto «rhetorical criticism», come alcuni hanno fatto, ma attenersi piuttosto allo studio dell’effettiva argomentazione seguita effettivamente dall’Apostolo. È la sua retorica letteraria che va individuata, cioè il suo modo proprio di persuadere i lettori.

(Teologo Borèl) Luglio 2009 – autore: Romano Penna

Saint Paul preaching

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Saint Paul preaching – Like Jesus and James, Paul identifies the love of neighbor as the perfect summation of God’s commandments, because ‘love does no harm to the neighbor.’ (Rom. 13:8-10).

http://frted.wordpress.com/2010/07/18/the-church-as-gods-community/

Publié dans:immagini sacre |on 3 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Fr. Raniero Cantalamessa, ofmcap : La carità sia senza finzione

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=410
 
Fr. Raniero Cantalamessa, ofmcap
 
La carità sia senza finzione

2011-04-08- Terza Predica di Avvento

1. Amerai il prossimo tuo come te stesso
È stato notato un fenomeno curioso. Il fiume Giordano, nel suo corso, forma due mari: il mare di Galilea e il mar Morto, ma mentre il mare di Galilea è un mare brulicante di vita e tra le acque più pescose della terra, il mar Morto è, appunto un mare “morto”, non c’è traccia di vita in esso e intorno ad esso, solo salsedine. Eppure si tratta della stessa acqua del Giordano. La spiegazione, almeno in parte, è questa: il mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma non le trattiene per se, le fa defluire in modo che esse possano irrigare tutta la valle del Giordano. Il mar Morto riceve le acque del Giordano e le trattiene per se, non ha emissari, da esso non esce una goccia d’acqua. È un simbolo. Non possiamo limitarci a ricevere amore, dobbiamo anche donarlo. È su questo che vogliamo riflettere in questa meditazione. L’acqua che Gesù ci da, deve diventare in noi “fontana che zampilla” (Gv 4, 14).
Dopo aver riflettuto nelle prime due meditazioni sull’amore di Dio come dono, è venuto il momento di meditare anche sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso in maniera programmatica dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè (Lev 19,18) e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”? La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.
È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero (il Samaritano!), anche il nemico. È vero che la seconda parte della frase “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” non si trova alla lettera nell’Antico Testamento, ma essa ne riassume l’orientamento generale, espresso nella legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” (Lev 24,20), soprattutto se messo in confronto con ciò che Gesù esige dai suoi:
“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani?  E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).
È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo. Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno.
È cambiato soprattutto il criterio o la misura dell’amore del prossimo. Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie[1].
E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri “come se stesso” e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre. Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).
Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita. E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo. Nuovo – spiega il papa in un capitolo del suo nuovo libro su Gesù – perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito.[2]
Con Gesù si passa dal rapporto a due: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”, al rapporto a tre: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo all’altro”, o, partendo dalla direzione opposta: “Quello che tu avrai fatto con l’altro, è quello che Dio farà con te”. Non si contano le parole di Gesù e degli apostoli che ripetono questo concetto: “Come Dio ha perdonato voi, così perdonatevi gli uni gli altri”: “Se non perdonerete di cuore ai vostri nemici, neppure il padre vostro perdonerà a voi”. È tagliata alla radice la scusa: “Ma lui non mi ama, mi offende…”. Questo riguarda lui, non te. A te deve interessare solo quello che fai all’altro e come ti comporti di fronte a quello che l’altro fa a te.
Resta però da rispondere alla domanda principale: perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio al prossimo? Non sarebbe più logico aspettarsi: “Come io ho amato voi, così voi amate me”?, anziché: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”? Qui sta la differenza tra l’amore puramente di eros e l’amore di eros e agape insieme. L’amore puramente erotico è a circuito chiuso: “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”: così canta Violetta nella Traviata di Verdi: io amo te, tu ami me. L’amore di agape è a circuito aperto: viene da Dio e torna a lui, ma passando per il prossimo. Gesù ha inaugurato lui stesso questo nuovo genere di amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9).
Santa Caterina da Siena ha dato, del motivo di ciò, la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:
“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi. Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l’amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito. Voi non potete dunque rendere a me l’amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”[3].
2. Amatevi di vero cuore
Dopo queste riflessioni generali sul comandamento dell’amore del prossimo, è venuto il momento di parlare delle qualità che deve rivestire questo amore. Esse sono fondamentalmente due: deve essere un amore sincero e un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani. Questa volta ci soffermiamo sulla prima qualità e lo facciamo lasciandoci guidare dal grande cantore della carità che è Paolo.
La seconda parte della Lettera ai Romani è tutto un susseguirsi di raccomandazioni circa l’amore vicendevole all’interno della comunità cristiana: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda…” (Rm 12, 9 ss). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!” Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Cerchiamo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito, tale segreto.
Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Corinzi 6, 6 e in 1 Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.
San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Come il vino, per essere “sincero”, deve essere spremuto dall’uva, così l’amore dal cuore. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa, ciò che è puro, o impuro, nella vita di una persona (Mt 15, 19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Corinzi 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera… Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità, dicendo che il più grande atto di carità esteriore – il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze – non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13, 3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.
Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità (lo vedremo, dicevo, la prossima volta), quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che l’amore sia la radice e il fondamento di tutto.
Amare sinceramente significa amare a questa profondità, là dove non puoi più mentire, perché sei solo davanti a te stesso, solo davanti allo specchio della tua coscienza, sotto lo sguardo di Dio. “Ama il fratello –scrive Agostino – colui che, davanti a Dio, là dove egli solo vede, rassicura il suo cuore e si chiede nell’intimo se veramente agisce così per amore del fratello; e quell’occhio che penetra nel cuore, là dove l’uomo non può giungere, gli rende testimonianza”[4]. Era amore sincero perciò quello di Paolo per gli ebrei se poteva dire: “Dico la verità in Cristo, non mento; poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Rom 9,1-3).
Per essere genuina, la carità cristiana deve, dunque, partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle “viscere di misericordia” (Col 3, 12). Tuttavia, dobbiamo subito precisare che qui si tratta di qualcosa di molto più radicale della semplice “interiorizzazione”, cioè di uno spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore. Questo è solo il primo passo. L’interiorizzazione approda alla divinizzazione! Il cristiano – diceva san Pietro – è colui che ama “di vero cuore”: ma con quale cuore? Con “il cuore nuovo e lo Spirito nuovo” ricevuto nel battesimo!
Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio. Avviene come per la consolazione che altro non è se non una modalità dell’amore: “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 4). Noi consoliamo con la consolazione con cui siamo consolati da Dio, amiamo con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso. Questo spiega la risonanza, apparentemente sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino nascosto, la speranza e la luce che crea all’intorno.
3. La carità edifica
Quando si parla della carità negli scritti apostolici, non se ne parla mai in astratto, in modo generico. Lo sfondo è sempre l’edificazione della comunità cristiana. In altre parole, il primo ambito di esercizio della carità deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane. Così deve avvenire anche oggi, in particolare nel cuore della Chiesa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con il Sommo Pontefice.
Per un certo tempo, nell’antichità, si usò designare con il termine carità, agape, non solo il pasto fraterno che i cristiani prendevano insieme, ma anche l’intera Chiesa[5]. Il martire sant’Ignazio di Antiochia saluta la Chiesa di Roma come quella che “che presiede alla carità (agape)”, cioè alla “fraternità cristiana”, all’insieme di tutte le chiese[6]. Questa frase non afferma solo il fatto del primato di Roma, ma anche la sua natura, o il modo di esercitarlo: cioè nella carità. La frase si può tradurre in due modi: la chiesa romana “presiede alla carità”, o “presiede nella carità”, con carità.
La Chiesa ha urgente bisogno di una vampata di carità che risani le sue fratture. In un suo discorso Paolo VI diceva: “La Chiesa ha bisogno di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” [7]. Solo l’amore guarisce. È l’olio del samaritano. Olio anche perché deve galleggiare al di sopra di tutto come fa l’olio rispetto ai liquidi. “Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Al di sopra di tutto, super omnia! Dunque anche della fede e della speranza, della disciplina, dell’autorità, anche se, evidentemente, la stessa disciplina e autorità può essere un’espressione della carità.
Un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci. Paolo scriveva ai Romani: “Perché giudichi il tuo fratello? Perché disprezzi il tuo fratello?… Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri” (Rm 14, 10.13). Prima di lui Gesù aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Paragona il peccato del prossimo (il peccato giudicato), qualunque esso sia, a una pagliuzza, in confronto al peccato di colui che giudica (il peccato di giudicare) che è una trave. La trave è il fatto stesso di giudicare, tanto esso è grave agli occhi di Dio.
Il discorso sui giudizi è certamente delicato e complesso e non si può lasciare a metà, senza che appaia subito poco realistico. Come si fa, infatti, a vivere del tutto senza giudicare? Il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare. Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, come è il caso di molti qui in Curia, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a prestare alla società o alla Chiesa.
Difatti, non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna. Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello.
Un altro punto qualificante della carità sincera è la stima: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Per stimare il fratello, bisogna non stimare troppo se stessi, non essere sempre sicuri di sé; bisogna – dice l’Apostolo – “non farsi un’idea troppo alta di se stessi” (Rm 12, 3). Chi ha un’idea troppo alta di se stesso è come un uomo che, di notte, tiene davanti agli occhi una fonte di luce intensa: non riesce a vedere nient’altro al di là di essa; non riesce a vedere le luci dei fratelli, i loro pregi e i loro valori.
“Minimizzare” deve diventare il nostro verbo preferito, nei rapporti con gli altri: minimizzare i nostri pregi e i difetti altrui. Non minimizzare i nostri difetti e i pregi altrui, come, invece, siamo portati a fare spesso, che è la cosa diametralmente opposta! C’è una favola di Esopo al riguardo; nella rielaborazione che ne fa La Fontaine suona così:
“Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell’altra mette i suoi”[8].
Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella di dietro. San Giacomo ammonisce: “Non sparlate gli uni degli altri” (Gc 4,11). Il pettegolezzo oggi ha cambiato nome, si chiama gossip. Sembra diventato una cosa innocente, invece è una delle cose che più inquinano il vivere insieme. Non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo. Che aria diversa si respira in un ambiente quando si prende sul serio l’ammonizione di san Giacomo! In molti locali pubblici una volta c’era la scritta: “Qui non si fuma”, o anche “Qui non si bestemmia”. Non sarebbe male sostituirle in alcuni casi con la scritta: “Qui non si fa pettegolezzo!”
Terminiamo ascoltando come rivolta a noi l’esortazione dell’Apostolo alla comunità di Filippi: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.  Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.  Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 2-5).

NOTE

[1] Cf. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Milano, Rusconi, 1983, p. 163.
[2] J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 76 s.
[3] S. Caterina da Siena, Dialogo 64.
[4] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 6,2 (PL 35, 2020).
[5] Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, p. 8
[6] S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, saluto iniziale.
[7] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
[8] J. de La Fontaine, Favole, I, 7

Publié dans:PADRE CANTALAMESSA - OMELIE |on 3 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia 4 settembre 2011 sulla seconda lettura Rm 13,10b

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/4881.html

Omelia (04-09-2005)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Pieno compimento della legge è l’amore.

Come vivere questa Parola?
Alla luce di questa frase di S.Paolo si illuminano le altre due letture che parlano della correzione fraterna. È facile cogliere la « pagliuzza nell’occhio del fratello e puntare il dito. Più arduo è avvicinarlo con carità e ammonirlo perché si corregga. Ma forse ancora più trascurato è il punto di partenza. Per il cristiano non c’è che una norma, una rotta da seguire: l’amore. La trave da rimuovere per vederci bene è il « non-amore », il giudizio freddo, spietato. Solo chi ama riesce a « leggere » oltre, a cogliere al di là dello sbaglio (che talvolta è solo un modo diverso dal nostro di considerare le cose!) la persona con il suo groviglio di bene e di fragilità. Dietro ogni caduta c’è un fratello, probabilmente umiliato dal suo stesso errore, e comunque un fratello da amare. Le sue ferite sono un richiamo, perché io divenga per lui il « buon samaritano ». Da notare: non il « giusto » fariseo che si sente sull’altra sponda, ma il « samaritano », cioè lo scismatico l’eretico il peccatore tanto bisognoso di perdono. Se non sono in grado di riconoscermi peccatore, se non riesco a scorgere l’Amore misericordioso chino su di me a lavare le mie piaghe, non comprenderò mai l’intimo dramma di chi mi vive accanto e come me lotta per migliorarsi. Non sarò in grado di illuminarlo, perché la luce è Cristo ed io posso riverberarla solo se lascio cadere le pesanti coltri che occultano la mia miseria e ostacolano il suo effondersi in me. Amare. Amare intensamente. Amare con il nostro cuore di carne illimpidisce lo sguardo e scioglie il gelo dell’incomprensione che blocca l’altro, irrigidendolo nel suo sbaglio.
Oggi, nella mia pausa contemplativa, lascerò che l’Amore scorra liberamente in me, rimuovendo le incrostazioni del peccato che rendono il mio cuore duro, incapace di misericordia. Invocherò poi lo Spirito, perché mi doni il coraggio dell’umile correzione fraterna.
Ti rendo lode, Signore, per l’infinita misericordia con cui quotidianamente mi rinnovi. Plasma in me un cuore capace di riversare sugli altri il balsamo del tuo amore, perché la mia parola sia sempre una parola che rilancia nella via del bene, ridona fiducia e speranza.

La voce della fondatrice di « Nuovi Orizzonti »
Solo l’Amore può distruggere l’angoscia di cuori impietriti dall’odio e dalla violenza. Solo l’Amore può ridare speranza a chi, colpito dalle terribili sferzate della vita, giace prostrato nella disperazione. Solo l’Amore può far germogliare la GIOIA DI VIVERE nei deserti dell’umanità!!!
Chiara Amirante

Omelia (04-09-2011): Omelia (04-09-2011)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23351.html

Omelia (04-09-2011)

don Alberto Brignoli

Amare fa sempre del bene

Credo che per comprendere meglio il senso del brano di Vangelo di quest’oggi (e in generale del tema delle letture) sia utile « ribaltarne » la lettura. Se lo leggiamo così come ci viene proposto nella redazione finale dell’evangelista, ci appare immediatamente come un « andare di male in peggio ». C’è una situazione iniziale di difficoltà (un comportamento sbagliato da parte di un membro della comunità) che si cerca di risolvere prima con il dialogo personale, poi attraverso un confronto con altre persone, poi – ipotizzando che le cose non si riescano a risolvere – parlandone in forma comunitaria e alla fine, di fronte ad un’eventuale reiterata situazione d’incomprensione e di fallita riconciliazione, si giunge all’esclusione del membro dalla comunità (una sorta di scomunica). Letto così, il brano non riempie certo di speranza e di serenità, pensando a situazioni di conflitto che hanno necessità di essere risanate?
Ma proviamo a rileggere il brano partendo dal fondo, ovvero dalla fiduciosa presa di coscienza che dove un gruppo di credenti in Cristo (una comunità) si riunisce nella ricerca del bene comune, nella preghiera, nel faticoso ma esaltante lavoro di intessere relazioni vere tra gli uomini, il Signore è in mezzo a loro, e che quindi ogni sforzo non può che andare a buon fine. La prospettiva cambia radicalmente.
È un conto dire:  » Cerchiamo di eliminare le cose che vanno male in una comunità, facendo lo sforzo di far ravvedere le persone che si comportano male, forti del fatto che il Signore è con noi », ed è un altro conto dire: « Il Signore è in mezzo a noi, perché ci sforziamo, pregando insieme, di creare relazioni, di aiutare chi cammina con fatica a riavvicinarsi alla comunità, coscienti anche del fatto che qualcuno non accetterà di essere accompagnato in questo sforzo ».
Nel primo caso, c’è quasi un intento giustizialista, di chi fa di tutto (mosso da buona fede, s’intende) per rimuovere il male che c’è dentro e intorno ad una comunità; nel secondo caso – e permettetemi di avere la presunzione di pensare che sia l’atteggiamento di Gesù – c’è una sola legge, quella dell’amore (nella quale « si ricapitola ogni comandamento », per dirla con Paolo), che viene dall’essere discepoli del Signore, che si avvicina a ogni uomo con il solo intento di farlo sentire, nonostante tutto, figlio di Dio.
Non saprei dire (perché non sono uno storico) se lungo i secoli questo brano di Vangelo sia stato utilizzato per giustificare teologicamente la costituzione di tribunali ecclesiastici volti a far ravvedere i fratelli che si trovano in situazioni irregolari, pena l’allontanamento dalla Chiesa, ossia la scomunica. Quello che mi sentirei di dire è che – se fosse davvero così – non si è colto lo spirito di profonda misericordia e di amore che c’è dietro queste parole di Gesù.
Egli non è venuto a condannare, ma a perdonare e salvare. Se quindi nemmeno lui (pur avendone il diritto) si è permesso di giudicare e di condannare i peccatori, ma solo di aiutarli a ritrovare se stessi e il loro rapporto con Dio, come possiamo noi, uomini e discepoli suoi, arrogarci questo diritto? In nome di chi e di che cosa ci permettiamo di dire a una persona « Tu sei fuori dalla comunità », senza aver prima fatto con lei un percorso di ascolto e di accompagnamento teso ad ascoltare e capire i drammi che spesso si nascondono dietro a un comportamento sbagliato? In nome di chi e di che cosa abbiamo la presunzione di creare categorie di persone distinguendo tra « i nostri » e « gli altri », sulla base di atteggiamenti apparentemente buoni e cattivi? In nome di chi e di che cosa « scomunichiamo » una persona « ipso facto », senza averle dato la possibilità non tanto di ravvedersi (può anche decidere di non farlo, lo dice il vangelo stesso di oggi!), quanto anche solo di dare delle spiegazioni ai propri comportamenti?
Parlo da uomo « di Chiesa », ossia appartenente al ministero istituito attraverso il sacerdozio ordinato: quante sentenze emettiamo sui comportamenti delle persone senza neppure aver parlato con loro! E non parlo di cose in grande stile, di « scomuniche » ufficiali della Chiesa: dietro a quelle, ci auguriamo tutti che ci sia sempre un iter e un criterio di giudizio più evangelico che canonico o giuridico. Mi riferisco invece alle tante piccole scomuniche della vita comunitaria di ogni giorno. Quante volte eliminiamo da una comunità, da un gruppo parrocchiale, da un movimento, da un cammino le persone che ci danno fastidio, che la pensano diversamente da noi, che si comportano male, e magari lo fanno come reazione a nostri precedenti comportamenti incorretti!
E quanto poco, invece, ci preoccupiamo di ritrovarci insieme a pregare su un problema o su un atteggiamento scorretto; quante poche opportunità creiamo per trovarci a riflettere e meditare tra persone di diversi credi religiosi, di diversa impostazione ecclesiale, o anche solo di modi diversi di pensare all’interno della stessa parrocchia; quanto poco pensiamo alle nostre azioni qui sulla terra come anticipo di ciò che avverrà nella Chiesa celeste a cui tutti siamo chiamati, e la cui unica legge è quella dell’amore (ecco il senso di « tutto quello che legherete e ciò che scioglierete sulla terra ?sarà legato e sciolto in cielo »).
E soprattutto, quanto poco dialogo tra di noi, particolarmente quando ce n’è più bisogno, ovvero quando non ci si intende, non ci si comprende, e quindi si entra in conflitto, si litiga, ci si arrabbia, e poi si commettono errori e ingiustizie! Non è quando si va d’accordo che c’è bisogno di dialogo (già si va d’accordo, va da sé?), ma quando si fa difficoltà a stare bene gli uni con gli altri.
E cercare di ricreare relazioni giuste tra noi uomini e tra noi e il nostro Dio, non è un’opzione tra le tante: è un imperativo categorico! Se non lo facciamo, Dio ce ne chiederà conto, come ci dice Ezechiele nella prima lettura: « ?il malvagio morirà per la sua iniquità; ma della sua morte io domanderò conto a te ».
Io non ci sto, a scomunicare e condannare: anche solo per non sentirmi dire da Dio, un giorno, che sono responsabile della rovina della fede e della vita di un fratello. Ma soprattutto, vorrei che Gesù mi insegnasse, giorno dopo giorno, ciò che Paolo ci ha meravigliosamente detto oggi: « La carità non fa alcun male al prossimo ».

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 3 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

DOMENICA 4 SETTEMBRE 2011 – XXIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A23page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  Rm 13, 8-10
Pienezza della Legge è la carità.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità
.

http://www.bible-service.net/site/1181.htmlMatteo 7,12

Romains 13,8-10
Le mot « dette » vient du verset précédant cette lecture. « Rendez à chacun ce qui lui est dû », en particulier dans le domaine des exigences civiques (impôts, etc.). Mais, dit Paul, l’essentiel, qui est alors une dette inextinguible, se trouve non pas dans le domaine des biens, mais dans celui des relations : c’est la charité.
Ainsi que le Christ lui-même l’avait fait, Paul rappelle ici l’enseignement devenu traditionnel sur l’amour du prochain comme accomplissement de la Loi : « Ne faites pas de mal ; tout ce que vous voulez qu’on vous fasse, faites-le vous aussi aux autres » (Matthieu 7,12), etc. De cet amour du prochain, l’amour des ennemis est un signe, un test : « L’amour ne fait rien de mal au prochain », pas même à l’ennemi (Matthieu 5,43-48). Agir ainsi c’est être vraiment fils du même Père qui aime tous les hommes. L’amour du prochain est l’accomplissement de la Loi.

Romani 13,8-10 La parola “debito„ viene dal versetto che precede questa lettura. “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto„, in particolare nel settore delle esigenze civiche (imposte, ecc.). Ma, dice Paolo, l’essenziale, che è allora, un debito inestinguibile, si trova non nel settore dei beni, ma in quello delle relazioni: è la carità. Come aveva fatto Cristo, Paolo ricorda qui l’insegnamento diventato tradizionale sull’amore del prossimo come compimento della legge: “Fatte non un male; tutto ciò che volete che vi facciano, fatti anche agli altri„ (Matthieu 7,12)*, ecc. di quest’amore del prossimo, l’amore dei nemici è un segno, una prova: “L’amore non fa nulla di male al prossimo„, (non)  anche al nemico (Matthieu 5,43-48)*. Agire così è essere realmente figlio dello stesso padre che ama tutti gli uomini. L’amore del prossimo è il compimento della legge.
…………….
(Mt 7,12): Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
(Mt 5, 43-48): 43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Discorso sulle beatitudini» di san Leone Magno, papa
(Disc. 95, 6-8; PL 54, 464-465)

La sapienza cristiana
Il Signore dice: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). Questa fame non ha nulla a che vedere con la fama corporale e questa sete non chiede una bevanda terrena, ma desidera di avere la sua soddisfazione nel bene della giustizia. Vuole essere introdotta nel segreto di tutti i beni occulti e brama di riempirsi dello stesso Signore.
Beata l’anima che aspira a questo cibo e arde di desiderio per questa bevanda. Non lo ambirebbe certo se non ne avesse già per nulla assaporato la dolcezza. Ha udito il Signore che diceva: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33, 9). Ha ricevuto una parcella della dolcezza celeste. Si è sentita bruciata dell’amore della castissima voluttà, tanto che, disprezzando tutte le cose temporali, si è accesa interamente del desiderio di mangiare e bere la giustizia. Ha imparato la verità di quel primo comandamento che dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6, 5; cfr. Mt 22, 37; Mc 12, 30; Lc 10, 27). Infatti amare Dio non è altro che amare la giustizia. Ma come all’amore di Dio si associa la sollecitudine per il prossimo, così al desiderio della giustizia si unisce la virtù della misericordia. Perciò il Signore dice: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).
Riconosci, o cristiano, la sublimità della tua sapienza e comprendi con quali dottrine e metodi vi arrivi e a quali ricompense sei chiamato! Colui che è misericordia vuole che tu sia misericordioso, e colui che è giustizia vuole che tu sia giusto, perché il Creatore brilli nella sua creatura e l’immagine di Dio risplenda, come riflessa nello specchio del cuore umano, modellato secondo la forma del modello. La fede di chi veramente la pratica non teme pericoli. Se così farai, i tuoi desideri si adempiranno e possiederai per sempre quei beni che ami.
E poiché tutto diverrà per te puro, grazie all’elemosina, giungerai anche a quella beatitudine che viene promessa subito dopo dal Signore con queste parole: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).
Grande, fratelli, è la felicità di colui per il quale è preparato un premio così straordinario. Che significa dunque avere il cuore puro, se non attendere al conseguimento di quelle virtù sopra accennate? Quale mente potrebbe afferrare, quale lingua potrebbe esprimere l’immensa felicità di vedere Dio?
E tuttavia a questa meta giungerà la nostra natura umana, quando sarà trasformata: vedrà, cioè, la divinità in se stessa, non più «come in uno specchio, né in maniera confusa, ma a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), così come nessun uomo ha mai potuto vedere. Conseguirà nella gioia ineffabile dell’eterna contemplazione «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo» (1 Cor 2, 9).

11 ottobre : Sant’Abramo: Firenze – Basilica della Santissima Annunziata

11 ottobre : Sant'Abramo: Firenze - Basilica della Santissima Annunziata dans immagini sacre abramo_battistero

http://www.santegidio.org/index.php?pageID=3&id=3133&idLng=1062&res=1&appuntamenti

Publié dans:immagini sacre |on 2 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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