La gloria di Dio illumina la Gerusalemme celeste e la sua lampada è l’Agnello (Gv 21, 23)

dal sito:
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 19 maggio 1999
Il dialogo con le grandi religioni mondiali
(discorso di San Paolo ad Atene)
1. Il libro degli Atti degli Apostoli riporta un discorso di san Paolo agli Ateniesi, che si rivela di grande attualità per l’areopago del pluralismo religioso del nostro tempo. Per presentare il Dio di Gesù Cristo, Paolo prende le mosse dalla religiosità dei suoi ascoltatori, con parole di apprezzamento: “Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto; ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (At 17, 22-23).
Nel mio pellegrinaggio spirituale e pastorale attraverso il mondo di oggi ho espresso ripetutamente la stima della Chiesa verso “quanto è vero e santo” nelle religioni dei popoli. Ho aggiunto, sulla scorta del Concilio, che la verità cristiana serve a far “progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi” (Nostra Aetate, 2). La paternità universale di Dio, manifestatasi in Gesù Cristo, spinge al dialogo anche con le religioni al di fuori del ceppo abramitico. Tale dialogo si configura ricco di stimoli e sfide se si pensa, per esempio, alle culture asiatiche, profondamente penetrate dallo spirito religioso, oppure alle religioni tradizionali africane che costituiscono per tanti popoli una fonte di sapienza e di vita.
2. Alla base dell’incontro della Chiesa con le religioni mondiali vi è il discernimento del loro specifico carattere, ossia del modo con cui esse si avvicinano al mistero di Dio Salvatore, Realtà definitiva della vita umana. Ogni religione infatti si presenta come una ricerca di salvezza e propone itinerari per giungere ad essa (cfr CCC, 843). Presupposto del dialogo è la certezza che l’uomo, creato ad immagine di Dio, è anche “luogo” privilegiato della sua presenza salvifica.
La preghiera, come riconoscimento adorante di Dio, gratitudine per i suoi doni, implorazione di aiuto, è via speciale d’incontro, soprattutto con quelle religioni che, pur non avendo scoperto il mistero della paternità di Dio, tuttavia “tengono, per così dire, le braccia tese verso il cielo” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 53). Più difficile invece il dialogo con alcune correnti della religiosità contemporanea, in cui spesso la preghiera finisce per essere un ampliamento del potenziale vitale, scambiato per salvezza.
3. Varie sono le forme e i livelli del dialogo del cristianesimo con le altre religioni, a partire dal dialogo della vita, con cui “le persone si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane” (Pont. Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Congr. per l’Evangelizzazione dei Popoli, Istruzione Dialogo e annuncio: riflessioni e orientamenti, 19 maggio 1991, n. 42).
Particolare importanza assume il dialogo delle opere, tra cui si devono evidenziare l’educazione alla pace e al rispetto per l’ambiente, la solidarietà verso il mondo della sofferenza, la promozione della giustizia sociale e dello sviluppo integrale dei popoli. La carità cristiana che non conosce frontiere si incontra volentieri con la testimonianza solidale dei membri di altre religioni, rallegrandosi per il bene da essi operato.
Vi è poi il dialogo teologico in cui gli esperti cercano di approfondire la comprensione delle loro rispettive eredità religiose e di apprezzarne i valori spirituali. Gli incontri tra specialisti di varie religioni non possono tuttavia limitarsi alla ricerca di un minimo denominatore comune. Essi hanno lo scopo di prestare un coraggioso servizio alla verità evidenziando sia aree di convergenza che differenze fondamentali, nello sforzo sincero di superare pregiudizi e malintesi.
4. Anche il dialogo dell’esperienza religiosa va acquistando sempre maggiore importanza. L’esercizio della contemplazione risponde all’immensa sete di interiorità propria delle persone spiritualmente in ricerca e aiuta tutti i credenti a penetrare più profondamente nel mistero di Dio. Alcune pratiche provenienti da grandi religioni orientali esercitano una certa attrazione sull’uomo di oggi. Ad esse i cristiani devono applicare un discernimento spirituale, per non perdere mai di vista la concezione della preghiera, come è illustrata dalla Bibbia lungo tutta la storia della salvezza (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Orationis formas, su alcuni aspetti della meditazione cristiana, 15 ottobre 1989: AAS 82 [1990], II, pp. 362-379).
Questo doveroso discernimento non impedisce il dialogo interreligioso. In realtà da diversi anni gli incontri con gli ambienti monastici di altre religioni, improntati a cordiale amicizia, aprono vie per condividere reciprocamente le ricchezze spirituali in ciò che “riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e le vie della ricerca di Dio e dell’Assoluto” (Dialogo e annuncio, 42). Tuttavia la mistica non può mai essere invocata per favorire il relativismo religioso, in nome di una esperienza che riduca il valore della rivelazione di Dio nella storia. Quali discepoli di Cristo sentiamo l’urgenza e la gioia di testimoniare che proprio in Lui Dio si è manifestato, come ci dice il Vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).
Questa testimonianza va resa senza reticenza alcuna, ma anche con la consapevolezza che l’azione di Cristo e del suo Spirito è già misteriosamente presente in quanti vivono sinceramente la loro esperienza religiosa. E con tutti gli uomini autenticamente religiosi la Chiesa compie il suo pellegrinaggio nella storia verso l’eterna contemplazione di Dio nello splendore della sua gloria.
dal sito:
http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=381
16/09/2006
La speranza cristiana? Si fonda sul Crocefisso risorto
Le radici piantate sul Golgota
di Luciano Manicardi monaco di Bose
Oggi il futuro è avvertito come minaccia, non più una promessa. La fede è un appello ad alzare lo sguardo
Presentiamo ampi stralci della relazione tenuta da Luciano Manicardi all’assemblea diocesana missionaria, tenutasi a Milano il 13 maggio sul tema.
È quasi d’obbligo oggi, quando si parla di speranza, iniziare dicendo che si assiste a un’eclisse della speranza. Anche la traccia di riflessione in preparazione al convegno di Verona, proprio agli inizi (n. 1), dice che «non è cosa facile oggi la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa».
Il nostro tempo oggi non è sotto il segno della speranza, ma sotto quello della tristezza (cfr M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004). È come se il futuro avesse cambiato di segno e non suscitasse più l’idea di una promessa che ci sta davanti, ma ingenerasse in noi sentimenti di paura, di incertezza, di sfiducia. Insomma, il futuro oggi è sentito come minaccia piuttosto che come promessa; allora nascono angoscia, ripiegamento su di sé e sfiducia piuttosto che progettualità e slancio in avanti. La fiducia insita nel mito messianico secolarizzato, che ha dominato la cultura occidentale, ormai è venuta meno: oggi è sostituita dalla vittoria del mito autoreferenziale di Narciso. Ma a Narciso sono impossibili l’attesa e la speranza, mentre gli è congeniale l’autodistruttività.
Se pensiamo all’individualismo dominante, all’utilitarismo che soffoca la solidarietà, che conduce ad avere relazioni contrattuali e competitive piuttosto che gratuite, o all’economicismo come unico valore diffuso dalla società neoliberista, all’estinzione del desiderio in una società che fa l’apologia delle voglie, ecco… tutto questo crea tristezza e spegne la speranza. Il cambiamento di segno del futuro, da promessa a minaccia, ricrea un tipo antropologico nuovo, con poco spirito di iniziativa, di progettualità, piuttosto rinchiuso su di sé, demotivato, indeciso, diffidente, timoroso, con poco autostima.
La speranza poi ha una dimensione collettiva, comunitaria, nasce e vive in un contesto relazionale. Una società da cui scompare o si offusca l’orizzonte della speranza vede crescere fenomeni di violenza, di nichilismo, spinte distruttive oppure rassegnazione, omologazione, indifferenza.
Pochi anni fa abbiamo esultato per l’insorgere di grandi speranze; crollava un muro fra le due Germanie, ma la speranza sorta non ha avuto tempo di divenire storia, sono sorti tanti altri muri di separazione (e non solo simbolici, ma anche di cemento): muri del particolarismo etnico-razziale, confessionale, religioso. Oggi la speranza ha poco tempo, le speranze sono a breve termine, non riescono a diventare storia. Tutto questo rientra in quella fluidità che Zygmunt Baumann coglie oggi come cifra dell’inafferrabile modernità che stiamo vivendo.
Per noi, cattolici in Italia, va poi messa in conto anche la delusione per tante speranze nate attorno al Concilio Vaticano II. A distanza di quarant’anni, gli entusiasmi vissuti in quella stagione oggi appaiono molto raffreddati, se non congelati; probabilmente c’è stata impazienza, forse non abbiamo calcolato, in preda a un ingenuo ottimismo, che anche la ricezione di un Concilio richiede tempo e lungo periodo: le speranze di un rinnovamento della Chiesa, di una primavera che sembrava a un passo si sono arenate di fronte ai ghiacci di un inverno indesiderato e lungo.
Dobbiamo fare esempi? Possiamo pensare allo stato comatoso dell’ecumenismo; alle difficoltà e agli ostacoli che incontra la ricerca teologica, quando affronta temi come il dialogo con le altre religioni, ma lo smarrimento anche di un senso di sana laicità nel rapporto tra la Chiesa e la polis, tra la Chiesa e la società. Sono solo alcuni elementi di una lista che potrebbe essere più lunga, ma che fanno parte dello smarrimento, della delusione di speranze che erano sorte.
Se a questo aggiungiamo quello che spesso è uno dei grandi motivi di frustrazione negli ambienti cristiani, ovvero l’indifferenza – l’indifferenza con cui si scontrano gli sforzi di evangelizzazione, quasi che le parole della fede ormai suscitino, il più delle volte, una scrollatina di spalle – indubbiamente comprendiamo il senso di amarezza e di disillusione in cui spesso versiamo. Forse dobbiamo confessare di aver ingenuamente fatto nostro quel mito del progresso che denunciavamo come fallace. Forse anche noi abbiamo pensato che il Concilio avrebbe dato il via a un processo inarrestabile di riforma, di rinnovamento, e ora dobbiamo riconoscere che molte di quelle speranze sono morte; forse alcune erano solo illusioni ed è bene che siano morte.
Forse siamo come il popolo di Israele che ha iniziato un cammino di liberazione, ma questo cammino è di deserto, è un cammino molto lungo. Certamente c’è chi rimpiange il prima, la condizione di quando si era in Egitto. Ma forse tutto questo, biblicamente, altro non è che l’inizio, le doglie del parto, è la condizione del cristiano nella storia.
La speranza cristiana e le speranze. Dobbiamo distinguere tra la speranza e le speranze, tra l’affermazione assoluta «io spero» e l’affermazione relativa «io spero che». Dobbiamo distinguere – anche in ambito ecclesiale – tra l’assoluto «io spero», l’essere uomo di speranza, da un lato, e l’avere degli obiettivi, delle speranze al plurale. Il venir meno delle speranze può consentire alla speranza fondamentale di farsi luce. In altri termini, la delusione può essere dunque liberazione da illusioni: uno spogliamento che mette in luce, rende più pura la speranza. La speranza cristiana, nel suo nucleo perenne, non è in balìa di contingenze, non dipende da realizzazioni (nemmeno pastorali), ma è speranza fondata sulla morte e risurrezione di Cristo. Essa ha per oggetto (e anche soggetto che la suscita) il Cristo, il «Cristo nostra speranza». Così inizia la prima lettera di Paolo a Timoteo (1,1). Scrive Bonhoeffer dal carcere (da una situazione senza speranza): «Cristo nostra speranza, questa formula di Paolo, è la forza della nostra vita». La speranza è sempre rivolta a Cristo, a Dio, al Dio vivente, al Dio delle promesse che si sono manifestate in Cristo. In Cristo questa speranza è speranza della risurrezione dei morti (At 23,6), la speranza di fronte alla morte. Se infatti, dice Paolo, sperassimo in Cristo solo in questa vita, saremmo i più miserabili di tutti gli uomini (1 Cor 15,19).
La prima lettera di Pietro mostra chiaramente come l’evento pasquale dia forma e contenuto alla speranza cristiana. Questa è la speranza grande, la speranza donata da Dio ai credenti e, attraverso loro, agli uomini: è la speranza che i cristiani hanno il compito di annunciare e testimoniare al mondo, perché solo essa salva. Essa ha sempre – non solo in certe congiunture – carattere paradossale: sgorga infatti dalla croce e ne porta le stigmate. Come il Crocifisso, il Cristo appeso alla croce è la paradossale rivelazione di Dio, così la fede è il paradossale credere che il Crocifisso, quell’uomo condannato a morte, sia il Salvatore del mondo.
E la carità che cos’è se non il paradossale amare il nemico, e amarlo mentre mi è nemico? Questo amore nasce dalla croce, è l’amore paradossale reso visibile dalla croce. La speranza è il paradossale sperare al cuore stesso della morte, della croce. È significativo che si tratti di una speranza al cuore della morte, una speranza in desperatione verrebbe da dire: la speranza cristiana è sempre speranza contro ogni speranza. Sperare l’insperabile. Quell’uomo appeso alla croce, esibito nella sua nudità al disprezzo della gente, è il Salvatore del mondo. Ecco la speranza cristiana. Vi è una contiguità tra speranza e disperazione: anche il Risorto, dice Giovanni, porta i segni della trafittura.
Colpisce il fatto che il Ventesimo secolo abbia fatto emergere figure di testimoni e di santi che hanno abitato gli inferni storici. Nel secolo scorso è emersa la santità di chi sa abitare gli inferni dell’esistenza umana senza disperare, nutrendo lì una speranza e amando, continuando ad amare nell’orrore di un lager nazista, nel crogiuolo di una malattia estenuante, nella solitudine di un deserto, nella cella di un monastero, in situazioni di povertà, di oppressioni, di ingiustizia. Dietrich Bonhoeffer, Teresina di Lisieux, Charles De Foucauld, Silvano dell’Athos, Oscar Romero (e si potrebbe continuare) hanno vissuto la speranza nella disperazione, hanno vissuto una santità martiriale, testimoniale, che abita gli inferi dell’esistenza e che sa far abitare la grande speranza nella disperazione umana.
Se Cristo è la nostra speranza, per noi sperare è lasciare al Signore l’iniziativa su di noi, sulla nostra vita, non solo sulla vita personale, ma anche su quella comunitaria ed ecclesiale. La Chiesa spera, vive Cristo come sua speranza e testimonia agli altri Cristo come speranza, quando vive la povertà, l’umiltà, la libertà: o queste dimensioni contraddistinguono il «volto ecclesiale», o altrimenti la Chiesa potrà anche parlare di speranza, ma rischierà di farlo in modo retorico. Pensiamo alle condizioni attuali di minoranza e di spogliamento (di cui oggi abbiamo tanti segni nella Chiesa), dall’indifferenza che incontra la parola della fede, dal pluralismo che obbliga a un difficile incontro con persone appartenenti ad altre religioni e che ci rimette in discussione profondamente, da una cultura che a volte avversa il cristianesimo, da una diminuzione numerica all’interno delle Chiese: questo spogliamento è occasione per ritrovare quella povertà, quella piccolezza, quella libertà, quell’umiltà che sono le condizioni grazie a cui la Chiesa è profetica. Una Chiesa può porsi profetica non solamente quando denuncia le ingiustizie, ma se vive della Parola. È annunciando questa promessa che la Chiesa dà speranza: la speranza è che il futuro del mondo è Dio, il Regno. La profezia è allora apertura di futuro, dono di senso, attualizzazione della promessa di Dio. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Il concetto non biblico di senso è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama promessa».
Profezia è anche lotta contro gli idoli: vi sono certamente i grandi e perenni idoli che ci affascinano, ma vi sono anche idoli interni alla Chiesa. La profezia si declina allora come combattimento contro le tentazioni che, mentre sfigurano il volto ecclesiale, uccidono anche la capacità della Chiesa di dare speranza. Qui c’è il «caro prezzo della speranza». Poiché la speranza cristiana non coincide affatto con l’ottimismo, ma è sinonimo di responsabilità.
È la prima lettera di Pietro che l’afferma: «Santificate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi chieda ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Chiunque ha il diritto d’interpellare il cristiano sulla sua speranza e questi ha una diaconia, un compito, una responsabilità. La speranza è la sua risposta alla promessa di Dio, è responsabilità nei confronti degli altri uomini. Se non sono i cristiani che innervano il mondo e le relazioni con la speranza che sgorga dalla Pasqua, chi lo farà?
Sarebbe interessante rileggere le tentazioni di Cristo dove si narra come Gesù vinca la suggestione diabolica, sottomettendosi alla Parola di Dio e custodendo la propria umanità: situandosi tra questi due poli, Cristo vince la tentazione e apre la speranza di salvezza a ogni uomo. Sottomissione alla Parola di Dio: Gesù risponde al tentatore sempre citando la Scrittura, custodia della propria umanità e creaturalità; Gesù non esce mai dall’umano, non entra mai nel magico. Gesù sa discernere come tentazione il mutare le pietre in pane: egli non stravolge la natura, non si sottrae alla povertà creaturale dell’uomo, ma resta uomo. Non cede neppure alla seduzione del potere e del possesso, ma resta nella povertà tipica della creatura e custodisce il senso del limite della propria umanità; Gesù non fa del tempio, del religioso, del sacro, lo sgabello della propria affermazione. Non si getta giù per farsi salvare dagli angeli, dando compimento eclatante e miracolistico alla parola della Scrittura.
È importante saper vincere le tentazioni del potere, poiché il potere, sia politico che religioso, è sempre mondano: anche il potere religioso ha gli stessi movimenti del potere mondano, questo vincere le tentazioni avviene grazie all’abitare l’umano nell’obbedienza alla promessa di Dio. Gesù resta sottomesso alla Parola di Dio e, quando sarà sulla croce, mostrerà la piena e definitiva vittoria sulle tentazioni. Dalla croce scaturisce la salvezza e la speranza di salvezza per tutti gli uomini. Dalla croce discende a noi il compito di sperare per tutti e di narrare la speranza a ogni creatura.
Per sperare, occorre saper vedere. E la speranza è munita di un occhio particolare. Per dare speranza occorre discernere gli idoli che ci abitano e dare il nome, anche come Chiesa, agli idoli. Bisogna avere il coraggio di discernere e la forza di combattere.
Si dovrebbe uscire dalla logica del lamento per guardare alla realtà con occhi nuovi, con un altro sguardo. È vero: se guardiamo alle nostre situazioni ecclesiali, a volte può prenderci un senso di stanchezza e di scoramento e tuttavia questo non è un novum. L’episodio evangelico di Marco, dove si parla della prima moltiplicazione dei pani, mostra una situazione ecclesiale che sembra quella di oggi: i discepoli avevano talmente tanto da fare da non aver più tempo nemmeno per mangiare. Già allora la quantità delle cose da fare sopraffaceva gli apostoli e Gesù li invita ad andare in disparte per riposare un po’: è doveroso per il missionario, per il credente, andare in disparte, riposarsi, stare con il Signore, avere una propria interiorità. Ma ecco che Gesù sbarca e trova già la folla che lo aspetta, sicché Gesù accetta di essere contraddetto e, nella compassione, annuncia alle folle la parola e poi dà loro da mangiare. Lì nasce il problema: «Date loro voi stessi da mangiare…»
(Mc 6,37). «Non abbiamo che cinque pani e due pesci. Cosa è questo per tutta questa gente?» (Mc 6,39). Eppure, da quel poco Gesù farà sorgere l’abbondanza.
Per noi, oggi, questo dice che la Chiesa saprà dare testimonianza alla speranza accogliendo la propria fragilità, la propria debolezza, la propria infedeltà. È a partire da lì che siamo chiamati a dare speranza, non a mascherare, a rimuovere, ma a porci nella nostra attuale fragilità, debolezza, forse anche nelle nostre ferite attuali, nel nostro spogliamento attuale e assumerlo, accettando di perdere anche molte cose. E forse molte altre ne dovremo perdere nei prossimi anni, e dovremo accettare questo impoverimento, questa morte di molti sogni, ma custodendo l’umano che è in noi e obbedendo alla Parola e alla promessa di Dio.
Noi dobbiamo imparare questa speranza, liberata dall’impazienza di vedere subito i risultati, non vincolata ai nostri desideri, perché la speranza di cui parliamo non è una speranza qualsiasi o di qualche cosa, ma è un confidare nel Signore e in ciò che Lui vorrà darci e che noi non possiamo vedere né toccare. Questo sperare tende all’invisibile («le cose invisibili sono eterne»). Proust nella sua Recherche, scrive: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nell’andare in cerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi».
Ecco l’occhio nuovo della speranza che ci fa vedere l’invisibile, quello che pure si fa avanti nella storia tra le sue contraddizioni e opacità, ma che richiede un occhio allenato, evangelizzato dalla promessa di Dio. Di fronte alle tribolazioni storiche che precederanno la fine, quando accadranno sconvolgimenti quali terremoti, carestie, guerre… (Lc 21,28) Gesù invita a levare il capo, ad alzare gli occhi, perché la liberazione allora sarà vicina. Questa capacità dei cristiani di vedere, nella tragicità della storia, anche la luce che avanza, è la diaconia che il cristiano è chiamato a vivere. Il credente alza gli occhi e vede l’invisibile, vede ciò che si cela nella trama oscura e tragica degli eventi. Allora la speranza diventa ypomoné, perseveranza, capacità di rimanere, anche nelle situazioni difficili (e com’è importante la testimonianza di chi sa vivere una fedeltà nella propria scelta di vita, perché questo dà speranza anche agli altri, a chi viene dietro a lui). Tale perseveranza è la capacità che i cristiani hanno di sottomettersi agli altri, di sostenerli nella prova: la speranza diviene allora forza, pazienza, capacità di resistenza e di sopportazione nel senso più nobile del termine.
Scrive Peguy: «La piccola speranza avanza tra le due sorelle grandi [la fede e la carità] e non si nota neanche». Quasi invisibile, la «piccola» sorella sembra condotta per mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le altre non vedono e trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede e l’amore nel mattino di Pasqua. «È lei, quella piccina, che trascina tutto». È la speranza che vede il regno, che vede il Signore veniente, che vede l’invisibile, e che narra questo nell’oggi.
du site:
http://www.piccolifiglidellaluce.it/preghieregpii.htm
GIOVANNI PAOLO II – PREGHIERE A MARIA
O Maria, aurora del mondo nuovo
O Maria,
aurora del mondo nuovo,
Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato
di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere,
di uomini e donne vittime di disumana violenza,
di anziani e malati uccisi dall’indifferenza
o da una presunta pietà.
Fa’ che quanti credono nel tuo Figlio
sappiano annunciare con franchezza e amore
agli uomini del nostro tempo
il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo
come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine
in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo
con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà,
la civiltà della verità e dell’amore.
a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.
8 SETTEMBRE – NATIVITÀ DELLA BEATA VERGINE MARIA
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Andrea di Creta, vescovo (Disc. 1; PG 97, 806-810)
Le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove
«Il termine della legge è Cristo» (Rm 10, 4). Si degni egli di innalzarci verso lo spirito ancora più di quanto ci libera dalla lettera della legge.
In lui si trova tutta la perfezione della legge perché lo stesso legislatore, dopo aver portato a termine ogni cosa, trasformò la lettera in spirito, ricapitolando tutto in se stesso. La legge fu vivificata dalla grazia e fu posta al suo servizio in una composizione armonica e feconda. Ognuna delle due conservò le sue caratteristiche senza alterazioni e confusioni. Tuttavia la legge, che prima costituiva un onere gravoso e una tirannia, diventò, per opera di Dio, peso leggero e fonte di libertà.
In questo modo non siamo più «schiavi degli elementi del mondo» (Gal 4, 3), come dice l’Apostolo, né siamo più oppressi dal giogo della legge, né prigionieri della sua lettera morta.
Il mistero del Dio che diventa uomo, la divinizzazione dell’uomo assunto dal Verbo, rappresentano la somma dei beni che Cristo ci ha donati, la rivelazione del piano divino e la sconfitta di ogni presuntuosa autosufficienza umana. La venuta di Dio fra gli uomini, come luce splendente e realtà divina chiara e visibile, è il dono grande e meraviglioso della salvezza che ci venne elargito.
La celebrazione odierna onora la natività della Madre di Dio. Però il vero significato e il fine di questo evento è l’incarnazione del Verbo. Infatti Maria nasce, viene allattata e cresciuta per essere la Madre del Re dei secoli, di Dio.
La beata Vergine Maria ci fa godere di un duplice beneficio: ci innalza alla conoscenza della verità, e ci libera dal dominio della lettera, esonerandoci dal suo servizio. In che modo e a quale condizione? L’ombra della notte si ritira all’appressarsi della luce del giorno, e la grazia ci reca la libertà in luogo della schiavitù della legge. La presente festa è come una pietra di confine fra il Nuovo e l’Antico Testamento. Mostra come ai simboli e alle figure succeda la verità e come alla prima alleanza succeda la nuova. Tutta la creazione dunque canti di gioia, esulti e partecipi alla letizia di questo giorno. Angeli e uomini si uniscano insieme per prender parte all’odierna liturgia. Insieme la festeggino coloro che vivono sulla terra e quelli che si trovano nei cieli. Questo infatti è il giorno in cui il Creatore dell’universo ha costruito il suo tempio, oggi il giorno in cui, per un progetto stupendo, la creatura diventa la dimora prescelta del Creatore.
Natività della Vergine, dal sito Web ufficiale della Famiglia Marianista:
http://www.mariaoggi.it/natmaria.htm#inizio
8 SETTEMBRE – NATIVITÀ DELLA VERGINE MARIA
Il re benigno, il donatore generoso, accolse la preghiera del giusto e ad ambedue inviò l’annuncio. Inviò l’annuncio prima di tutto a Gioacchino, mentre stava ritto in preghiera nel tempio. Si fece udire una voce venuta dal cielo, che gli diceva: «Tu avrai una figlia che non sarà solamente gloria per te, ma per tutto il mondo». Questo annuncio a Gioacchino fu notificato alla beata Anna; essa tuttavia non cessò di pregare Dio con lacrime ardenti. Anche a lei dunque fu mandato l’annuncio da parte di Dio, nel giardino dove offriva sacrifici, con domande e preghiere al Signore.
L’angelo di Dio venne da lei e le disse: «Dio ha ascoltato la tua preghiera; tu darai alla luce l’annunciatrice della gioia, la chiamerai Maria, perché da lei nascerà la salvezza del mondo intero».
Ora, dopo l’annuncio, ebbe luogo la gravidanza e dalla sterile Anna nacque Maria, 1′illuminatrice di tutti: così infatti si traduce il nome «Mariam»: «illuminatrice». Allora i venerandi genitori della felice e santa fanciulla furono colmi di una grande gioia. Gioacchino organizzò un banchetto e invitò tutti i vicini, sapienti e ignoranti, e tutti resero gloria a Dio, che aveva compiuto per loro un grande prodigio. In tal modo l’angoscia di Anna si cambiò in una gloria più sublime, quella di diventare porta della porta di Dio, porta della sua vita e inizio del suo glorioso comportamento.
A questo punto è giusto che noi innalziamo il nostro discorso verso glorie e misteri superiori, aiutati dalla sua grazia, dalla sua intercessione, dal suo soccorso, perché è lei la causa e la dispensatrice di ogni bene.
L’iconografia della Natività della Madre di Dio
Le opere più antiche che trattano questo soggetto, un dittico del secolo VI conservato a San Pietroburgo e un affresco della chiesa Santa Maria Antiqua nel Foro Romano, mostrano che la composizione è molto vicina a quella della Natività di Cristo. La differenza consiste nel fatto che quest’ultima ha come sfondo la grotta e la montagna, mentre la Natività della Vergine avviene all’interno di una casa, le cui strutture architettoniche appaiono nello sfondo. Poiché la prospettiva inversa non permette la rappresentazione di un interno, esso è indicato dal simbolo del velo rosso sopra la facciata degli edifici. Ma le due rappresentazioni, della Natività di Cristo e della Natività della Vergine, traggono la loro origine nelle immagini pagane che mostrano la stanza del parto in occasione della nascita di un personaggio importante. Come
nelle icone di altre feste, quella della Natività della Vergine è stata arricchita di elementi folclorici; e questo avviene a detrimento del senso teologico della scena, la quale, già in sé, ha il carattere di una pittura di genere. Su un grande letto è stesa Anna, la madre che ha appena messo al mondo Maria. Questa si trova nelle mani di due ancelle che si preparano per il bagno della neonata. La bimba è talvolta rivestita di fasce, talaltra da un maforion con le stelle, come viene dipinta in età adulta. L’iconografia suggerisce quindi un’interpretazione: vuole sottolineare che non si tratta di una bimba, ma di colei che dal primo istante della sua vita era eletta per essere la Madre del Figlio di Dio. Ed è anche la ragione per cui la scena si presenta in un quadro magnifico: il medico nell’atto di avvicinarsi al letto per dare una medicina, le ancelle intente a portare cibi e bevande per ristorare la madre dopo la nascita. Infine, la rispettosa distanza di san Gioacchino, che sembra non avere il diritto di assistere all’evento e che guarda attraverso una porta o una finestra, talvolta posta nella parte alta dell’edificio.
Origine e liturgia della festa
Origine.
La festa è di origine orientale. Agli inizi del VII secolo, la data della festa fu fissata all’8 settembre. Alcuni storici vi vedono una reazione della Chiesa bizantina contro il culto di Iside e Astarte, le divinità matriarcali dei vincitori pagani, che le onoravano proprio 1’8 settembre.
Per la Chiesa bizantina, che doveva confrontarsi con l’astrologia (anche nel proprio interno) e con il mito degli astri dei Bogomili, questa scelta esprimeva non soltanto la sostituzione di una festa pagana, ma soprattutto la vittoria di Cristo su satana e i suoi adepti, vittoria a cui partecipava Maria, sua madre.
Per lungo tempo la festa della Natività della Vergine non ebbe carattere universale, e ancora nel secolo IX non era riconosciuta in modo ufficiale o canonico. La si celebrava in Gallia verso il 630 e a Roma soltanto alla fine del secolo VII.
La liturgia
A partire dal secolo V, Romano il Melode si era ispirato agli apocrifi raccontando l’infanzia di Maria e aveva composto un kontakion sulla nascita della Vergine. Nell’ufficiatura della vigilia, le letture dell’Antico Testamento ci introducono nel mistero della vita di Maria. 1 simboli utilizzati nelle letture fanno capire il suo ruolo nella storia della salvezza. Maria, infatti, è paragonata alla scala del cielo, vista in sogno da Giacobbe (Gn 28,10-17). Come questa scala, ella è il legame tra il cielo e la terra; è la Madre di Dio, e per mezzo suo le nostre preghiere salgono verso il Padre e da lei tutte le grazie sono distribuite.
L’ufficio del mattino è dominato dalla creazione poetica del duplice canone, i cui autori sono Giovanni Monaco, probabilmente Giovanni Damasceno (morto verso il 750) e Giovanni di Creta (morto nel 740). Se si pensa che questo testo risale all’epoca dell’iconoclasmo, in cui la venerazione della Madre di Dio era messa in questione, questa poesia diventa una confessione di fede e una lode in tempi di persecuzione.
Il passo biblico di Ez 43,27 – 44,4 descrive la porta del Tempio attraverso la quale passerà solo il Signore: immagine della Vergine che apparterrà totalmente a Dio e attraverso la quale egli si mostrerà al mondo. La terza lettura proviene dai Proverbi: la sapienza divina ha costruito la sua casa in Maria. Giustizia, verità, timore di Dio in lei si uniscono in una armonia meravigliosa (Pro 7 e 9). Si disegna così, già nell’Antico Testamento, la figura di colei che riceverà la più alta dignità conferita a un essere umano, quella della Madre di Dio.
Inni e preghiere dalla liturgia latina
LODI
Antifona 1
È nata la gloriosa Vergine Maria, discendente da Abramo, della tribù di giuda, della stirpe regale di Davide.
Antifona 2.
Nel mondo si è accesa una luce alla nascita della Vergine; beata è la stirpe, santa la radice, benedetto il suo frutto.
antifona 3.
Con gioia celebriamo la tua nascita o Maria; prega per noi il Signore Gesù.
antifona 4.
La tua nascita, Vergine Madre di dio, ha annunziato la gioia al mondo intero; da te è nato il sole di giustizia, Cristo nostro dio; egli ha tolto la condanna e ha portato la grazia, ha vinto la morte e ci ha donato la vita.
orazioneDonaci, Signore, i tesori della tua misericordia e poiché la maternità della Vergine ha segnato l’inizio della nostra salvezza, la festa della sua natività ci faccia crescere nell’umiltà e nella pace. Per il nostro Signore…
VESPRI
antifona 1
Dal ceppo di lesse è fiorita la vergine, resa madre dallo Spirito di Dio.
ANTIFONA 2
Oggi è nata la Vergine Maria: piena di grazia, Dio l’ha guardata, umile, Dio l’ha visitata.
ANTIFONA 3
Maria, Vergine Madre di Dio, benedetta e degna di ogni lode, noi celebriamo la tua nascita. Prega per noi il Signore.
ANTIFONA AL MAGNIFICAT
Il Signore guardò la sua umiltà: e all’annunzio dell’angelo
Maria concepì il Redentore del mondo.
Inni e preghiere dalla liturgia orientale
Apolitikion
La tua natività, o Madre di Dio, annunziò la gioia a tutta la terra. Da te, infatti, è spuntato il Sole di giustizia, Cristo Dio nostro. Avendo sciolto la maledizione, Egli ci ha dato la benedizione e, distrutta la morte, ci ha fatto dono della vita eterna.
Katbismata della Stichologia del mattutino
Proclama, Davide, cosa ti ha giurato Dio? – «Ciò che Egli mi ha giurato – dice – ed ecco che Egli ha realizzato, era di dare dal frutto delle mie viscere la Vergine. Da lei il Plasmatore, Cristo, nuovo Adamo, deve nascere per sedere sul mio trono. Anzi Egli oggi regna ed il suo regno è inamovibile». La sterile partorisce la Madre di Dio e nutrice della nostra vita.
Dalla radice di Iesse e dai fianchi di Davide nasce oggi per noi la fanciulla di Dio Maria e tutto il creato è rinnovato e divinizzato. Rallegratevi insieme, cielo e terra; lodatela, tribù delle nazioni. Gioacchino esulta e Anna festeggia, esclamando: «La sterile partorisce la Madre di Dio e nutrice della nostra vita».
Si rallegri il cielo ed esulti la terra, perché il cielo di Dio è nato: è la Sposa di Dio, frutto della promessa. La sterile allatta la bambina Maria e Gioacchino è nella gioia per quella nascita, dicendo: «Mi è nato il virgulto dalla radice di Davide da cui deve sbocciare il fiore, Cristo. Oh, il meraviglioso portento!».
Ipakoi
Il profeta diede alla Vergine il nome di «porta invalicabile e riservata al solo nostro Dio» (cf. Ez 44, 2); per essa è passato il Signore, per essa è avanzato l’Altissimo, e la lasciò sigillata liberando dalla corruzione la nostra vita.
Exapostilaria
Oggi si rallegrano i confini della terra per la tua natività, o fanciulla Maria, genitrice di Dio e Sposa non sposata; tu hai difatti sciolto il triste obbrobrio della sterilità dei tuoi genitori e la maledizione, quella legata alla generazione di Eva, la prima madre.
Adamo, rinnovati, e tu, Eva, sii magnificata; profeti, intrecciate danze con gli Apostoli e i giusti. La comune gioia di angeli e uomini è oggi messa al mondo da Gioacchino ed Anna: è la Madre di Dio!
Sticberà Prosomoia di Lodi
O meraviglioso portento! la fonte della vita nasce da una donna sterile, la grazia comincia a dare allegramente frutto. Rallegrati, Gioacchino, divenuto genitore della Madre di Dio. O amico di Dio, nessuno
è simile a te tra i genitori della terra: per tuo tramite ci è stata donata la fanciulla portatrice di Dio, dimora della divinità, montagna santissima!
O meraviglioso portento! A un cenno del Creatore e Signore universale, un frutto è apparso da una sterile, sciogliendo efficacemente la sterilità universale in buone opere. Madri, esultate con la madre della Madre di Dio e gridate: «Ave, piena di grazia, il Signore è con te (Lc 1, 28), lui che, tuo tramite, accorda al mondo la grande misericordia!».
Colonna vivente di sapienza, vaso luminoso risplendente di grazia è apparsa la nobile Anna. In verità ella ha messo al mondo il vero modello ed il fiore divino della verginità, dono destinato a tutte le anime vergini e agli aspiranti al dono della verginità, colei che procura e dona a tutti i fedeli la grande misericordia.
(Testi Mariani, vol.1, ed. Cittanova)
Commenti teologici-spirituali alla festa
Dai Padri Orientali
La nascita di Maria è l’inizio della nostra divinizzazione.
Oggi il grande seno della verginità viene svelato, e la Chiesa è cinta nuzialmente con l’inviolabile perla della vera incorruttibilità. Oggi la genuina nobiltà degli uomini riceve di nuovo il dono della prima divinizzazione e ritorna a se stessa; la natura generata, rimanendo unita alla Madre del Bello, riceve come impronta ottima e divinissima quel fulgore di bellezza che l’ignobiltà della malizia aveva oscurato; l’impronta diventa propriamente nuova chiamata; la nuova chiamata diventa divinizzazione, e questa a sua volta assimilazione all’antica condizione. Oggi la sterile è scoperta come madre al di là di ogni speranza, e a sua volta la Madre di un Figlio senza padre, derivando da lombi infecondi, rende sante le generazioni della natura. Oggi è stata colorata la splendente tintura della porpora divina, e la miseranda natura degli uomini si è rivestita della dignità regale. Oggi il rampollo davidico è germogliato secondo le profezie (cf. Is 11, 1), esso che è detto verga sempre verdeggiante di Aronne (cf. Nm 17, 23; Eb 9, 4) e ha fatto fiorire per noi la verga della potenza, il Cristo.
Oggi da Giuda e da Davide proviene una vergine fanciulla, che delinea il volto del regno e del sacerdozio di colui che fu sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek
Dai Padri occidentali
SERMONE SULLA NATIVITÀ DELLA BEATA VERGINE MARIA
La nascita dalla Vergine Maria rientra nel provvidenziale piano divino della salvezza
l. La Natività della beatissima e intemerata Madre di Dio, fratelli carissimi, giustamente reca agli uomini una straordinaria e particolare gioia, perché essa costituisce l’esordio di tutta la storia della salvezza umana. Infatti l’onnipotente Iddio, come, prima di divenire uomo, con l’ineffabile sguardo della sua provvidenza aveva previsto che l’uomo sarebbe perito per mezzo della diabolica macchinazione, così nel profondo della sua immensa pietà aveva progettato prima dei secoli il piano della redenzione dell’uomo.
E nell’imperscrutabile disegno della sua sapienza Dio stabilì non solo il modo e l’ordine della redenzione, ma predefinì anche il tempo preciso della sua attuazione. Ora, come era impossibile che il genere umano potesse essere redento senza che il Figlio di Dio nascesse dalla Vergine, così era altrettanto indispensabile che la Vergine nascesse, affinché da lei il Verbo assumesse la carne.
La Vergine ha ricevuto i sette doni dello Spirito Santo. In Maria la Chiesa diventa sposa di Cristo
2. Occorreva cioè prima edificare la casa nella quale il Re del cielo sarebbe disceso e avrebbe accettato di essere ospitato. Di questa casa Salomone dice: «La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne» (Prov 9, 1). Infatti questa casa verginale è sostenuta da sette colonne, perché la venerabile Madre di Dio ha ricevuto i sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio (Is 11, 2). E certamente la Sapienza, che si estende da un confine all’altro con forza e governa con eccellente bontà ogni cosa (Sap 8, 1), l’ha costruita così affinché ella fosse degna di accoglierla e di generarla dalle viscere della sua intemerata carne.
Per prima era necessario edificare la stanza nuziale, affinché fosse idonea a ricevere lo Sposo che veniva per sposare la santa Chiesa. A lui infatti Davide, esultante nello spirito, intona un epitalamio, dicendo: «Il Signore esce come sposo dalla stanza nuziale» (Sal 18, 5).
Giustamente allora oggi il mondo intero esulta di una gioia che si è riversata dovunque; giustamente tutta quanta la Chiesa, poiché nasce la madre del suo sposo, alterna le lodi e per la gioia intona un canto. Esultiamo, dunque carissimi, in questo giorno nel quale, mentre veneriamo la nascita della Vergine, celebriamo anche l’inizio di tutte le festività del Nuovo Testamento.
(S. Pier Damiani, Testi Mariani, vol 3, ed. Cittanuova).