Archive pour août, 2011

I Profeti – Giona mandato alla città

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/profeti/giona.htm
 
I PROFETI     

GIONA: mandato alla città

di LUIGI VARI, biblista 

Altro personaggio che ritorna nel Nuovo Testamento come significativo per comprendere una situazione è il profeta Giona. Gesù infatti parla di Giona ed interpreta lui stesso il racconto della vita di questo profeta: Mt 16,4; Lc 11,20-30, dove rimprovera l’incredulità dei farisei ricordando il segno di Giona, segno che sarà ancora più chiaro dopo la resurrezione di Cristo.
Il segno di Giona sembra aver influito anche sulla professione di fede che abbiamo in Paolo che dichiara che Gesù Cristo è risuscitato dai morti « secondo le scritture » (1Cor 15,4). Il riferimento alle Scritture è con molta probabilità in relazione all’esperienza di Giona che vive tre giorni dentro un pesce; infine Giona viene indicato come il segno della portata universale della predicazione evangelica (Mt 12,41-42).
Giona è un personaggio simpatico, c’è molto umorismo nel libro che narra la sua avventura di profeta. Una simpatia che secondo alcuni dipende, più che dalle sua traversie, dal suo messaggio fondamentalmente positivo, portatore di una visione ottimista di Dio. Giona è un personaggio del quale ci parla il libro dei Re (2Re 14,25) collocandolo durante il regno di Geroboamo II, nel regno di Israele negli anni che vedono Israele trovare il suo splendore dal 787 al 747, periodo che vede la presenza anche di altri profeti come Amos ed Osea.
La profezia di Giona non ha dei contenuti particolarmente sviluppati, il suo libro è raramente citato quando si parla dei profeti, ma vi è un aspetto della sua profezia che interessa, è un aspetto particolare della profezia, è un aspetto che è presente in tutti i profeti, ma che in lui diventa caratteristico: e cioè il profeta che deve portare la parola di Dio alla città, e ad una città particolare, descritta con elementi simbolici come figura della città degli uomini. Giona ha paura di entrare in città, cerca di scappare. Ma che cosa era questa città, che cosa impedisce al profeta di essere portatore della parola di Dio là dove gli uomini più ne hanno bisogno e dove più sono concentrati?
Giona e la grande Ninive
La città della quale ci parla il libro è quella di Ninive, una città favolosamente grande, la malizia dei suoi abitanti « è salita fino a me »; a questa città il profeta deve annunciare il giudizio di Dio. Nel cercare di comprendere il senso della città nella Bibbia, occorre forse sottolineare che essa non riveste immediatamente una grande importanza; inizialmente la città è solamente il luogo nel quale si trova protezione; in un secondo tempo la città diviene sempre più importante, ma nel crescere della città avviene che si perdono le radici di una vita nomade, caratteristica del popolo al tempo del deserto e del primo insediamento nella terra. Nel momento in cui la città si allontana dallo stile di vita che contiene tutti i fondamenti della religiosità del popolo, diventa anche simbolo di un allontanamento più profondo che nella città è simbolizzato, e cioè l’allontanamento dalla alleanza. Non possiamo dimenticare l’episodio di Babele, momento in cui la città diventa monumento dell’uomo che vuole fare a meno di Dio. Questi sono argomenti che andrebbero approfonditi meglio; quello che possiamo notare qui è il rapporto dei profeti con la città; non è un rapporto idilliaco; anzi il profeta spesso entra in conflitto con la città; ma, come nel nostro caso, il conflitto non è con un modo di vivere degli uomini, piuttosto è con i significati sbagliati che questo modo può assumere da parte di chi lo sceglie. La grande Ninive non solo dava sicurezza economica e politica ai suoi cittadini, ma con la sua ricchezza e la sua potenza dava anche il messaggio della inutilità di Dio, o meglio la situazione di sicurezza impigrisce il cuore di quegli abitanti e i loro atti diventano atti pieni di malizia.
La città diventa realtà negativa nel momento in cui diventa spiegamento di potenza, occasione di dispotismo, e questo accade quando la convivenza umana smette di fondarsi sulla giustizia; e le sue mura non vengono più considerate come una protezione, ma in esse viene posta la propria speranza e la propria certezza, dimenticando che « se il signore non costruisce la città invano veglia il custode » (Salmo 127,1).
Alla città degli uomini
Nel libro di Giona si avverte che la paura della città è una paura che non ha motivo di esistere, si dice che la città ha solo bisogno di essere richiamata alla sua natura di provvisorietà, cioè deve ritrovare la sua giusta dimensione. Non credo sia inattuale questo discorso soprattutto adesso in cui facciamo esperienza che la politica, l’economia, la sicurezza tecnologica sono conquiste importanti, eppure non tali da darci la sicurezza profonda della quale vivere.
Essere profeti per la città non sembra che significhi odiare o condannare la città; ma percorrerla per aiutarla a non dimenticare:
« Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava (…), i cittadini di Ninive credettero in Dio e bandirono un digiuno… ». Significa guardare la città con gli occhi di Dio, non dimenticando che nella città vivono degli uomini.
La città viene infine perdonata e Giona rimane male, Dio non gli risponde, ma fa crescere un ricino per la consolazione del profeta, poi lo fa seccare; Giona protesta, è assurdo prendersela con un ricino, che male ha fatto un ricino? E, allora, Dio risponde:
« Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non ha fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città nella quale sono più di 120.000  persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra e una grande quantità di animali? ».

(da « Se vuoi »)

Flowoering now – Lythrum portula, Water-purslane ♥ a domani, buona serata

 Flowoering now -  Lythrum portula, Water-purslane ♥ a domani, buona serata dans immagini...buona notte...e lythrum_portula_1994

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Publié dans:immagini...buona notte...e |on 21 août, 2011 |Pas de commentaires »

San Bernardo di Chiaravalle

San Bernardo di Chiaravalle dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 19 août, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (21-08-2011): Perché pretendere di « dire » Dio? (su Paolo…)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23268.html

Omelia (21-08-2011)

don Alberto Brignoli

Perché pretendere di « dire » Dio?

(su Paolo…)

Nelle riflessioni di queste domeniche sto un po’ lasciando da parte Paolo con i bellissimi brani tratti dalla lettera ai Romani e propostici dalla Liturgia nella seconda lettura. Ma il testo di quest’oggi merita particolare attenzione, anche perché può aiutarci a comprendere meglio il tema generale della Liturgia della Parola di questa domenica.
Partirei da questa frase, molto « ad effetto »: « Chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? ». Paolo in questo testo sta spiegando, o meglio « cantando », la grandezza della Sapienza di Dio, e lo fa riprendendo quel genere letterario sapienziale così ben rappresentato nella parte finale dell’Antico Testamento dai libri cosiddetti, appunto, « sapienziali ». Come già i saggi autori del libro del Siracide e della Sapienza, anche Paolo cerca di entrare nel mistero delle cose di Dio, definendo insondabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie. Il Mistero di Dio, la sua Essenza, la comprensione della sua identità e del suo pensiero non sono realtà accessibili alla limitatezza del pensiero umano.
Per riprendere le parole di Gesù a Pietro a Cesarea di Filippo, carne e sangue non possono rivelarci l’identità di Dio; ossia, alla domanda « Chi è Dio? » è ben difficile poter dare una risposta adeguata con la sola forza della ragione, per quanto essa scopra continuamente la possibilità di porsi delle domande su di lui. Paolo prosegue in questa sua « celebrazione » affermando (per mezzo di domande retoriche e poetiche) che nessuno può vantarsi di aver dato dei consigli a Dio, né tanto meno di aver concesso a lui dei favori tali da dover riceverne qualcosa a contraccambio.
Credo che nessuno abbia qualcosa da ridire rispetto a queste affermazioni, che appiano alquanto scontate. Ma se Paolo le formula, e se il Maestro nel Vangelo le conferma dando carattere divino alla professione di fede di Pietro, probabilmente vuole aiutare la nostra vita di fede a comprendere in pienezza il significato di queste affermazioni, ovvero che Dio non può essere conosciuto a fondo dall’uomo se egli stesso non gli si rivela, e che di conseguenza l’uomo non può certo avanzare delle pretese su Dio.
A livello puramente concettuale, ci sentiamo tutti in grado di sottoscrivere queste affermazioni. Le cose sono un po’ diverse quando passiamo al lato « pratico », quello delle scelte pastorali. È un discorso che mi sento di rivolgere primo di tutto a me sacerdote e a coloro che nella Chiesa hanno responsabilità ed incarichi. Ci capita spesso, mi pare, di fare delle scelte, di compiere azioni, ma soprattutto di esprimere giudizi e di fare affermazioni che suonano come sentenze certe ed inequivocabili sulla scorta di una presunta conoscenza del pensiero del Signore che – chissà per quale motivo – riteniamo sia un nostro privilegio conoscere. Fortunatamente, nelle nostre comunità parrocchiali c’è da parte del clero meno autoritarismo che in passato: tuttavia, non è infrequente imbattersi in atteggiamenti fortemente clericali e autoritari (soprattutto da parte del clero, supportato però anche da alcuni laici) che sembrano essere dettati ed affermati « in nome di Dio e della sua volontà », come se noi – appunto – potessimo avere la pretesa di saperne qualcosa in merito.
Si ripropone, qui, il dialogo tra fede e morale, tra professione di fede e comportamenti etici che ritengo uno degli aspetti cruciali dell’essere discepoli di Cristo. Sul nostro « Credo », sugli articoli di fede che professiamo quando ogni domenica nell’Eucaristia rinnoviamo la nostra fede, mi pare che ci sia, nella Chiesa, tutto sommato, una condivisione. Quando si tratta di attuare dei comportamenti corrispondenti al nostro Credo (è il piano della morale, dell’etica, appunto) iniziano a sorgere delle discrepanze, che mi pare originino propriamente da questo preteso autoritarismo per il quale ci si sente depositari non solo della fede, ma anche e soprattutto dei comportamenti morali dei singoli e della comunità. « In nome di Dio e del Vangelo », come si sente anche dire.
Non è una gran bella affermazione, già che « in nome di Dio » sia in passato che nel presente, diversi esponenti religiosi delle più distinte fedi hanno incitato popoli interi alla guerra e alla violenza. « In nome di Dio » si sono conquistati territori liberi e sterminate popolazioni. « In nome di Dio » si è fatta giustizia sommaria condannando alla gogna o al rogo gente ritenuta « fuori dalla piena comunione con la Chiesa ». Grazie a Dio, ci troviamo oggi in altri contesti sociali: ma non per questo possiamo dire con certezza che certe mentalità siano state totalmente superate.
Ma proviamo a riprendere in mano il brano di Vangelo di oggi. Il dialogo tra Gesù e i suoi discepoli ha come tema esclusivamente la fede. Gesù vuole sapere dai suoi discepoli qual è il « Credo » della gente, cosa « crede » la gente di lui; non vuole sapere come si comportano nei suoi confronti o quali scelte di vita fanno sulla scorta del loro rapporto con lui. Il piano morale è da Gesù lasciato a un lato. Ciò che gli importa è l’incontro che l’uomo ha con lui, non i comportamenti che deve attuare per poterlo incontrare.
E la gente comune dimostra di saper coglie in maniera ingenua, elementare, ma molto sincera, su che piano si gioca il rapporto con Gesù: entrare in relazione con lui vuol dire scoprire in lui un grande profeta, un uomo profondamente innamorato di Dio, come lo furono il Battista, Elia, e altri grandi profeti del passato. Un uomo capace di fare incontrare l’umanità con Dio: non certo un uomo che dica quali norme si dovessero rispettare per potersi dire figli di Dio.
Quelle della gente sono dichiarazioni belle e importanti: ma non bastano. Gesù è molto di più. Gesù è il Figlio di Dio, e come tale va riconosciuto. E dal momento che nessuno dei discepoli sarebbe potuto giungere ad affermarlo, ecco l’ispirazione del Padre suggerita al cuore e alle labbra di Pietro: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente ». L’affermazione di Pietro è un’affermazione di fede: e la beatitudine nella quale Gesù lo accoglie viene propriamente da questa scoperta di fede, dall’aver compreso chi è veramente Gesù Cristo.
Le cose vanno bene finché si rimane sul piano della fede. Quando, qualche versetto più avanti, Pietro ha la pretesa di dire a Gesù cosa deve o non deve fare, rimproverandolo perché aveva annunciato il mistero più grande di Dio, ovvero la sua morte e risurrezione, il Maestro lo ricaccerà al suo posto, sul piano della fede, ordinandogli di smetterla di comportarsi da avversario, da satana, perché aveva avuto la pretesa di dire al Maestro, con criteri puramente umani, ciò che doveva o non doveva accadergli.
Quando la fede pretende di determinare non solo i comportamenti degli uomini, ma anche i pensieri e i modi di attuare di Dio, la fede muore. Dio si accetta e si proclama nella fede per ciò che Egli è e per come Egli si rivela. E Gesù Cristo va annunciato agli uomini come Figlio di Dio e come Salvatore. L’unica pretesa che possiamo avanzare nei suoi e nei confronti dei fratelli è che tutti gli uomini possano incontrarlo, scoprirlo, amarlo.
Il resto, sono solo nostre supposizioni, e pretese puramente umane.

20 agosto: San Bernardo di Chiaravalle

dal sito:

http://www.medio-evo.org/bernardo.htm

San Bernardo di Chiaravalle

 L’ultimo padre del Medio evo

E’ impossibile non unirsi a tutti coloro che hanno scritto e commentato la figura di San Bernardo di Chiaravalle. Questo figlio di nobili borgognoni è l’ultimo dei “padri” del monachesimo benedettino, e con lui la vocazione monastica giunge ad uno dei punti più alti della storia. Nato intorno al 1090 presso Digione, nel castello paterno, figlio di nobili cavalieri, ebbe una educazione tipicamente feudale, ed incarna in sé quello spirito che fu dei monaci e dei cavalieri medievali, fatto di preghiera e combattimento, ascetismo e disciplina, una disciplina spirituale che somiglia molto a quella cavalleresca. Da piccolo entra nella scuola dei Canonici di Châtillon, una delle più importanti della Borgogna, dove studia gli scrittori latini e i padri della Chiesa. Dopo la morte della madre, a cui egli era molto legato, nel 1107, entrò in una crisi che gli fece sentire lontano quel mondo di “donne cavalier armi ed amori” che era proprio della sua famiglia, e forte invece il desiderio di cercare e trovare Dio nella pace e nella quiete del monastero, lontano dal fragore e dalla violenza del mondo. Così a ventidue anni, nel 1112 si reca a Citeaux, nel monastero diretto da Stefano Harding, assieme a trenta compagni. Questo arrivo segnerà una svolta non solo per il monastero, ma nella storia della Chiesa e dell’ Europa occidentale. Anche se differenti nel temperamento, Bernardo fece propria l’idea che aveva ispirato San Roberto di Moleste, Alberico e Stefano. Questi si erano allontanati da Moleste nel 1098 per recarsi in un luogo solitario a 20 chilometri da Digione, in un luogo chiamato Cistercium, per seguire uno stile di vita più semplice e più rigoroso, recuperando lo spirito e la lettera dell’antica regola benedettina, ormai inficiati dalla grande potenza temporale acquisita dai monasteri clunicensi. Il luogo originale, in cui Bernardo condivise i primi anni di una rigorosa vocazione, stava però stretto a Bernardo, che, in cerca di solitudine, ma anche di luoghi aperti e ameni per essere a più stretto contatto con Dio, lasciò Citeaux. Il nuovo luogo sarà ancor più distante dal consesso civile, e si chiamerà Clairvaux , in italiano Chiaravalle. Qui divenne abate e qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1156, nonostante numerosi viaggi, dispute ( celeberrima quella con Abelardo), la predicazione della seconda crociata e l’amministrazione spirituale di un ordine, che alla sua morte contava più di 300 monasteri.
Possiamo dire che i quattro padri dell’ordine cistercense fondarono una vera e propria scuola di spiritualità, di cui San Bernardo costituisce il maestro indiscusso ed il punto di riferimento per le future generazioni di monaci. La sua devozione per la vergine Maria e per il Bambin Gesù rimane una caratteristica della sua spiritualità. La tradizione di chiudere la giornata di preghiera con il Salve Regina deriva proprio da una sua idea. Egli prediligeva per la preghiera luoghi aperti ed ameni, valli luminose ed vicine ai corsi d’acqua. Da qui l’abitudine, tutta cistercense, di fondare monasteri nelle valli. Ben tre città in Italia ci ricordano quindi, con il nome Chiaravalle, la loro fondazione per opera dei monaci di San Bernardo. Umiltà, amore verso Dio con un cammino di unione del cuore, duro lavoro nei campi e profonda devozione mariana sono alcuni dei tratti della spiritualità di San Bernardo. Spirito che si riversa anche nelle strutture architettoniche dei monasteri e delle chiese abbaziali, prive o quasi di decorazioni e tutte slanciate verso l’alto. La sua riforma spirituale quindi segna il passaggio nell’arte dal romanico al gotico. Egli, come tutta la spiritualità monastica, vede la vita spirituale come un cammino fatto di gradi di perfezione, per essere sempre più uniti all’amore di Dio. Amore che si riversa poi sul prossimo, in quanto si ha la piena consapevolezza di essere tutti peccatori.  Egli fu anche scrittore molto prolifico: trattati, lettere, prediche, poemi, un “corpus” di scritti che occupa un posto molto rilevante nella storia medievale, e che lo pone come il terzo “padre” medievale, dopo S. Gregorio Magno e S. Benedetto da Norcia. Tra le opere più importanti si possono ricordare « De gradibus humilitatis et superbiae », « De gratia et libero arbitrio », « De diligendo Deo ». Egli fu quindi quel faro di luce spirituale che avrebbe illuminato tutta l’Europa occidentale del XII secolo. Fu infatti capace di recuperare in maniera originale  e geniale tutto il pensiero cristiano precedente a lui, pur in una prospettiva monastica e benedettina. Egli, a differenza dei clunicensi, non vede infatti l’uomo semplicemente come un peccatore, ma come una creatura buona, capace cioè di recuperare sempre la dimensione d’amore verso Dio e verso il prossimo. L’uomo, con il peccato ha deformato questa immagine, ma proprio attraverso l’ Incarnazione del Figlio di Dio e la disponibilità di Maria Santissima,  Dio può riformare l’uomo a sua immagine. L’uomo è chiamato a prendere parte a questa opera, con la conversione e l’ascesa dell’anima verso Dio, descritta nel trattato De diligendo Deo. L’Incarnazione quindi occupa un posto centrale nella spiritualità cistercense. Questa esperienza chiama l’uomo alla sequela di Cristo, fatta nell’oscurità della fede, si attua nella carità.
Ma San Bernardo non fu solo un mistico chiuso in un monastero, lontano dal mondo e tutto teso alla ricerca spirituale di comunione con Dio. Egli, spirito indomito e combattente, vero cavaliere dello Spirito, partecipò attivamente anche alle turbolente vicende della Chiesa e dell’Europa occidentale del suo tempo. Infatti predicò, su ordine di papa Eugenio III,  la seconda Crociata, quella di Luigi VII, Riccardo Cuor di Leone e Federico Barbarossa (1148-1151), aiutò papa Innocenzo II, fuggito a Cluny dopo l’elezione dell’antipapa Anacleto. Al Concilio di Etampes, grazie al suo intervento, il re Luigi VI  riconobbe Innocenzo come il legittimo papa. Intervenne anche al famoso Concilio di Troyes (1128) che segna la fondazione dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio (Templari), un mito ancor oggi intramontabile. Per la prima volta infatti i due ordini, bellatores e oratores , cioè cavalieri e monaci, distinti nella società feudale, vengono fusi in uno solo, con lo scopo di difendere i pellegrini in Terra Santa e i luoghi della vita di Cristo. Fu anche impegnato nella disputa con Abelardo e con i nuovi maestri di filosofia che ai suoi occhi pretendevano di spiegare la fede con la ragione, ed alla fine ne ottenne la condanna al concilio di Sains (1140). Erano due personalità forti, i due, ed esprimevano, ognuno nella sua ottica, due modi di vedere il ruolo della fede e della ragione che sono ancor oggi presenti in terra di Francia.
     In effetti San Bernardo rivolse parole di esortazione e di rimprovero, di incoraggiamento e di aiuto, di luce  spirituale e di fede a tutte le categorie della società del suo tempo, divenendo un punto di riferimento per la sua epoca. Senza di lui il XII e la civiltà feudale che egli rappresenta forse non sarebbe stata gli stessi. Ma fondamentalmente egli fu prima di tutto un uomo di preghiera in un tempo di guerre, crociate, odi e violenze private. Mi ha colpito molto una frase che introduce il suo “De diligendo Deo”, quando all’inizio dice:

“In Dio voglio vivere e in Dio morire: per me preghiere e non domande.”

(Domino vivere et in Domino mori. Orationes a me et non quaestiones)

Un uomo che quindi prediligeva la preghiera alle dispute filosofiche (dette appunto quaestiones)  e che preferì la quiete del monastero alla nobile arte della cavalleria e della guerra. Una scelta quanto mai attuale.
——————————————

Ecco un brano tratto dalla « Patrologia Latina Database » in francese medievale.

[CONOSCENDO IL FRANCESE UN PO' SI LEGGE]

CI ENCOMENCENT LI SERMON SAINT BERNAVT KIL FAIT DE LAVENT ET LES ALTRES FESTES PARMEI LAN.

Nos faisons ui, chier freire, len comencement de lavent, cuy nons est asseiz renomeiz et conuiz al munde, si cum sunt li nom des altres sollempniteiz, mais li raisons del nom nen est mies per aventure si conue. Car li chaitif fil dAdam nen ont cure de veriteit, ne de celes choses ka lor salveleit apartienent, anz quierent . . . les choses . . . faillanz et trespessaules. A quel gent . . . nos semblans.. les homes de ceste generation, ou a quei gent evverons nos ceos cunos veons estre si ahers et si enracineiz ens terriens solaz, et ens corporeiens kil repartir ne sen puyent? Certes semblant sunt a ceos ki plongiet sunt en ancune grant auve, et ki en peril sunt de noier. Tu varoyes kil ceos tienent, kes tienent, ne kil par nule raison ne vuelent devverpir ceu ou il primier puyent meltre lor mains quels chose ke ce soit, ancor soit ceu tels choses ke ne lor puist niant aidier, si cum sunt racines derbes ou altres tels choses. Et si ancune gent vienent a ols por ols asoscor, si plongent ensemble ols ceos kil puyent aggrappeir ensi kil a ols nen a ceos ne puyent faire nule ajué. Ensi perissent li chaitif en ceste grant mer ke si es large, quant il les choses ki perissent ensevent et les estaules layent aleir, dont il poroyent estre delivreit del peril ou il sunt . . . prennoyent et salveir lor airmes. Car de la veriteit est dit, et ne mies de la vaniteit, Vos la conessereiz, et ele vos deliverrat. Mais vos, chier freire, a cuy Deus revelet, si cum a ceos ki petit sunt celes choses, ke receleis sunt as saige et as senneiz, vos soiez entenduit cus encenousement envor celes choses, ke vrayement apartienent a vostre salveteit: et si penseiz di merrement a la raison de cest avenement, quareiz et encerchiez ki cest soit ki vient, et dont il vient, ou il vient, et por kai il vient, quant il vient, et par quel voie il vient. Certes molt fail aloeir ceste curiositeit, et molt est saine. Car tote sainte Eglise ne celeberroit mies si devotement cest avenement, saucuens grant Sacrement ne estoil en lui receleiz.
Il testo latino del trattato « De diligendo Deo »

Mat-28,16 Apostles Missioned

Mat-28,16 Apostles Missioned dans immagini sacre 19%20ICONE%20RUSSE%20LA%20TRINITE

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-28,16_Apostles_Missioned_Misson_apostolique/index5.html

Publié dans:immagini sacre |on 18 août, 2011 |Pas de commentaires »

Lo stupore di essere amati – I parte – (Divo Barsotti)

dal sito:

http://www.figlididio.it/meditazioni/index.htm

DIVO BARSOTTI

Lo stupore di essere amati

Modena, 25 febbraio 1973

Letture:
 
Os 2,16-17b.21-22
Così dice il Signore: Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore.
 
2 Cor 3,1-6;
Fratelli, forse abbiamo bisogno, come altri, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? 2 La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. 3 E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori. 4 Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. 5 Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, 6 che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dá vita.
 
Mc 2,18-22
Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 19 Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. 20 Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. 21 Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. 22 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».

Omelia

Alleanza d’amore…
In generale, la Prima Lettura ha un accordo più profondo con il Vangelo, mentre la Seconda può essere anche indipendente dalla Prima e dalla Terza.
Oggi il tema fondamentale che la Liturgia della Parola ci propone, è il tema dell’alleanza, considerata e veduta nella luce delle nozze. Tale argomento, si fa presente prima di tutto nella Sacra Scrittura, proprio nel profeta che ha dato alla Liturgia di oggi la Prima Lettura.
È il testo più bello del profeta Osea. Testo di meravigliosa bellezza ed anche intuitivamente facile per l’anima che ascolti, facile per introdurci nella comprensione del mistero dell’alleanza divina.
Un Dio che, gelosamente, ti vuole tutto per sé e ti strappa a tutte le tue consuetudini, alla tua vita comune, per portarti nel deserto. Un Dio che non permette, in te nessun pensiero, nessuna preoccupazione, nessun affetto che ti sottragga a Lui. Tu devi essere tutto per Lui come Egli è tutto per te.
È in questa solitudine, Dio solo per l’anima e l’anima solo per Iddio, che Dio parla al cuore dell’uomo; e l’uomo, ora, è capace di accogliere questa dichiarazione d’amore che Dio gli fa. Dichiarazione d’amore che è prima di tutto, l’espressione di una elezione libera che Dio fa della sua creatura: Egli le dice ti amo! Ma è anche l’esigenza di una risposta; altrimenti non sarebbe vero amore, perché nessuno ama se non vuole essere amato.
 
…alleanza nuziale…
Questo amore è amore nuziale. Una madre può anche amare e non chiedere amore, ma uno sposo non può amare se l’altra non ama. L’amore di uno sposo, l’amore di una fanciulla che si dona a un altro, esige una risposta. L’amore nuziale è sempre un amore vicendevole che implica il dono dell’uno all’altro. Questo è anche l’amore che Dio ti offre e che Egli ti chiede.
Non vi sembra che il testo del profeta Osea ci riguardi in un modo particolarissimo? Non vi sembra che il profeta Osea, più di ogni altro profeta, ci dica in realtà quello che deve essere per noi la nostra vita di consacrazione? Una alleanza nuziale. Lo sappiamo bene: tutti sono chiamati a vivere questa alleanza, se vogliono entrare nel cielo. Ma per noi s’impone di anticipare già quell’unione di amore così esclusiva che è propria di due sposi, i quali sono l’uno per altro e non vivono più che l’uno per l’altro. Ed è Dio che vive per te e sei tu che vivi per Lui.
Il problema, però, rimane sempre quello; cioè, la realtà dello sposo. Non ci si può certo dare a chi non è realmente presente e non ci manifesta il suo amore. Perchè l’alleanza nuziale si realizzi, l’unione esige la realtà concreta, viva, presente, dell’uno e dell’altro. Ecco quello che ci dice oggi il profeta Osea. È importante per tutti noi, se vogliamo vivere la nostra vita religiosa, se vogliamo vivere la nostra vita di consacrazione.
 
…nel deserto del raccoglimento interiore
Che cosa ci dice il profeta Osea? Che noi possiamo incontrare Dio solo nel deserto. È Dio che ci attira a sé, ci strappa da tutte le cose, perché noi sperimentiamo più profonda e viva la sua presenza reale fra noi. Distratti da tante cose umane, portati via da preoccupazioni e pensieri, l’anima nostra non è capace di accogliere la parola di Dio e di ascoltarla, non è capace di sperimentare la sua presenza. Perché Dio divenga reale per noi bisogna che le cose non abbiano più un dominio troppo grande su di noi. Ci vuole, cioè, un certo raccoglimento interiore. Ve lo posso chiedere? Certo, ve lo debbo chiedere, anche se vivete nella famiglia, accanto al marito e ai figli.
Se volete vivere una vita religiosa intensa, se volete conoscere Dio, se volete che Dio entri nella vostra vita e la riempia di sé, se volete conoscere la dolcezza del Signore, se volete conoscere quanto Egli sia dolce e soave, dovete cercare di coltivare un certo raccoglimento interiore, dovete anche voi crearvi un certo deserto. Sarà un deserto diverso da quello delle carmelitane; più difficile certo, ma non per questo meno necessario. Voi dovete evitare tutto quello che non è conforme ai vostri doveri di stato, alla vostra funzione, alla situazione concreta nella quale Dio vi ha poste. Non dovete riempire la vostra vita di cianfrusaglie che non hanno alcuna importanza per la vostra stessa vita di donne di casa, o di madri di famiglia.
L’uomo di oggi è, di per sé, negato alla vita religiosa perché non ha più il tempo di rientrare in sé, non ha il minimo di disponibilità interiore per ascoltare un’altra parola. Quanti sono gli uomini i quali non hanno più nemmeno il tempo, e non lo cercano neppure, di riflettere su se stessi! E come potrebbero ricordarsi di Dio? Viviamo una vita troppo dissipata; cerchiamo continuamente di disperderci perchè non sopportiamo il peso della vita. E questa vita, senza senso, sembra non avere più ragione alcuna: ci mangia, ci divora, giorno per giorno. E il lavoro, il divertimento, gli spettacoli, si moltiplicano per rendere sempre più difficile all’uomo di ritornare sopra di sé.
Guardate questi giovani i quali, perfino studiando, hanno bisogno di tenere accesa la radio; non possono accettare più il silenzio, non hanno più la capacità di vivere dieci minuti da soli, con se stessi. E obbligarli alla prigione, tenerli un poco a vivere da soli, perché il silenzio e la solitudine sono per loro i peggiori castighi.
 
L’assenza di Dio
E come volete che, in queste condizioni, l’anima possa vivere una vita religiosa? E non la vivono. Ordinariamente Dio è assente da queste anime. Non hanno la minima possibilità che Dio possa parlare al loro cuore, possa entrare nella loro vita, possa comunicare al loro spirito.
Vedete, miei cari, non è cattiveria l’incredulità moderna; non è cattiveria il rifiuto nei confronti di Dio, ma è dovuta al fatto che gli uomini non hanno più una dimensione religiosa. Manca loro la condizione prima per poter vivere una vita religiosa. Manca persino a questi giovani il modo di essere uomini: sono strumentalizzati e non se ne accorgono; fanno delle contestazioni ma, in fondo, sono strumentalizzati o da quel partito o da quell’altro potere e non se ne rendono conto. Non vivono la loro propria vita, non hanno la possibilità di viverla, non conoscono nemmeno più l’amore. Senza conoscere l’amore, cadono nei peggiori vizi, precipitano nel peccato e basta. Tutta la vita è solo una droga; non si cerca altro che di dimenticare e di perdere se stessi. Il peso di sé è diventato impossibile da sopportare per gli uomini di oggi e si cerca soltanto di affondare nella ubriachezza che può essere data dal denaro, dal divertimento, dal peccato, a danno della propria vita, di un disegno proprio da realizzare, di un programma da vivere, di un amore da accettare.
Come volete che in queste condizioni si possa vivere una vita religiosa? Non si vive nemmeno una vita umana! Mai, forse, l’uomo si è trovato in una condizione così grave come oggi. Si parla tanto di civiltà, ma oggi l’uomo è davvero in pericolo. E lo Stato, il Partito, o qualsiasi altro potere, che cosa fanno? Ti danno tutto perché tu non abbia modo di sottrarti al loro potere, perché tu venga strumentalizzato. Il Partito ti dà quello che tu desideri. Magari ti si dà lo stipendio anche di diecimila lire al giorno: però tu non devi vivere la tua vita, non devi avere più il tempo di stare con i tuoi figli, di avere un tuo amore, di avere una tua libertà interiore, di pensare con la tua testa. Devi pensare col giornale, trovare tutte le possibilità, senza mai vivere per te. Tanto meno potrai vivere per Iddio.
 
Essere liberi per essere disponibili
Ecco quello che ci dice il profeta Osea. Che cosa? « Vuoi tu ascoltare la parola di Dio? Vuoi che la parola di Dio giunga al tuo spirito? Egli deve condurti nel deserto: e tu devi fare un certo silenzio nel tuo intimo, devi dare alla tua anima una certa libertà ». Per andare nel deserto bisogna che tu sia libero; altrimenti sei incatenato e non puoi camminare.
Dunque, la prima cosa che s’impone per noi, se vogliamo vivere una vita religiosa, è questo raccoglimento. Un certo raccoglimento è necessario per tutti; non soltanto per le monache di clausura.
E poi, voi avete la vocazione di monache di clausura vivendo nel mondo. Monache no, ma vivere una vita contemplativa, sì. E si è sempre detto, che una vita contemplativa, implica di per sé un certo raccoglimento interiore.
Indipendentemente anche da una vocazione religiosa, quale quella propria della Comunità, un’anima religiosa non può continuare a vivere la sua vita se non si rende disponibile alla grazia. Come volete che Dio sia il vostro sposo, come volete che Dio sia la vostra vita, se voi non siete disponibili per Lui? Se non avete mai nessuna disponibilità per poter accogliere il suo amore, per poter ascoltare la sua parola, per poter vivere con Lui? Ebbene, se l’alleanza con Dio è un’alleanza di amore, anche voi dovete rimanere disponibili a Lui per poter ascoltare la sua parola, per poter vivere nella sua intimità, per poter gustare questo rapporto d’amore che deve sempre più legarvi al Signore così come il Signore si è legato a voi per sempre. Disponibilità nei confronti di Dio e un certo raccoglimento interno.
 
Silenzio e solitudine…
Che vuol dire raccoglimento? Qui il profeta Osea, ci parla del deserto. Che cosa vuol dire questa parola per noi? Vuol dire che il cristiano, che vuol vivere una vita cristiana, è impegnato a procurarsi un certo raccoglimento interno. Se non puoi tutto il giorno, troverai almeno dieci minuti per raccoglierti in camera tua, troverai dieci minuti anche se svolgi il tuo lavoro in cucina, per restare sola con Dio; o troverai cinque minuti per raccoglierti, almeno in chiesa, davanti al Signore. Devi cercare questi minuti di silenzio; non devi mai lasciarteli portar via. Devi difenderli, non soltanto cercarli. Non fare come i giovani di oggi che vogliono soltanto distrarsi perché non sopportano le zone di silenzio.
Le zone di silenzio sono le più belle. Ora lo sentono anche quelli che vivono in città i quali, non per nulla, cercano di farsi la villetta in campagna perché non sopportano più tutti questi rumori. Ebbene, se anche sul piano fisico, gli uomini non sopportano il rumore per non diventare nevrotici, questo s’impone anche per la vita spirituale. Cercate di coltivare, di difendere le zone di silenzio della vostra vita. E il vostro silenzio non deve essere un silenzio vuoto. Il vostro silenzio lo sapete che cos’è? E disponibilità pura ad una presenza d’amore.
Dio, che è eterno, è sempre amore. Amore per me, amore per voi. Se noi facciamo silenzio, ecco, ascoltiamo la sua parola, che è parola d’amore; viviamo l’esperienza di una intimità dolcissima. Dio si comunica a noi proprio quando siamo soli: allora conosciamo la comunione vera dell’amore. Quando, invece, noi fuggiamo la solitudine, è proprio allora che non conosciamo l’amore. L’amore esige una certa solitudine. Non puoi vivere una tua intimità, così dolce e segreta, se non cerchi di sottrarti a tutti gli altri rumori.
 
…per accogliere l’amore…
E così anche nella tua unione con Dio. Se ci si sottrae ai rumori, se si cerca il silenzio, non è per vivere nel silenzio, ma perché il silenzio rende più facile e più dolce l’esperienza di questa comunione con Dio. Basta che tu faccia il vuoto e il vuoto è ripieno di amore. È perché non facciamo il vuoto, che Dio è un estraneo e non può entrare nella nostra vita. È perché non andiamo in solitudine, che questa solitudine non è piena di una misteriosa presenza. È perché non facciamo silenzio che non riusciamo ad udire la parola di Dio. Dio ci conduce nella solitudine, ci conduce nel deserto; vuole da noi questa raccoglimento e allora ci parla. Quale parola ci dice? Una parola che giunge direttamente al cuore ed è parola di amore. Per ciascuno, Dio non è tanto il giudice, Dio non è tanto il Santo: è l’amore che si dona, è l’amore che ci vuole per sé e tutto si vuole offrire a noi. È la presenza di amore.
Nell’unione coi nostri cari, la cosa più grande è il vivere questa comunione con Dio che, sola, dà poi il contenuto ultimo di gioia ad ogni nostro affetto: la nostra comunione d’amore è tutta penetrata, è tutta trasfigurata da una presenza divina.
L’amore umano può stancare, affaticare, divenire oppressivo qualche volta e chiedere, qualche volta, più pazienza che dare gioia. Credo sia questa la vostra esperienza. Nella misura che l’amore di Dio non trasfigura e trasforma anche i nostri rapporti familiari e di amicizia, l’amore umano può divenire soltanto esercizio di virtù, di pazienza, privo di gioia e di dolcezza.
 
…e dare l’amore…
Miei cari, vivete questa comunione con Dio e cercate che sia l’alimento primo della vostra vita. È una vita d’amore quella che il cristianesimo vi offre e vi invita a godere. Ed è l’amore più alto, l’amore più puro, l’amore che santifica ogni altro amore, l’amore che rende fedeli ad ogni altro amore: l’amore stabile, vero, santo, dolcissimo. Fate sì che la comunione con Dio sia l’atto supremo della vostra vita; il contenuto più vero, più profondo, continuo della vostra esistenza cristiana: così anche tutta la vostra vita umana sarà trasfigurata, diverrà nuova, più piena, più pura, più grande, più luminosa, più viva.
Oh, Dio non è geloso dei nostri amori perché, in fondo, in ogni nostro amore noi possiamo amare Lui, se è vero amore. Fate in modo, allora, che ogni vostro amore sia l’espressione stessa della vostra comunione con Dio, comunione che rimane vera: è questa la garanzia anche della vostra felicità familiare. Dio non rinuncia a nulla di voi: Egli vi ha donato amore e pretende amore, amore totale. Ne viene che l’amore per i vostri cari è incluso in questo medesimo amore per Iddio. Non vi è lotta, non vi è alterità fra questo amore di Dio ed ogni altro amore, anzi: ogni amore è fecondato, è alimentato, giorno per giorno e voi ben lo sapete, dall’amore di Dio.
 
…in una vita ricolma di pace e di gioia
Perché siete così pazienti, così dolci, così pronte al sacrificio e ad accettare il dolore? Perché l’amore di Dio alimenta in voi ogni virtù e vi rende possibile una pazienza, una fedeltà che, qualche volta, non sarebbe tanto facile possedere. Così una madre impara, dall’amore di Dio, come si deve amare nel sacrificio, nella dedizione continua, tante volte senza ricevere nulla, almeno apparentemente; impara ad amare di un amore di speranza, che continua fino alla fine perché è riposta soltanto in Dio che non inganna, anche se i figli sembra abbiano sempre a deludere. La madre impara a riposare in Dio, tranquilla, perché l’amore per i figli non è altro che l’espressione di amore verso Dio. Se la speranza riposa in Dio, darà un giorno il suo frutto.
Miei cari, bisogna amare così. Tutta la vita è amore, amore di Dio che penetra e trasforma, dando una serenità, una pace, una gioia profonda che nessuno può rapirci: nemmeno la morte ha la capacità di strapparci questo amore, dal momento che l’amore è Dio, Dio che vive nel cuore dell’uomo, Dio che è l’Eterno.
« Io ti sposerò nella fedeltà dice il Signore nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore ». Nella fedeltà, e tu la conoscerai; non temere!
 
L’amore di Dio trasforma
Voi siete consacrate al Signore o siete nell’attesa di questa consacrazione che non fa che ripetere la vostra consacrazione battesimale. Ebbene, rendetevi conto che quella consacrazione che voi avete fatto, o state per fare, è il vostro matrimonio con Dio, la vostra unione, cioè, che rimane indissolubile, che vince anche la morte. E in questo amore, e in ogni altro amore, voi siete sicure, non solo di salvare voi stesse, ma di salvare tutti coloro che amate. Perché Dio non può separarvi: Lui, che santifica l’amore, non può separarvi da coloro ai quali l’amore vi unisce. Egli vi sposa nella fedeltà: la fedeltà di Dio! Vi sposa nella benevolenza e nella misericordia di un amore che dimentica tutto, che vi rinnova completamente fin nell’intimo, un amore che vi dà, ogni giorno, una nuova giovinezza.
Miei cari, questa è la differenza fra l’amore umano e l’amore divino: l’amore degli uomini vi trova quello che siete e vi lascia quello che siete; invece l’amore di Dio vi fa oggetto del suo amore. L’amore dell’uomo riconosce quello che l’altro è e non ha la capacità di rinnovare l’oggetto del suo amore, non ha la capacità di rendere sempre giovane e fresco colui che ama: ma l’amore di Dio può tutto questo e lo fa.
Ecco, quello che vorrei dirvi: amate il Signore; cercate Dio, e l’amore di Dio vi farà come Egli vi vuole. Gli uomini possono soltanto amare quello che hanno scelto e che è soggetto all’usura del tempo e della malattia, coi limiti di un carattere, di un temperamento, di tanti difetti. Dio non è così. Egli, che vi ama, vi trasforma secondo il suo amore, e se voi corrispondete all’amore divino, diverrete sempre più degne di questo stesso amore: e vi rinnoverà nella vostra giovinezza, vi farà sempre più partecipi della sua medesima gioia, vi farà simili a sé. Quello che l’amore umano non può fare, l’amore divino può farlo. E Lui che vince la morte, la fa vincere a voi perché Egli non la conosce, vi trasforma sempre più secondo l’immagine sua. Amate il Signore!
Mi sembra ci dica questo la prima Lettura ed è sufficiente. È sufficiente anche per celebrare, oggi, la consacrazione di due nuove sorelle nostre, chiamate ad ascoltare, in modo anche più profondo, la parola di Dio: « Ti condurrò nella solitudine, nel silenzio; là parlerò al tuo cuore ». Voglio essere tutto per te e voglio che tu sia tutta per me: in questo scambio di amore tu vivi, già ora, una vita di gioia, di purezza, di pace.
Da oggi, non conoscerai più che l’amore, l’amore che si dona a tutti i fratelli. Che tu viva, in questo amore, un servizio umile e sereno e che gli altri riconoscano in te la presenza divina.
 
Prima meditazione
Il dono di Dio
Ricordate le parole che chiudevano la prima Lettura che abbiamo ascoltato stamani?
« Io ti sposerò nella giustizia e nel diritto, ti sposerò nella benevolenza e nell’amore, ti sposerò nella fedeltà e tu conoscerai il Signore ». È una promessa. La prima cosa che dobbiamo, dunque, meditare è questa: Dio parla; ogni sua parola apre all’anima sempre nuovi orizzonti di bellezza e di luce. Quanto più Dio si dona, tanto più Egli promette.
Nella vita presente, il dono di Dio non è mai definitivo, ma è sempre un anticipo di quello che Egli darà, è sempre una promessa che apre ad una speranza sempre più grande, ad un desiderio più vivo. « Io parlerò al suo cuore ». « Ti sposerò ». Lo dice il Signore. L’anima e Dio non sono più che l’una per l’Altro in questo raccoglimento, in questa solitudine in cui l’amore li ha condotti. E sembrerebbe che nulla potesse esserci di più grande di quella intimità che si è stabilita fra Dio e l’anima, in questa comunione d’amore che già l’anima vive col suo Dio che l’ha scelta. Tuttavia l’incontro non fa che aprire l’anima a nuove prospettive d’amore, ad un nuovo cammino di luce e di bellezza.
 
Il cammino dell’uomo…
« Ti sposerò ». È uno dei caratteri della vita spirituale. Non si vive la vita spirituale se non in un continuo crescere e dilatarsi dell’anima nella speranza e nella gioia. Le virtù teologali hanno un inizio, ma non hanno una fine. Perché? Perché hanno per oggetto Dio che è l’Infinito, che è l’Eterno. Ma non hanno fine anche nel loro crescere, non solo perché non terminano mai, ma perché crescono indefinitivamente senza mai trovare un termine ultimo, una meta. Tanto più vivi nella fede, tanto più la fede esige da te fermezza e ti dona luce; tanto più il Signore ti dona speranza, tanto più cresce nel tuo cuore questa certezza dei beni futuri, questo aprirsi dell’anima ad accogliere Dio.
La speranza, che cos’è? È una virtù per la quale il tuo desiderio, il desiderio della natura è divinamente efficace perché si appoggia sulla parola di Dio e tu desideri Dio, e tu speri che Dio sia la tua felicità. Ora, il paradiso non è carità in quanto implica il possesso di Dio. E perché? Perché vi è un duplice amore: un amore di concupiscenza e un amore di benevolenza: l’amore di concupiscenza è l’amore cui risponde la speranza. Il possesso è la perfezione, è la tua beatitudine. L’amore, di per sé, non è negato alla beatitudine; l’amore è dono di sé.
 
…vivere di Dio Qual è l’amore puro? Vi ricordate quello che scrive Charles de Foucauld in uno dei suoi ritiri, quando era in Africa? « Signore, io mi trovo in una tale desolazione, in un tale vuoto e mi sembra che Tu neppure esista; però so che Tu sei beato; ed io sono beato perché Tu sei beato ». Ecco l’amore. L’anima, in sé, non vive altro che desolazione ed aridità, però è beata perché il Signore è beato; non vive di sé, ma vive di Dio. Questo è l’amore di benevolenza, l’amore puro, senza riferimenti a sé, l’amore che non implica tanto il possesso, quanto il dono di sé. Però vi è anche l’amore di possesso ed io non posso farne a meno. Il paradiso è la mia beatitudine; il paradiso è il possesso di Dio e costituisce la speranza attuale. Non è l’amore, è la speranza attuale, è l’amore di concupiscenza. L’amore che è possesso, è beatitudine per te.
Così la fede: è un appoggiarsi a quello che Dio ci dice di sé: noi non vediamo coi nostri occhi, ma ci limitiamo a quello che Dio ci rivela di se stesso, o ci rivelerà domani. Domani vedremo Dio coi suoi medesimi occhi, cioè la fede ci porterà alla visione. E noi non potremmo nemmeno vivere la carità eterna, l’eternità dell’amore, se non vivessimo la visione beatifica: è dalla visione beatifica che deriva l’amore. Per questo, anche la fede ha un suo permanere eterno nel suo compimento, che è la visione.

Publié dans:MEDITAZIONI |on 18 août, 2011 |Pas de commentaires »
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