LA CENA DEL SIGNORE – 1COR 11,17-34 (P. G. Claudio Bottini ofm)
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LA CENA DEL SIGNORE – (1COR 11,17-34)
P. G. Claudio Bottini ofm
sbf – Gerusalemme
Del tema dell’Eucaristia S. Paolo tratta due volte nella 1Cor e in contesti vivacemente segnati dai problemi della comunità cristiana. Non è fuori luogo dire che è grazie alle difficoltà dei corinzi che abbiamo questi testi sublimi della nostra fede.
Il primo intervento si trova nella unità costituita da 1Cor 10,14-22 dove l’apostolo tratta il problema delle carni sacrificate agli idoli. Per dissuadere dall’idolatria porta il motivo del valore sacramentale della cena del Signore. Il calice della benedizione è partecipazione al sangue di Cristo; il pane che i corinzi spezzano è comunione col corpo di Cristo. Di conseguenza tutti formiamo un solo corpo, quello di Cristo, perché tutti di lui ci nutriamo (10,17a). L’unione dei credenti si fonda sulla partecipazione sacramentale al corpo e al sangue di Cristo, la quale a sua volta è segno della unione col Cristo nella stessa fede.
Il secondo riferimento all’Eucaristia, più articolato e più complesso, è in 1Cor 11,17-34. Informato dei gravi abusi che si erano introdotti nelle assemblee conviviali a Corinto, Paolo reagisce richiamando il contenuto della tradizione, esattamente l’istituzione della Cena, tradizione che egli dice di aver ricevuta dal Signore, e riporta le parole della istituzione. Su questo brano in cui, come vedremo, Paolo sottolinea fortemente il legame essenziale che esiste tra Eucaristia e Chiesa, tra Cena del Signore e carità fraterna, ci fermeremo in questa riflessione.
I. CONTESTO E ARTICOLAZIONE
Richiamando la divisione letteraria e tematica proposta vediamo che l’unità di 1Cor 11,17-34 si trova nella quinta parte della lettera e che abbraccia tutto il cap. 11, eccettuato il v. 1 che fa chiaramente parte dell’unità che precede. L’argomento generale può dirsi il problema posto dall’ordinamento dei raduni di preghiera a Corinto, che viene specificato poi concretamente in due temi: l’abbigliamento dei profeti e delle profetesse nelle assemblee cultuali (11,2-16), la celebrazione della Cena eucaristica (11,17-34).
Il brano di 11,17-34, in base a forma e contenuto, può essere ulteriormente diviso in due paragrafi (11,17-22; 11,23-34). Il primo paragrafo si lascia chiaramente delimitare dalla ripetizione delle espressioni « Non posso lodarvi… » (v. 17); « In questo non vi lodo » (v. 22) che fanno inclusione. Prima Paolo aveva lodato la comunità (11,2), ma ora si vede costretto a biasimarla severamente e ne dà le ragioni.
Il secondo paragrafo va dal v. 23 al v. 34. Alcuni autori lo suddividono ulteriormente, ma a me pare che esso non vi si presti facilmente, perché il procedere di Paolo è molto serrato dal punto di vista logico e formale. Paolo vi evoca la tradizione « ricevuta dal Signore » e ne mostra le conseguenze per il suo significato di atto cultuale e per coloro che vi partecipano indegnamente (vv. 23-32); poi dà delle regole pratiche di comportamento ai corinzi.
Quanto al vocabolario vale la pena notare la ricorrenza insistente e significativa dello stesso termine « convenire / radunarsi » che ricorre ben cinque volte (vv. 17.18.20.33.34 cf. anche i termini concettualmente affini: « in assemblea », v. 18, « insieme »,v 20) e della terminologia giudiziaria: « colpevole » (v. 27), « condanna / condannare » (vv. 29.32), « giudicare » (vv. 31.32) a cui si possono aggiungere per affinità concettuale anche i termini: « in assemblea » (v. 18), « insieme » (v. 20), « Chiesa di Dio » (v. 22). E’ evidente il contrasto con « divisioni » (vv. 18.19), « proprio pasto » (v. 21) e gli atteggiamenti individualistici. La compattezza dell’intero brano è segnalata anche dalla formula di inclusione che si rileva al v. 17 (« poiché vi riunite… per il peggio ») e il v. 34 (« perché non vi riuniate a vostra condanna »).
All’interno dell’unità letteraria i versetti da 23 a 26, che riferiscono la memoria eucaristica ricevuta e trasmessa da Paolo, spiccano per contenuto e formulazione. Al centro vi è il racconto, di cui Gesù è protagonista. Lo incorniciano gli interventi di Paolo che dichiara di aver ricevuto e trasmesso tale tradizione / racconto e ora ne interpreta il significato.
II. AMBIENTE VITALE
Come si svolgevano a Corinto le assemblee conviviali e quali erano le cause delle divisioni? E’ difficile dare una risposta dettagliata e precisa. Gli studiosi cercano di delineare il quadro ambientale utilizzando gli elementi offerti dal testo paolino, dalla tradizione cristiana delle origini sull’Eucaristia e dalle testimonianze dell’ambiente giudaico e greco-romano sulle riunioni conviviali.
Un punto fermo per la ricostruzione è la distinzione che Paolo fa tra la « Cena del Signore » (v. 20) e il « proprio pasto » (v. 21). Per « Cena del Signore » si intende chiaramente la consumazione del pane e del vino secondo il comando del Signore che l’apostolo dice di aver ricevuto e trasmesso ai corinzi. « Ma non si riduce a questo; tra il mangiare e bere il calice, su cui erano pronunciate le parole interpretative e oblative di Gesù, si consumava un pasto vero e proprio, con la tavola imbandita anche di companatico, cioè di pesce e probabilmente pure di carne » (G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, Bologna 1996 564). Per « proprio pasto » si intende invece una cena profana che aveva luogo al termine del giorno e poteva consistere di abbondanti cibi e bevande. Ora Paolo dice che questa cena veniva consumata in occasione del raduno liturgico, durante il quale « ognuno » – da intendere non di tutti ma dei membri facoltosi – mangia per proprio conto con la conseguenza che alcuni giungono a ubriacarsi e altri a soffrire la fame.
In che rapporto erano i due pasti? Probabilmente il raduno liturgico della comunità aveva questi momenti: benedizione sul pane, pasto comunitario o agape fraterna, benedizione sul vino. A che punto si collocava quello che Paolo chiama il « proprio pasto »? Con certezza non si può dire, tuttavia si possono formulare due ipotesi: il cosiddetto « proprio pasto » aveva luogo prima che iniziasse il raduno liturgico con la celebrazione della « Cena del Signore »; il « proprio pasto » si svolgeva contemporaneamente all’agape fraterna tra rito della benedizione del pane e quello della benedizione del vino.
La seconda ipotesi appare meno probabile. Difficile accettare che a Corinto si giungesse a questo eccesso di discriminazione, cioè che i ricchi mangiassero un pasto privato cui non erano ammessi i poveri e per giunta in concomitanza alla celebrazione della « Cena del Signore ».
Più probabile invece che il « proprio pasto » consisteva in un’abbondante cena consumata solo dai ricchi prima del raduno liturgico della comunità. Questa ricostruzione è resa verosimile dalla stratificazione sociale della comunità cristiana di Corinto che risultava composta da una minoranza di credenti provenienti dal ceto medio e medio alto e da una maggioranza di fedeli appartenenti ai ceti più bassi della società inclusi gli schiavi.
Certamente l’adesione al Vangelo e l’appartenenza alla stessa comunità di fede aveva creato legami spirituali e comunitari tra i credenti di Corinto, ma essi non riuscivano indubbiamente a cancellare del tutto le massicce differenze e separazioni tra le classi sociali presenti nella società greco-romana e dovute alle diverse condizioni economiche. Queste si esprimevano in tante forme, a cominciare dal modo di trattare gli ospiti a tavola. Il trattamento riservato a ricchi e ospiti di riguardo non era indubbiamente lo stesso di quello tenuto con i poveri. Se a ciò si aggiunge l’eventualità che il raduno liturgico della comunità si teneva nelle case dei membri ricchi, si comprende che questi potevano portare anche una giustificazione al loro modo diverso di accogliere gli ospiti senza per questo sentirsi in colpa. E’ probabilmente in questo quadro ambientale che si devono comprendere gli abusi introdottisi a Corinto e fortemente biasimati da Paolo. « Senza troppi complimenti, i ricchi cominciavano a cenare e così, quando sopraggiungevano gli altri e aveva inizio la celebrazione della cena del Signore, sulla tavola restavano pochi avanzi. In questo modo, la cena agapica di tutta la comunità assumeva un aspetto tristemente egoistico e fortemente discriminatorio: i ricchi si godevano in pace la sazietà, mentre i poveri erano obbligati a consumare i resti del banchetto o rimanevano a stomaco vuoto » (L. D. Chrupcaa, « Chi mangia indegnamente il corpo del Signore [1Cor 11,27]« , Liber Annuus 46 [1996] 65 con ampia presentazione dei problemi e delle soluzioni prospettate da vari studiosi).
Chi aveva informato Paolo di questa situazione? Dovevano essere stati degli informatori a voce, perché egli afferma: « sento dire » (v. 18). L’apostolo se ne mostra molto preoccupato e sollecito a rimediare: rileva gli abusi e biasima la maniera di condurre le celebarzioni eucaristiche (vv. 17-22); riconduce alla norma suprema di ogni autentica celebrazione eucaristica, cioè a quanto Gesù fece (vv. 23-26); esorta e dà alcune disposizioni perché si celebri degnamente la Cena del Signore e non incorra nel suo giudizio di condanna (vv. 27-34).
L’aspetto più originale dell’istruzione paolina sta nel collegamento tra il sacramento della Cena del Signore e la comunità cristiana, tra la memoria proclamatrice della morte del Signore e la comunione fraterna espressa nel pasto in comune, tra « celebrazione del corpo personale di Gesù, donato a noi nella morte, ed esistenza nostra di solidali membra del corpo ecclesiale di Cristo »(G. Barbaglio, « L’istituzione dell’Eucaristia [Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-24 e par.]« , Parola Spirito e Vita 7 [1983] 141). Ancora una volta si vede come gli imperativi morali e spirituali di Paolo hanno degli indicativi teologici supremi. In questo caso, come un po’ in tutta la 1Cor, le motivazioni sono di natura cristologica e ecclesiologica.
III COMMENTO Restringo il commento alle cose più notevoli, tralasciando quegli elementi che sono chiari per se stessi o che ho già illustrato.
1) Gli abusi durante la celebrazione della Cena del Signore (11,17-22)
« Le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio » (v. 17). Prima di esporne le ragioni in dettaglio, Paolo anticipa qui in blocco il motivo del suo biasimo della maniera in cui a Corinto vengono condotte le riunioni. Ne siano o no coscienti i corinzi, il loro radunarsi torna a svantaggio dei partecipanti. Alla fine dell’istruzione l’apostolo lo qualificherà come un radunarsi « a condanna » (v. 34).
(2) « Quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi » (v. 18). Il verbo greco (synerchestai) tradotto con « radunarsi » qui e nel c. 14 di 1Cor designa propriamente il raduno liturgico di tutta la comunità, specialmente per la celebrazione dell’Eucaristia; ne è quasi il termine tecnico. Il termine che lo precisa ulteriormente « in assemblea » (en ekklësia[i]) specifica che a riunirsi è la comunità cristiana locale (cf. 1Cor 14,19.23.28.34.35). Questo termine ha una storia e un ampio significato. Nel mondo greco civile indicava l’assemblea dei cittadini che si riuniva per prendere decisioni sulla vita e i problemi della città. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento (LXX) si trova usato per indicare il popolo di Dio raccolto in assemblea cultuale. Nell’uso di Paolo « uomo dei due mondi, come soggetto culturale » (Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, 575) si ritrova sia il concetto di assemblearità sia la valenza cultuale. Inoltre, il contesto di 1Cor 11,17-34 invita a vedervi anche una connotazione locale: si tratta di riunioni nello stesso luogo (cf. in particolare v. 20). Sul genere di divisioni si è parlato illustrando l’ambiente vitale.
(3) « E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi » (v. 19). Qui Paolo sembra fare una digressione: nonostante il giudizio negativo espresso sulle divisioni, ora di esse dà una valutazione positiva considerandole, per così dire, dalla parte di Dio, come si deduce dall’espressione « è necessario ». La tematica della necessità della prova e il suo scopo positivo non è un pensiero abituale in Paolo, ma neppure è del tutto assente dai suoi scritti. Si veda ad esempio 1Cor 9,7 e Rm 5,3-5a. Osserva un commentatore: « Ecco che quanto appariva dapprima come una disgrazia può anche essere oggetto di una beatitudine! Come le persecuzioni che colpiscono la Chiesa dal di fuori, i dissensi che la fratturano all’interno hanno un significato positivo: fanno parte del processo di prova che deve permettere, al tempo del giudizio, la separazione definitiva tra i dokimoi e gli adokimoi, tra coloro che saranno stati qualificati o squalificati dalla prova » (J. Dupont citato da Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, 577 nota 167).
(4) « … il vostro non è un mangiare la Cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto » (v. 20-21). Paolo è perentorio: a Corinto ci si illude di mangiare la Cena del Signore; in realtà si mangia la cena propria ed esclusiva.
La denominazione « Cena del Signore » assieme all’altra detta « frazione del pane » (cf. Lc 24,30.35; At 2,42; 20,7.11; 27,35; 1Cor 10,16) sono le espressioni originali con cui nel Nuovo Testamento si indica ciò che noi chiamiamo Eucaristia o celebrazione eucaristica. Il vocabolo eucharistia appare testimoniato la prima volta dalla Didachè 9,1.5. Paolo in 1Cor 10,21 per la stessa realtà ha usato « mensa del Signore » (trapeza Kyriou) in contrapposizione a « mensa dei demoni ». In ambedue le espressioni (« Cena del Signore » e « mensa del Signore ») è importante notare il collegamento tra Cena / mensa e Signore, perché si tratta di un collegamento profondo e molteplice. Cena e mensa sono del Signore perché egli vi è presente e attivamente partecipe, cosicché i credenti entrano in comunione con lui (10,16-22); si tratta del suo corpo dato e del suo sangue strumento di una nuova alleanza (vv. 24-25); la sua presenza è attiva al punto da proclamare un giudizio di condanna su chi, mangiandone indegnamente, si rende colpevole verso il suo corpo e il suo sangue (vv. 27-28).
Al di là di possibili affinità con il linguaggio cultuale greco contemporaneo, è il contesto remoto e prossimo di Paolo che decide il senso della terminologia eucaristica paolina. La cena rituale di cui parla Paolo è del Signore: perché istituita da lui e da lui lasciata ai discepoli come sua memoria (vv. 23-26); perché in essa egli spezza il pane e lo dona come suo corpo e porge il calice offrendolo da bere come suo sangue (vv. 24.25b.27 e 10,16). Si tratta dunque di una « pienezza cristologica e soteriologica » (Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, 579).
Di fronte a questa pienezza di significato i corinzi si sarebbero dovuti riunire e mettere tutto in comune facendo scomparire le ineguaglianze sociali; invece si formano gruppi separati, ad opera dei membri benestanti della comunità – questo è il riferimento implicito del pronome « ciascuno » – e le disparità vengono messe in evidenza.
(5) « Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? » (v. 22). Paolo indica qui chiaramente che non ha nulla contro il « proprio pasto » in quanto tale, ma lo biasima per l’abuso di collegarlo nel tempo e nello spazio con la Cena del Signore.
Infatti, il « proprio pasto » con la sua valenza discriminatrice e separatista è in contraddizione con la Cena del Signore, la cui nota distintiva è la comunione con il Signore e con i membri della comunità. Il « proprio pasto » risulta inoltre un atto di disprezzo della « Chiesa di Dio », vale a dire della comunità creata e radunata dalla grazia di Dio (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 11,16; 15,9; 2Cor 1,2; Gal 1,13 e le formule complementari in 1Ts 1,1; Gal 1,22; 1Ts 2,14; Rm 16,16). Il « proprio pasto » si trasforma infine in un affronto verso i membri poveri della comunità. Dall’insieme si ricava che le divisioni a Corinto non erano di natura teologica, ma sociologica. Vale a dire che esse non riguardavano eventuali diverse concezioni della Cena del Signore, ma la pretesa di alcuni di accordare la celebrazione della « memoria » della morte del Signore con il « proprio pasto », che per Paolo sono invece radicalmente incompatibili. Se i corinzi – ammonisce Paolo – « intendono partecipare alla `cena del Signore’, devono abbandonare le consuetudini derivate dal loro passato, in questo caso l’abitudine di consumare la `cena propria’. Sta qui il vero motivo del comportamento dei cristiani benestanti, biasimato dall’apostolo: i ricchi continuavano a mantenere gli usi e i costumi connessi con il loro rango sociale. Non si rendevano conto che le distinzioni di grado, di dignità o posizione socio-economica, riconosciute e conservate nell’ambiente circostante, non si conciliavano con il carattere e il significato della celebrazione comunitaria della `cena del Signore’ » (Chrupcaa, « Chi mangia indegnamente », 70).
2) La tradizione eucaristica ricevuta e trasmessa da Paolo (11,23-26)
(1) A commento di questi versetti si impone un allargamento dell’orizzonte. E’ noto che i testi sull’Eucaristia che il Nuovo Testamento ci ha conservato sono punto di arrivo di una lunga storia che parte da Gesù e giunge alle comunità cristiane fondate dagli apostoli. Essi sono anche frutto di un processo storico contrassegnato da varie tappe (Gesù, gli apostoli, le comunità), testimoniano e riflettono la prassi eucaristica delle comunità cristiane delle origini che si richiamava non solo all’ultima cena ma anche alle altre cene di Gesù con i discepoli, prima e dopo Pasqua, e con diversi personaggi evangelici. E’ noto pure che i testi eucaristici sono tutti tramandati « in contesto », li troviamo cioè inseriti in testi ben precisi e caratterizzati.
(2) Il racconto dell’ultima cena di Gesù prima della sua morte ci è conservato in quattro testi del Nuovo Testamento:
Mt 26,26-29 | Mc 14,22-25 | Lc 22,15-20 | 1Cor 11,23-26 |
E disse: » Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio ». E preso un calice, rese grazie e disse: |
|||
cf. v. 29 | cf. v. 25 | « Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, | |
finché non venga il regno di Dio » | cf. v. 26c | ||
Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: | |||
Ora, mentre essi mangiavano, Gesù | Mentre mangiavano | Poi, | il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, |
prese il pane e, pronunziata la benedizione, | prese il pane e, pronunziata la benedizione, | preso un pane, rese grazie, | prese del pane e, dopo aver reso grazie, |
lo spezzò | lo spezzò | lo spezzò | lo spezzò |
e lo diede ai discepoli | e lo diede loro, | e lo diede loro | |
dicendo: | dicendo: | dicendo: | e disse: |
« Prendete e mangiate; questo è il mio corpo ». | « Prendete, questo è il mio corpo ». | « Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me ». | « Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me ». |
Poi prese il calice e, | Poi prese il calice | Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice | Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, |
dopo aver reso grazie, | e rese grazie, | ||
lo diede loro, | lo diede loro | ||
e ne bevvero tutti. | |||
dicendo: | E disse: | dicendo: | dicendo: |
« Bevetene tutti, | |||
perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, | « Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti ». | « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi ». | « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; |
in remissione dei peccati. | |||
fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me ». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. | |||
Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio ». | In verità io vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio ». | cf. v. 18 |
Uno sguardo d’insieme e un confronto fa emergere subito alcuni dati interessanti. Il racconto di Matteo ricalca nella sostanza quello di Marco e fa giustamente pensare a una dipendenza. I racconti di Luca e di Paolo invece hanno delle somiglianze tra loro, ma senza che se ne possa dedurre una reciproca dipendenza diretta, e differiscono da Marco. Inoltre il racconto riportato da Paolo risulta anteriore a Paolo e proveniente da una tradizione della Chiesa di Antiochia, probabilmente degli anni quaranta. Paolo stesso infatti dice di aver trasmesso quanto ha « ricevuto dal Signore » (1Cor 11,23a). Il racconto di Luca pare dipendere in parte da Marco e in parte da una tradizione parallela a quella trasmessa da Paolo. In sintesi si lasciano individuare due filoni letterari principali: il racconto di Marco e quello di Paolo.
Gli studiosi individuano anche qualche altro elemento della tradizione letteraria. La narrazione di Marco dipende da un racconto della passione di Gesù, antecedente a quello attuale, in cui il racconto dell’ultima cena di Gesù era strettamente legato alla scena dell’annunzio del tradimento, come fa pensare l’eccezionale convergenza tra i Sinottici e Giovanni (Mc 14,17-21; Mt 26,20-25; Lc 22,14.21-23; Gv 13,21-3). Il tenore dei racconti eucaristici è di carattere « liturgico » e rinvia alla prassi eucaristica delle prime comunità. Spingendo lo sguardo all’indietro si possono raggiungere i momenti fondamentali dell’ultima cena di Gesù: la benedizione, la frazione del pane, le parole interpretative dette sul pane e sul vino, la promessa di sedersi di nuovo a tavola con i discepoli nel banchetto escatologico. Così si può dire che i testi eucaristici ci mettono dinanzi a un preciso evento della vita di Gesù e al significato che egli stesso gli ha conferito.
Altro elemento della tradizione antichissima della Cena di Gesù è il suo carattere di cena pasquale. Questo è un dato concorde e esplicito nei Sinottici (cf. Mc 14,12-17; Mt 26,17-20; Lc 22,8.15). Giovanni tralascia questo elemento e fa coincidere la morte di Gesù con l’immolazione degli agnelli pasquali nel Tempio (cf. Gv 18,28; 19,14.31), probabilmente perché è guidato dalla prospettiva dottrinale in cui Gesù viene identificato con l’agnello pasquale (cf. 19,36).
La testimonianza dei Sinottici è confermata da altri indizi: la cena pasquale era fatta di notte, mentre le altre nel pomeriggio; 1Cor 11,23 precisa che Gesù sedette a tavola « nella notte in cui veniva tradito »; non poche annotazioni dei Vangeli alludono alla Pasqua (canto dei salmi dell’Hallel in Mc 14,26 e Mt 26,30; pernottamento al Getsemani invece che a Betania come era solito Mt 21,17; Mc 11,11; Gv 12,1-11; gesti rituali propri della cena pasquale in Mc 14,22 par. e 1Cor 11,24). L’assenza della menzione dell’agnello e delle erbe amare si spiega appunto con il carattere liturgico dei testi a noi giunti.
(3) La sottolineatura del carattere pasquale della Cena di Gesù è importante per diversi motivi. Anzitutto ciò implica che i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino sono collocati in un contesto cultuale. Nella cena pasquale ebraica era compito del padre di famiglia spiegare il simbolismo del pane azzimo, dell’agnello immolato, delle erbe amare e degli altri riti come memoria della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto al tempo dell’esodo; quanti consumavano la cena pasquale avevano parte a quell’evento di salvezza e redenzione. In questo contesto Gesù all’inizio della cena spiega il simbolismo del pane che lui spezza e distribuisce ai presenti, ma pronunciando parole assolutamente originali e dal significato chiaro: « Questo è il mio corpo ». Il linguaggio è simbolico ma l’identificazione tra sé e il pane è inequivocabile. Alla vigilia della sua morte Gesù dona se stesso ai suoi amici nel segno del pane spezzato. Sull’orizzonte immediato c’è la morte violenta che sta per abbattersi su di lui e di cui Gesù si mostra estremamente consapevole. Le parole che egli dice sul calice del vino alla fine della cena pasquale sono ancora più esplicite di quelle pronunciate sul pane: « Questo è il mio sangue versato per la moltitudine ». La sua è dunque una morte che dona salvezza alla moltitudine degli uomini come il Servo del Signore muore per l’insieme del popolo, di cui parla il libro di Isaia e a cui rinviano le parole di Gesù.
Occorre esplicitare ancora di più il parallelismo di significato tra la cena pasquale ebraica e i gesti e le parole di Gesù. Come la cena pasquale era memoria viva dell’evento salvifico di liberazione del popolo, così la Cena di Gesù è vivificante preannunzio della sua morte sulla croce per la salvezza. Nella cena Gesù anticipa ritualmente nei segni del pane spezzato e del vino condiviso la sua morte e ne svela il senso profondo. L’evento di liberazione dalla schiavitù, di cui la cena pasquale ebraica era memoriale, riguardava solo il popolo di Israele; la morte di Gesù, anticipata nei segni dell’ultima cena, accettata per la moltitudine segna la redenzione dal peccato per tutta l’umanità.
Ancora una connotazione presente in ambedue gli eventi. La cena pasquale ebraica era celebrata in un’atmosfera di attesa escatologica, cioè del compimento definitivo della salvezza da parte di Dio. La Cena di Gesù contiene esplicitamente questo elemento. Secondo la testimonianza di Marco, Gesù dichiara: « In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio » (Mc 14,25). Nel momento così drammatico Gesù annuncia la promessa di una nuova comunione di mensa nel regno di Dio. Nella tradizione paolina il tema è implicitamente presente nelle parole di Paolo il quale dice: « Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga » (1Cor 11,26). In questa prospettiva la Cena di Gesù è annuncio del banchetto messianico, immagine del regno definitivo di Dio.
(4) Caratterizzando i testi che ci hanno conservato la tradizione della Cena del Signore, si è detto che essi fanno trasparire chiaramente il loro carattere liturgico. Ciò significa che l’antichissima prassi liturgica ha potuto esplicitare alcune parole e il loro significato, sempre tuttavia rimanendo coerente con il tenore e il senso originari delle parole e dei gesti di Gesù. Alla tradizione liturgica viene fatta risalire l’esplicitazione delle parole sul pane: « che è dato per voi / che è per voi », che si leggono nella lezione comune a Luca e Paolo. Si parla di esplicitazione nel senso che con queste parole diventa esplicita l’autodonazione di Gesù come offerta sacrificale e espiatoria. Questa connotazione nel testo di Luca ricompare anche nelle parole sul vino: « che è versato per voi ». Di derivazione liturgica sono ritenute anche le parole « Fate questo in memoria di me », che Luca ricorda con le parole sul pane e Paolo con quelle sul vino, come pure gli imperativi: « Prendete » (Marco), « Prendete, mangiate » (Matteo), « Bevetene tutti » (Matteo).
Una esplicitazione liturgica, nata in ambiente di lingua greca, è pure ritenuta l’espressione « il sangue dell’alleanza » che ha introdotto il tema dell’alleanza nelle parole sul vino secondo la tradizione di Marco. La morte di Gesù viene così interpretata come un sacrificio di alleanza tra Dio e gli uomini (cf. Es 24,8). Lo stesso motivo teologico ma con una novità sostanziale si trova nelle tradizioni liturgiche che sottostanno ai testi di Luca e di Paolo dove si legge: « Questo calice è la nuova alleanza ». La novità è appunto il chiaro riferimento alla celebre profezia di Ger 31,31-34.
Bisogna tuttavia precisare che alcune di queste parole, da alcuni studiosi attribuite alla tradizione liturgica, possono risalire benissimo a Gesù stesso. E’ infatti a partire dalle sue parole che gli apostoli hanno potuto comprendere la « novità » del rito che Gesù stava per istituire, rispetto alla cena pasquale ebraica.
« La cena del Signore trova così una sua viva e costante attualità nell’esperienza eucaristica delle comunità cristiane che, ripetendo i gesti e le parole di Gesù, ne celebrano la memoria. Memoria del Cenacolo e, insieme, del Golgota, essendo l’uno inscindibilmente unito all’altro. Ma anche memoria della ferma speranza di Cristo nella partecipazione al banchetto finale. In breve, la celebrazione ecclesiale della cena del Signore condensa in se stessa un’esperienza religiosa complessa, rievocatrice del passato, cioè della cena e della morte di Cristo, partecipativa al presente dell’efficacia salvifica della croce e fiduciosamente protesa al compimento ultimo del progetto di Dio » (Barbaglio, « L’istituzione », 134-135). L’attualizzazione della Cena del Signore è totale: Gesù di Nazaret e Cristo risorto sono l’identica persona, i credenti seduti alla « mensa del Signore » (1Cor 10,21) sono coprotagonisti, cioè il « voi » del racconto-memoriale; passato, presente e futuro si fanno coesistenti.
(5) Ancora una annotazione sul contesto dei racconti eucaristici. Il racconto della Cena di Gesù risulta connesso fin dall’origine della tradizione evangelica con l’annunzio del tradimento. Si legge in Marco: « In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà… Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo è tradito! » (Mc 14,18.21). Matteo segue il testo di Marco con l’aggiunta del nome di Giuda (cf. Mt 26,25). In Luca invece l’annunzio del tradimento segue il racconto della cena (Lc 22,21-23). Gli studiosi ritengono originario l’ordine di Luca e pensano che Marco e Matteo lo abbiano mutato per escludere Giuda dalla cena. La cosa più importante è comunque avvertire che il contesto temporale della cena per i Sinottici fu la « consegna » di Gesù alla morte e per la tradizione paolina « la notte in cui veniva tradito » (1Cor 11,23). Il termine che caratterizza questa circostanza è in greco paradidömi che ha un significato che va oltre il tradimento o la consegna di Giuda per esprimere la consegna di Gesù da parte del Padre e l’autoconsegna di Gesù. In questa luce la morte di Gesù, anticipata nei segni e spiegata proletticamente da Gesù stesso, è segno dell’iniziativa amorosa del Padre e della libera e cosciente autodonazione di Gesù. Nel racconto eucaristico di Matteo si trova un’aggiunta caratteristica della sua teologia. Alle parole di Gesù sul vino egli fa un’aggiunta esplicativa: « in remissione dei peccati ». In questo modo viene espresso chiaramente l’effetto espiatorio della sua morte: Gesù è morto per togliere i peccati degli uomini.
Mi sono volutamente e per varie ragioni soffermato a fare una presentazione ampia e comparativa della tradizione della Cena del Signore. La prima ragione è che 1Cor 11,17-34 ci ha messo dinanzi a un testo di una importanza immensa per antichità e significato; la seconda è che nelle precedenti settimane bibliche non ci siamo mai fermati a commentare i testi eucaristici del Nuovo Testamento e questa circostanza mi è sembrata una occasione preziosa per farlo.
3) Il modo indegno di mangiare il pane e di bere il calice (11,27-32)
(1) « Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (vv. 27-29). La caratterizzazione della Cena eucaristica come « memoriale proclamatorio » dell’evento salvifico della morte di Cristo come presente e operante ogni volta che la comunità si riunisce è seguita da una severa messa in guardia dello stesso Paolo. Essa non riguarda solo quelli che a Corinto erano all’origine dei disordini ma tutti i partecipanti alla Cena del Signore.
Cosa significa mangiare il pane e bere il calice del Signore « in modo indegno » (v. 27)? Sono possibili tre risposte: (a) mangiare e bere senza fede e/o venerazione per la presenza sacramentale di Cristo nel pane e nel vino; (b) mangiare e bere senza una opportuna santità personale; (c) mangiare e bere senza riconoscere nella pratica il valore cristologico, salvifico e ecclesiale del pane e del vino. Per dare una risposta ponderata occorre tenere presente anzitutto il contesto immediato del testo paolino. Nel v. 29, parallelo al v. 27, Paolo specifica che il colpevole che mangia il pane e beve il calice del Signore indegnamente è lo stesso che « mangia e beve la propria condanna » perché « mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore ». La Bibbia TOB (ed. 1992) a proposito dell’espressione annota: « Lett. corpo. Paolo non precisa quale `corpo’. Sembra che, per stimolare la riflessione dei lettori, egli lasci l’interpretazione aperta, giocando, forse, su un senso molto ampio della parola `corpo’: `la realtà di cui si parla’ « . Quella che si leggeva nella Bibbia TOB (ed. 1976) invitava a non intendere in maniera superficiale: « Non come se il colpevole abbia confuso il pane eucaristico con gli altri cibi del suo pasto, ma perché non ha saputo apprezzare le esigenze che il ricevere il corpo di Cristo comporta » (nota l a 1Cor 11,29). Neppure sarebbe corretto intendere il termine « corpo del Signore » in senso ecclesiologico, vale a dire la chiesa-corpo di Cristo; esso fa riferimento certamente al Cristo e, stando al contesto, indica il corpo personale-eucaristico del Signore (cf. 1Cor 10,16). Il senso tuttavia dev’essere più profondo. A Corinto vi sono cristiani che non sanno discernere rettamente il corpo del Signore nel cibo eucaristico che mangiano, vale a dire che non riconoscono il senso della morte di Cristo. « Non si può `annunciare’ l’evento della salvezza senza essere con esso vitalmente uniti; non si può proclamare la novità e la presenza vivificante della morte del Signore, la sua offerta amorosa in favore di tutti, e agire, nello stesso tempo, in senso contrario, restando attaccati alle abitudini del passato, all’egoistica indifferenza, al separatismo, al prestigio di classe… La partecipazione al pane e al calice diventa allora `indegna’, perché contraddice la natura e il significato della `cena del Signore’: un raduno di fratelli per i quali il Signore ha donato la sua vita e che ora riunisce nel patto del suo amore… La colpa infatti o il peccato, ancor prima di essere ecclesiale o rappresentare una mancanza di santità personale del credente, tocca la persona di Cristo e la sua opera salvifica, che la celebrazione eucaristica rende presenti mentre l’agape fraterna ha lo scopo di rendere visibili » (Chrupcaa, « Chi mangia indegnamente », 81-82).
(2) « E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo » (vv. 30-32). A conferma della verità che la partecipazione indegna alla Cena del Signore attira un giudizio di condanna su chi se ne rende colpevole, Paolo evoca i casi di malattia e di morte che si sono verificati a Corinto e li interpreta in chiave di giudizio e di castigo. In consonanza con il pensiero religioso del suo tempo l’apostolo vede uno stretto legame tra colpa morale e pena fisica. Ma anche in questo, come fa spesso anche per altre realtà e esperienze, Paolo scopre un aspetto positivo: i castighi divini sono pedagogici (cf. Sir 18,13; Sap 12,22; 2Mac 6,12; Sal 3,3-4) perché conducono a un salutare esame o giudizio su se stessi, che indurrà ad evitare la condanna finale e definitiva del Signore che colpirà il mondo ostile a Dio.
(3) « Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose le sistemerò alla mia venuta » (vv. 33-34). Si noti il tono affettuoso e pastorale con cui Paolo conclude la sua istruzione sulla Cena del Signore. Nessun rimprovero può offuscare nell’animo di Paolo l’affetto profondo che egli ha per la « Chiesa di Dio che è in Corinto » (1Cor 1,2), che egli ha generato spiritualmente come un padre (4,15) e che definisce « sigillo » (9,2) del suo apostolato, sua « difesa » (9,3) contro i denigratori (4,15) e sua lettera di raccomandazione « conosciuta e letta da tutti gli uomini » (2Cor 3,3). Stabilisce due regole pratiche di comportamento al fine di evitare le divisioni e le degenerazioni nelle riunioni conviviali della comunità: (a) devono aspettarsi gli uni gli altri, perché il raduno conviviale con la celebrazione della Cena del Signore deve iniziare in presenza di tutti; (b) chi non resiste agli stimoli della fame, mangi a casa propria, perché scopo essenziale della celebrazione non è soddisfare la fame corporale. Per altre indicazioni rinvia alla prossima visita che ha in progetto di fare a Corinto (4,16; 16,5).
Conclusione
Questa rievocazione contiene alcuni principi fondamentali della fede. Le parole « mio corpo, che è per voi » affermano il valore espiatorio della morte del Cristo. Lo stesso valore contengono le parole « la Nuova Alleanza nel mio sangue », perché la nuova alleanza promessa da Ger 31,31-34 annuncia la misericordia di Dio con il perdono dei peccati.
Il valore sacramentale della Cena è indicato dalle parole stesse con cui il pane e il calice sono considerati dal Signore suo corpo e suo sangue. Per questa ragione, la cena ha il compito di ricordare il Signore (11,24.25). Paolo specifica che si tratta di una memoria sacramentale, in cui coloro che vi partecipano annunciano la morte del Signore. L’annuncio avviene per mezzo del ricordo e ritorna a beneficio di quelli che vi partecipano. Nella fede i segni che ricordano la morte del Signore producono nei partecipanti ciò che indicano, l’espiazione del peccato.
« Chi dunque s’accosta al corpo e al sangue di Cristo, a memoria di lui che per noi è morto e risorto, non solo deve essere puro da ogni contaminazione di carne e di spirito per non mangiare e bere a propria condanna, ma deve anche mostrare efficacemente la memoria di colui che per noi è morto e risorto, con l’esser morto al peccato e al mondo e a se stesso, e col vivere per Dio, in Cristo Gesù nostro Signore » (S. Basilio Magno, Il battesimo; tr. U. Neri).
L’Eucaristia è « radice e cardine » delle comunità cristiana (PO 6; EV 1, 1261). L’Eucaristia è comunione in due sensi: « poiché per essa veniamo uniti a Cristo… e comunichiamo e siamo uniti per suo mezzo gli uni agli altri. Appunto perché partecipiamo a un solo pane, diventiamo tutti un solo corpo di Cristo, un solo sangue e membri gli uni degli altri, essendo stati fatti concorporei » (S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, IV,13).
Se l’Eucaristia è tutto ciò, si comprende che nessuna consapevolezza potrà essere ritenuta sufficiente e nessuna preparazione sarà mai adeguata per una non indegna celebrazione, efficace proclamazione e accoglienza salvifica del mistero pasquale di Cristo. Un maestro spirituale del nostro tempo, il venerato Don Giuseppe Dossetti, scomparso 15 dicembre 1996, ha scritto: « Il mistero è l’eucaristia del Cristo, nella quale è tutto: tutta la creazione, tutto l’uomo, tutta la storia, tutta la grazia e la redenzione: tutto Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: per Gesù Dio e Uomo, nell’atto operante in noi, della sua morte di croce, della sua risurrezione ed ascensione alla destra del Padre, e del suo ritorno glorioso » (Il Regno 42 [1997] 118 [Piccola Regola 2/17]).

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