Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini : Ma non si crede a un prete he se la gode (PRIMA PARTE)
dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/177q04a1.html
(L’Osservatore Romano 3-4 agosto 2009)
Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini
(PRIMA PARTE)
Ma non si crede a un prete che se la gode
Il 18 novembre 1959, nell’anno centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, l’arcivescovo di Milano pronunciò un discorso sulla figura e l’opera del curato d’Ars. Lo ripubblichiamo secondo l’edizione critica dei Discorsi e scritti milanesi (1954-1963) (Brescia, Istituto Paolo VI, 1997, pp. 3153-3169). Il testo è stato ora opportunamente compreso nel volume curato da Leonardo Sapienza Stile sacerdotale. Sulle orme di San Giovanni Maria Vianney Curato d’Ars (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, pagine 202, euro 11).
Parlare di un Santo è sempre difficile, se non si vuole fare semplicemente la narrazione storica, ché questa è relativamente facile e, nel caso nostro sarebbe anche abbastanza semplice. La vita di Giovanni Maria Vianney non presenta grandi quadri, né grandi drammi: procede con una uniformità nel periodo che ci interessa, dal principio alla fine, molto uguale e molto semplice.
È difficile, dico, se non si vuol fare della esaltazione retorica e se si vuole stare alla realtà, questa realtà umana che l’agiografia moderna cerca di proporzionare alla statura comune. E avviene allora che ci sentiamo in simpatia col Santo di cui vogliamo descrivere la vita e conoscere le virtù. Ci sembra quasi che, a metterlo al nostro livello, diventiamo anche noi un po’ come lui e possiamo in qualche modo pretendere di avere con lui qualche conversazione. A un certo punto poi ci si accorge che la statura sua, quella del Santo, eccede alla nostra misura e di quel tanto che non ci è facile misurare. Qualche cosa di superiore, di singolare, di eccezionale, di carismatico viene a dare al Santo questa sua prerogativa, questa sua singolarità, e restiamo ancora silenziosi e un po’ umiliati di saperci diversi e forse quanto diversi da lui.
Nel caso poi del Santo Curato d’Ars, per me almeno, le difficoltà crescono: crescono per il fatto che c’è qualche cosa di veramente straordinario in questa vita così ordinaria; giuocano degli elementi che hanno fatto il fascino di alcune sue biografie e, in gran parte, della popolarità che questo Santo si è acquisito e di quanto ha circondato la letteratura che ne ha illustrato la vita. Ma la difficoltà maggiore, mi pare che cresca in questo, che ci è proposto questo Santo sotto un duplice aspetto: di protettore nostro, di noi preti e di modello, vale a dire che dovremmo essere capaci di imitarlo. E se lo accettiamo tanto volentieri come protettore e ci sentiamo confortati da una figura così dolce, così mite, così umile, così sollecita, così comprensiva come fu questo del secolo scorso, di averlo nostro tutore, di averlo nostro interprete presso il Signore dei nostri bisogni, delle nostre fatiche, delle nostre aspirazioni, quando, invece, si tratta di dire: devo conformarmi a lui, dovrei essere capace di assimilarmi a questa figura, le cose diventano molto difficili, dico almeno per me.
Per fortuna questo Santo è fra i più documentati, come sapete; direi che non ci sfugge nulla della sua vita. Se si pensa a quanto è stato scritto, almeno in Francia e altrove, sopra di lui, vediamo che non c’è gran che fatica a trattare di lui e venire a conoscenza di questa mirabile apparizione che è la sua vita. Fu tra i Santi, dico, che ebbero l’onore di una « canonizzazione » ancora in vita. Tanti Santi scoprono la loro santità a morte avvenuta ed è quasi una riabilitazione che l’opinione pubblica, la Chiesa stessa tante volte fa dei Santi che poi onora sugli altari. Pensate a quanti Santi hanno avuto, direi, un processo di riesame, di riabilitazione della loro vita per essere proposti poi al culto del pubblico e all’imitazione dei buoni.
Questo invece fu già in vita molto molto celebrato, molto conosciuto; circolavano ancora prima della sua morte delle piccole biografie, tanti ritratti, gente che si dava premura di raccogliere le reliquie ancora prima che la sua vita fosse al tempo terminata. Si dice che questo capitò un po’ anche ad altri Santi, a San Carlo per esempio. Il Giussano, che è uno dei biografi di San Carlo e gli fu segretario negli ultimi anni, scrivendone la vita, che è una delle fondamentali su la vita di San Carlo, dopo circa una trentina d’anni, notava che erano già uscite sette biografie di San Carlo.
Ebbene, del Curato d’Ars, a due anni nemmeno dalla sua morte, sono usciti due grossi volumi del Monnin che sono ancora la base principale per questa sua descrizione, per questa sua conoscenza. E vediamo che il processo di beatificazione fu auspicato nell’elogio funebre stesso che il Vescovo di Belley pronunciò sul Santo, augurandosi che fosse riconosciuta dalla Chiesa questa eccezionale figura come degna del culto dei cristiani, della comunità cristiana.
Tardò invece la canonizzazione e anche la beatificazione più di cinquant’anni. Ma il fatto è che la fama di santità e la conclamata sua eccezionalità di vita fu immediata e, di lì, tutta una letteratura che ci ha conservato parole, un po’ di prediche, frammenti, episodi moltissimi, e poi, e poi pochi Santi hanno avuto i commenti autorevoli che questo ha avuto, voglio dire dei Papi. I Papi di questo secolo hanno preso la parola sopra questo santo per magnificarne le virtù, per illustrarne la vita, per raccomandarne gli esempi.
E così veniamo dopo i discorsi di Pio xi sul Santo Curato d’Ars, dopo i tanti accenni che ne fece Pio xii, veniamo nientemeno che ad una Enciclica, l’ultima, quella che provoca queste nostre meditazioni sul santo; l’Enciclica fu pubblicata, come tutti sanno, da Papa Giovanni XXIII, che è felicemente regnante (…).
Mi pare invece che noi abbiamo sempre qualche cosa da fare su questo Santo, non tanto, ripeto, per presentarci una figura, che diamo per conosciuta, quanto per assimilare noi stessi a questo Santo. Se volessimo davvero avvicinarci a lui, se volessimo davvero osare di compaginare in qualche maniera la nostra vita sacerdotale alla sua, che cosa dovremmo fare?
Il tema resta molto più accessibile a questa nostra semplice conversazione.
E lo sforzo, anzi il tentativo di approssimarci a lui, ci impone prima di tutto un problema: quello di esaminare se la nostra coscienza sacerdotale sia simile a quella che il Curato d’Ars ebbe della propria vita e dignità sacerdotale. Abbiamo lo stesso pensiero? La pensiamo alla stessa maniera? Noi dobbiamo avere un concetto di noi. Che concetto aveva il Curato d’Ars di sé? E qual è il nostro? Differiscono? Combaciano? Si ricercano?
Direi che fortunatamente si ricercano e in parte anche combaciano. Ed è una delle cose più belle che possiamo notare sulla vita ecclesiastica del nostro tempo; questo modello ha già lavorato nella Chiesa di Dio, ha già avuto una riproduzione tendenziale almeno che merita che la accettiamo e la notiamo con consolazione e con incoraggiamento. Ma il fatto è che bisogna che noi stringiamo, sotto questo punto di vista, le distanze e cerchiamo di fare nostra, quanto è possibile, la considerazione che il Curato d’Ars aveva di se stesso. Se partiamo di qui, qualche cosa di più otterremo.
E vediamo, sotto questo punto di vista, due punti molto molto ovvi: il primo che non è originale in San Giovanni Maria Vianney, ma direi in tutti i Santi, i veri Santi, è di una straordinaria umiltà. I Santi sono divorati da questo senso del loro nulla, di questo senso di sproporzione fra il Dio e il Cristo che adorano e che servono, e ciò che loro sono. Questa abissale distanza è stata notata per prima dalla più santa delle creature, la Madonna. Nel canto del Magnificat, che proprio mentre celebra le grandezze di Dio, in Dio e in sé, dice: fecit mihi magna qui potens est ha fatto cose grandi il Signore in me perché ha guardato l’umiltà, la bassezza, l’inanità della sua serva, della sua ancella.
E così San Giovanni Maria Vianney ha di sé una ricorrente, una istancabile umiltà. Noi siamo alcune volte quasi disturbati da queste professioni, che ci sembrano esagerate, di nullità dei Santi; ma bisogna capirle, non sono affettazioni, non sono professioni gratuite, non sono difese formali contro gli elogi che la gente fa a chi si mostra virtuoso e diventa maestro degli altri. I Santi hanno davvero questo senso di vuoto proprio e lo vivono, e lo declamano, e lo professano, e ne accettano anche logicamente le conseguenze se qualcuno li disprezza; se qualcuno li prende sul serio, sembra che davvero li abbiano a ringraziare, perché è proprio così. Io leggo una frase o due che possono documentare, per quanto sia superfluo, questo modo di vedere e questo modo di sentire del Santo di sé.
Quando verso la fine della sua vita gli fu dato un Sacerdote che lo aiutasse, un coadiutore, egli andava dicendo al suo coadiutore: « Oh! quando voi siete presente, qui ancora ci si fa, ma quando io sono solo, oh, io non valgo nulla. Io sono come gli zero che non hanno valore se non a fianco di altre cifre ».
E poi, con una frase che mi sembra splendida anche dal punto di vista letterario, esclamerà una volta: « Oh! io non ho ancora vissuto un giorno ».
Quanta miseria sentiva nella propria vita che diceva che nessun giorno era stato come avrebbe dovuto essere. E quando cominceranno a tributargli qualche segno di considerazione, di onore, lui ironizzerà i segni di onore che lo circondano e continuerà a dirsi: « Bisogna proprio dire che io sia un ipocrita perché mi manifesto a qualche maniera che inganna gli altri ».
E nella Vita che vi ho citato del Monnin, nella prima pagina, c’è la riproduzione di un suo scritto, litografata, in cui anche là abbondano queste frasi, vergate con fatica, ma con energia: « Come sono ipocrita, ma che sono un povero peccatore », e così via.
C’è il senso affliggente, ma atrocemente vero, nella coscienza di questo prete, di una radicale povertà, di una radicale nullità. Chi non ha raggiunto questa sensazione, che ha del metafisico e ha dell’abisso psicologico, non avvicina la psicologia del Santo Curato d’Ars.
E simultaneamente, con questa terribile umiltà, quasi balzasse proprio dal profondo di questo abisso, che è riuscito a scavare in sé, un senso superlativo della propria dignità. Bisogna andare dalle labbra di questo Santo, come di tanti altri, ma qui troviamo nella semplicità stessa delle espressioni una veridicità che ci persuade e che ci confonde e che ci commuove, il senso immenso della dignità sacerdotale.
Voi sapete che su questi due elementi, l’umiltà del prete e il senso della sua dignità e della sua autorità, giuoca tutta la letteratura contemporanea, che fa del protagonista di tanti racconti romantici il pover’uomo che racchiude in sé qualche cosa di immensamente grande, di incommensurabilmente degno.
E questo che sente di sé la miseria la più incolmabile, sente di contenere in sé una dignità, una potenza, un mistero che non finisce mai di celebrare e che non ha ritegno di confessare con la stessa sincerità e con la stessa osservanza con le quali prima si confessava un miserabile.
Alcune frasi, sempre del Curato d’Ars: « Il prete non si comprenderà mai bene se non in cielo », il che vuol dire che anche qui abbiamo davanti qualche cosa che supera la nostra capacità di misura. Non comprenderemo mai abbastanza noi stessi; siamo diventati noi stessi oggetto di mistero dal giorno in cui è piovuta dentro di noi la grazia di essere cristiani dapprima, di essere poi i rappresentanti e i funzionari di Cristo, poi di essere i Suoi ministri e i Suoi Sacerdoti.
Se il Sacerdote, continua, fosse bene penetrato dalla grandezza del suo ministero, potrebbe a stento vivere, sarebbe sopraffatto, sarebbe quasi paralizzato da questa comprensione, che incomberebbe dentro e sopra di lui come un peso insopportabile. Se si comprendesse bene il Sacerdote sulla terra, si morirebbe. Forse di spavento; non di spavento però, ma di amore.
Il prete a causa dei suoi poteri è più grande di un angelo. È il Sacerdote che continua l’opera della redenzione sulla terra. Il sacerdozio è l’amore del cuore di Cristo. E si potrebbero sopra questo punto moltiplicare enormemente le citazioni.
Dunque avere coscienza di sé mi pare che sia uno dei primi tributi che noi dobbiamo fare, se vogliamo che la celebrazione del centenario del Curato d’Ars non sia del tutto vana. Vediamo di ricalcare la nostra coscienza sopra questi due fuochi della sua psicologia, della sua coscienza sacerdotale. E che l’avere coscienza di sé sia sempre cosa ardua e cosa importante lo sappiamo, direi, dalla filosofia antica che faceva del conosci te stesso il cardine della sapienza.
Noi che abbiamo certamente qualche cosa di singolare, che abbiamo una funzione certamente decisiva per la vita di tanti altri, che siamo in comunicazione coi misteri di Dio e che siamo nello stesso tempo medici, vale a dire in comunicazione con tutti i mali dell’umanità, dobbiamo avere una coscienza di noi stessi proporzionata a questa natura del sacerdozio, a questa sua funzione.
Troveremo difficile questo? Sì, sì è difficile. Perché? Ma perché, direi che c’è un pericolo nell’atto stesso che noi cerchiamo di far questa meditazione sopra noi stessi; l’atto riflesso ci può dare una vertigine, ci può dare un capogiro.
La dignità stessa di Sacerdote che noi possediamo può, direi, incantarci e, quando vogliamo mantenere questo concetto, ci mostriamo di fronte al nostro pubblico, alla nostra scena storica che ci circonda, pieni, gli altri lo dicono, di un’ambizione che nessuno aspetterebbe in noi e forse è nata anche da questa considerazione: sono portato così in alto, sono superiore agli altri, non sono più come un laico, come una persona del popolo, mi distinguo dal popolo, bisogna che gli altri me la riconoscano questa. Ed ecco che compaginiamo tutta la nostra psicologia sacerdotale sopra un focolare operante di ambizione, di orgoglio.
Se poi pensiamo che alla dignità si aggiungono dei poteri, delle potestà, vale a dire: io sono arbitro di tante altre sorti, di tante altre anime, io ho le chiavi del regno dei cieli e cioè posseggo nelle mie mani un diritto, anche questo può darci un certo senso di ebbrezza e alterare la vera coscienza sacerdotale che noi abbiamo di noi, cioè ci possiamo porre davanti agli altri come diritto. Sono io, qui comando io; non c’è nessuno sopra di me. Bisogna che tutti mi obbediscano. È una concezione che si è radicata molto anche nel nostro clero, specialmente negli anni passati, nei secoli scorsi, quando accanto alla autorità spirituale si è aggiunta una autorità temporale, si sono fusi i due poteri: la spada e il pastorale; è entrato in noi il concetto che per amministrare bene bisogna comandare molto. È nata una psicologia, starei per dire, feudale del Sacerdote. Il Sacerdote è distante, deve comandare a cenni, deve essere obbedito ancor prima di pronunciarsi; è il Sacerdote che si confina in un suo cerchio distante dal popolo e, il vero popolo, secondo questa concezione, dovrebbe essere davvero un gregge molto obbediente e che domanda poco, che non disturba orari e che lascia al Sacerdote questa maiestatica contemplazione di sé e questo quieto vivere che dev’essere il suo ministero; pericolo, ripeto, che anche lo sforzo di dare a se stessi una coscienza sacerdotale derivata dalla realtà di questo mistero operato in noi dal sacramento dell’Ordine, possa anche in noi alterare la vera coscienza sacerdotale.
Invece, secondo quel che ci insegna il Curato d’Ars con questa sua duplice psicologia, dobbiamo correggere la nostra mentalità e cercare di renderla quale la vuole Cristo poi, perché non è mica diversa quella del Santo da quella che Cristo ha predicato, che ha detto essere sì la nostra dignità immensa, essere sì incontestabile il nostro diritto, ma tutto questo che cosa è? Perché siamo Sacerdoti?
Siamo Sacerdoti per servire; è funzionale la nostra dedizione: qui praecessor est, sit sicut ministrator; chi precede sia l’ultimo, chi precede deve essere utile agli altri. Siamo in funzione degli altri, non in funzione di noi stessi e se vogliamo davvero riprodurre in noi l’idea che Cristo ha fatto del acerdote e che il Curato d’Ars ci riproduce e ci rende familiare e accessibile, dobbiamo sopra questo punto insistere assai.
E vedremo, carissimi confratelli, come siamo candidati a delle cose tremende, proprio perché abbiamo questa eccelsa dignità. Abbiamo la dignità di essere sì i redentori del mondo, ma la redenzione si compie con la croce. Noi dobbiamo redimere gli altri con la nostra sofferenza, come Cristo che non era peccato, dice San Paolo, e si è fatto Lui peccato, cioè ha assorbito dentro di Sé tutta l’iniquità umana per espiarla e annullarla, e questo gli è costata la croce. Noi se siamo Sacerdoti, cioè siamo i capi, le guide, gli esempi degli altri, dobbiamo ricevere sulle nostre spalle questo tremendo pondus della espiazione altrui. Vedrete in certe pagine e in certi momenti della vita del Curato d’Ars come questo pesa fino all’angoscia sopra questa umile coscienza, ma veggente coscienza di prete. « Oh! se avessi saputo – esclama una volta – che cosa significasse essere prete, forse avrei temuto di ricevere questa grazia del Signore ».
Sente come pochi la responsabilità. Si sente lui incaricato di espiare i peccati degli altri. Fa penitenza in luogo dei suoi penitenti. Si sente schiacciato dai peccati del mondo che lo circonda e sente di dover diventare vittima di questa situazione. Il Sacerdote è al centro di questo urto fra il bene e il male, fra la grazia e il peccato, fra il demonio e Dio. E questo urto, lo sappiamo bene, è il sacrificio, è la croce. Questa è la coscienza sacerdotale del Santo Curato d’Ars e che noi dobbiamo cercare di fare nostra.
Se così poniamo la nostra approssimazione al Santo Curato d’Ars, viene da considerare un secondo aspetto, quello che potremmo dire della spiritualità. Che cosa intendiamo per spiritualità? Un nome che fa fortuna e che corre con grande facilità sulle labbra di tutti. Mi pare che sia esatta la definizione che ne ha dato uno scrittore spagnolo, quando dice che è il modo con cui cerchiamo di realizzare l’ideale della vita cristiana e, possiamo dire, del Sacerdozio.
In che modo questo ideale di Sacerdozio lo possiamo praticare e realizzare? In che modo lo ha realizzato e praticato il Curato d’Ars? Cioè, dobbiamo cercare i principi operanti, le idee forza, le linee di svolgimento di questa coscienza; dobbiamo vedere se la sua spiritualità, cioè questo svolgimento della vita, della coscienza al di fuori, alla manifestazione dei suoi atti e delle sue virtù, sia da noi perseguibile e in che modo semmai.
Sapete che l’Enciclica, tracciando appunto questa epifania, questa esplicazione della vita del Curato d’Ars, cita tre aspetti molto elementari. Siamo stupiti di non trovare niente nell’Enciclica che parli delle manifestazioni singolari, prodigiose, miracolose del Santo; si direbbe che sono ad arte dimenticate, perché non ci sia nulla in questa apologia del Santo, che non possa essere anche a noi di conforto e di invito all’imitazione.

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