Archive pour juillet, 2011

San Benedetto e il corvo (con riflessione)

dal sito:

http://www.cattolicivegetariani.it/content/santi-vegetariani/san-benedetto-e-il-corvo-con-riflessione.html

San Benedetto e il corvo (con riflessione)
  
Scritto da Fra Mario Rusconi, eremita benedittino 
  
Lunedì 11 Luglio 2011

 Il biografo del SanTo che fu il grande S. Gregorio papa denominato Magno, monaco benedettino prima di essere pontefice, scrive questo fatto nella biografia del padre dei monaci.
Un corvo viveva negli anfratti rocciosi dei monti circostanti al monastero di S. Benedetto, e all’ora dei pasti era solito scendere al refettorio del monastero per ricevere la propria razione giornaliera di cibo.
Quindi afferratala col becco, andava a gustarsela nelle nude cavità rupestri, sotto i caldi raggi del sole.
Nei dintorni dell’Abbazia dimoraVa anche un prete di nome Fiorenzo, però nel vedere affluire ogni giorno di più i fedeli verso Benedetto e nel contempo, diminuire la frequenza alla sua Chiesa, fu assalito da forte invidia, e reso ormai cieco da quella tenebrosa passione, progettò una orrenda decisione: inviò al servo dell’Onnipotente Signore un pane avvelenato, presentandolo come pane benedetto segno di amicizia.
L’uomo di Dio lo accettò con vivi ringraziamenti ma non gli rimase nascosta la pestifera insidia che il pane celava. All’ora della refezione, veniva abitualmente, dalla vicina selva, un corvo e beccava poi il pane dalle mani di lui. Venne anche quel giorno e l’uomo di Dio gli gettò innanzi il pane ricevuto in dono dal sacerdote e gli comandò: « In nome del Signore Gesù Cristo prendi questo pane e gettalo in un luogo dove nessun uomo lo possa trovare ». Il corvo spalancato il becco e aperte le ali, prese a svolazzare intorno a quel pane e gracchiando pareva volesse dire che era pronto ad eseguire il comando ma una forza glielo impediva. Il servo di Dio dovette ripetutamente rinnovare il comando: « Prendilo, su prendilo senza paura e vallo a gettare dove non possa trovarsi più ». Dopo un’altra esitazione finalmente l’afferrò e volò via; tornò circa tre ore dopo, senza più il pane e allora come sempre prese il suo cibo dalla mano dell’uomo di Dio.
Il venerabile Padre comprese da questa vicenda come l’animo del sacerdote si accanisse contro la sua vita, ne proò un immenso dolore, non tanto per sé quando per il povero sventurato.
(dalla Vita di S. Benedetto di S. Gregorio Magno – Città Nuova Roma 1975)
Conclusione
Lo storico benedettino della metà del secolo XIX Don Luigi Tosti, nella sua vita di S. Benedetto dà questa spiegazione del corvo di S. Benedetto che riprende la motivazione teologica enunciata all’inizio del presente articolo. Lascio invariato il linguaggio di 150 anni or sono per la sua eleganza; l’autore dice:
« E qui viene a taglio un’avvertenza necessaria intorno a quel corvo, adusato dal Santo a prendere ogni dì dalle sue mani il cibo ad ora fermata. Questo fatto potrebbe nell’animo del lettore svegliare pensiero irriverente verso il medesimo, quasi che per leggerezza di costume logorasse il tempio ad addomesticare corvi o altre bestie.
Gli uomini come S. Benedetto, sempre intenti nell’amore di Dio creatore, non potevano contenersi dall’amare ogni cosa creata che veniva da lui per creazione.
In guisa che si tenevano stretti di amore fraterno ad ogni cosa creata eper la comunanza del Padre che li aveva creati. E di rimando spesso gli animali irragionevoli per divina ordinazione, si prestavano a far servizi ai santi uomini, che lontani dall’umano consorzio, nei deserti, commettevano solo nelle mani di Dio la loro vita.
L’amore dunque dei santi uomini verso le bestie irragionevoli è conseguenza di quello che esse portano a Dio, che le chiamò dal nulla e le mantiene in vita. Infatti in questa lirica esaltazione dell’animo di Davide al Signore nel salmo 148, il quale lo loda per la sua onnipotenza creatrice, chiama a compagni del suo canto non solo gli uomini ma anche le bestie, e ne dà la ragione: « Quia ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit, et creata sunt (Perché egli parlò e furono fatti, egli comandò e furono creati) ». Aggiungi da ultimo che il peccato del primo uomo, come lo separò per ribellione da Dio, così separò da lui le bestie irragionevoli, delle quali era signore.
Gli uomini che per singolare penitenza e purità di vita tornarono a Dio, spesso per straordinaria permissione divina riacquistano il loro impero sulle bestie; e queste, mansuefatte dalle loro virtù, tornavano all’antica soggezione. Questo dico a chi crede ancora alla verità della Bibbia.

«LO SPIRITO VIENE IN AIUTO ALLA NOSTRA DEBOLEZZA» (RM 8,26-39). CHI SARÀ CONTRO DI NOI?

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2006/articolo5_50.asp

«LO SPIRITO VIENE IN AIUTO ALLA NOSTRA DEBOLEZZA» (RM 8,26-39). CHI SARÀ CONTRO DI NOI?

Guido Benzi

La Parola

26 Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27 e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio. 28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30 quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.
31 Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32 Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33 Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34 Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?
35 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36 Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.


Il contesto
Paolo si avvia rapidamente a concludere il c. 8 sull’azione dello Spirito Santo e quindi il suo discorso sui doni di Dio concessi all’uomo giustificato. Paolo abbandona il piano dell’esposizione dottrinale e avvia un discorso molto caldo e affettuoso.
Il contenuto
Il «gemere» dello Spirito Santo è un gemere per noi, è un venire in soccorso della nostra debolezza, della nostra insufficienza e incapacità. Lo Spirito col suo gemito ci soccorre nella nostra preghiera, perché noi siamo troppo deboli. Dio che scruta i cuori, ode la voce dello Spirito che sale a lui dai cristiani. Dio sa quello che lo Spirito vuole: solo e sempre la volontà di Dio nei nostri riguardi. Dio sa quello che vuole lo Spirito in noi: la manifestazione della sua gloria in coloro che egli ha già reso santi nella fede.
Ma Dio non solo conosce l’invocazione senza parole dello Spirito per noi, ma anche la esaudisce. Infatti Dio soccorre in ogni modo i santi che egli ha chiamati e che lo amano. Per coloro che lo amano, Dio non fa accadere nulla che non serva alla loro salvezza. Dio è pensato come colui che agisce per il bene in tutte le cose, anche nella sofferenza. Coloro che amano Dio sono qualificati come chiamati secondo la volontà di Dio. Dio ha prevenuto coloro che lo amano. La sua chiamata ha dischiuso loro i favori di Dio. I santi che amano Dio lo amano in risposta all’eterna chiamata del suo amore in Gesù Cristo. Dio volgerà ogni cosa a profitto della loro salvezza.
La figliolanza per mezzo di Gesù Cristo è detta con l’espressione: per essere conformi all’immagine del Figlio. Dio ha associato a Cristo, il primogenito, noi come fratelli affinché egli fosse il primogenito tra molti. La destinazione originaria dell’esistenza umana è di partecipare, in Cristo e tramite Cristo, alla gloria ossia al modo di essere di questo fratello primogenito. Egli è tale sia in rapporto alla creazione (Col 1,15) sia in rapporto alla risurrezione dai morti (Col 1,18; Rm 8,11; 1Cor 15,22 ss.; Ap 1,5).
Questa gloria, che è la condizione futura dell’uomo stabilita dall’eternità, ci è già stata elargita: ci ha glorificati con Cristo (v. 30). Tramite la morte di Cristo i chiamati sono ammessi, per la fede e nel battesimo, alla giustizia di Dio e sono giustificati in modo tale da sperimentare in anticipo la futura giustificazione che dà la vita (Rm 5,18). La chiamata di Dio si manifesta come giustificazione della nostra esistenza da parte della giustizia di Dio. La glorificazione non è solo una speranza. Essa è anche un’anticipazione concessa da Dio per grazia, la quale non solo esprime la certezza del futuro, ma designa un avvenimento presente e attuale. Come la gloria del vangelo è brillata sul volto di Cristo (2Cor 4,4.6), così noi, rivolti al Signore e al suo Spirito e contemplando la sua gloria nello specchio del vangelo, già ora veniamo trasformati da gloria a gloria, nell’essenza gloriosa di Cristo (2Cor 3,16 ss).
Anche il cosmo con le sue «potenze» non può separarci dall’amore di Dio. Sono enumerate dieci potenze. Al primo posto sta la morte, che secondo 1Cor 15,26 è l’ultimo nemico e quindi la potenza peggiore. Qui però la morte è accoppiata a un’altra potenza: la vita. Anche la vita può allettarci con le sue lusinghe a volgere le spalle all’amore di Dio ed essere quindi un pericolo. Persino la vita calma e innocua, non meno della vita agiata e pericolosa, può diventare una realtà ostile, proprio perché separa dall’amore di Cristo. I cristiani non devono vivere per se stessi o per il mondo, ma devono vivere e morire per il Signore (Rm 14,7-9).
Conclusione
I cristiani, in virtù dello Spirito hanno acquisito nella fede la libertà di amare e di sperare. Nella loro preghiera «geme» lo Spirito stesso; geme per loro. Con il suo gemito impercettibile, senza parole, lo Spirito viene in soccorso di coloro che e pregano senza però comprendere per che cosa veramente si debba pregare. Così egli trasforma la preghiera dei deboli (i cristiani!) in una preghiera forte, cioè nella schietta preghiera per la gloria.
Per la riflessione ed il confronto
– Siamo oggi chiamati a confrontarci con la nostra preghiera. È un insieme di pratiche anche devote, o è un «ascolto» di Dio e del suo Spirito che prega in noi?
– Siamo convinti che non esiste «potenza» (neppure il nostro peccato se riconosciuto e confessato) o disgrazia che possa separarci dall’amore di Dio in Gesù? Dio non è mai così vicino come nella prova!
– Come educare alla preghiera nelle nostre famiglie? Cosa si può proporre?
Per approfondire
Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, pp. 452-459.

Omelia (17-07-2011): Vigiliamo, perché in noi non attecchisca la zizzania

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23047.html

Omelia (17-07-2011)

mons. Antonio Riboldi

Vigiliamo, perché in noi non attecchisca la zizzania

È facile per noi sacerdoti incontrare genitori che, con molta sofferenza, non sanno spiegarsi come mai un figlio o una figlia, dopo essere cresciuti in un ambiente sano ed educativo, improvvisamente sembra voltino le spalle alla buona educazione nella crescita, adottando uno stile di vita esattamente contrario a quello ricevuto. Difficile trovare le cause, perché sono troppe.
E lo stesso accade ad alcune persone che, fino ad un certo punto irreprensibili nella loro vita cristiana, senza una spiegazione apparentemente plausibile – se possono essercene – sposano una vita che è esattamente il contrario di quanto avevano con gioia professato.
E sono tante le storie dolorose, che tutti credo possiamo raccontare in proposito: amici, con cui condividevamo la bellezza della fede; persone che ci prendevano quasi per mano nella dura, ma necessaria, scalata alla santità…
Mi ha fatto impressione trovare in carcere una persona che ammiravo tanto per la sua onestà e testimonianza. Incontrandolo e chiedendogli una spiegazione, se voleva, mi disse: ‘Mi sono lasciato attrarre dal denaro, da certe amicizie. Ho creduto che lì e solo lì ci fosse la vera ragione di vita e, in un batter d’occhio, mi sono trovato qui. Ma mi è rimasta la nostalgia di quello che ero; ora sto cercando giorno per giorno di ricostruire quella pista di bontà, che mi accorgo era la sola che donava la gioia’. E Con voce commossa e occhi pieni di pianto, continuò: ‘Ma come si fa a voltare le spalle al Padre, che è il solo amico che ti dà gioia? Ma che senso ha perdersi in disonestà, che ti conducono dove sono? E ora il prezzo da pagare è tanto. Ci riuscirò? Non mi resta che ricostruire ciò che ero, anche se l’ambiente non aiuta. Ma l’aiuto lo aspetto dalla grazia e da chi, come lei, mi farà da guida a cercare la strada giusta della vità.
Non dovrebbe essere un mistero per alcuno che l’atmosfera che si respira oggi non è quella che aiuta a difendere il ‘buon grano » che Dio cerca di seminare ogni giorno in noi.
Tutto, anche se con toni di festival, sembra indicarci altre strade.
Oggi dovremmo leggere bene la parabola di Gesù, che può farci da guida nella vita, imparando a discernere se ciò che scegliamo o facciamo è ‘grano buono’ o se ‘di notte » ossia senza che ce ne accorgiamo, perché questa è l’arte dell’inganno, ciò che riteniamo ‘grano’ non sia diventato ‘zizzania ‘.
Ci avverte S. Paolo: « Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili: colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio ». (Rom. 8, 26-27)
C’era un tempo in cui tutti, ma proprio tutti, si andava a Messa alla domenica. Ma c’era anche l’abitudine che gli uomini stessero fuori della chiesa, in attesa che il sacerdote finisse la predica.
Per loro la celebrazione iniziava dall’Offertorio. Ed era il sacrista che si incaricava di avvertirli. Non era così per mamma e papà che, a pranzo, volevano sapere da qualcuno di noi, scelti volta per volta, cosa avesse detto il Parroco. Non avere la risposta significava rischiare… il pranzo!
Così come i nostri vecchi sapevano tanto della Parola, al punto che un giorno, un grande dello spirito, il beato Contini, passeggiando per i campi si fermò a dialogare con una donna, che lavorava. Ed alla fine il suo stupore, per la conoscenza della Parola, da parte di questa cristiana, fu tale che esclamò: ‘Ne sa più e meglio di un sacerdote!’.
Ma tutto questo, purtroppo, sembra sparito, con grande danno della fede.
E a questo punto non dobbiamo più stupirci che, nel mondo, anche della Chiesa, ci sia tanta, troppa ‘zizzania’, che impedisce che la Grazia operi in noi.
Meditiamo il breve, ma denso, Vangelo di oggi:
« Il Regno dei cieli si può paragonare ad un uomo che ha seminato il buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico. seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: ‘Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?’. Ed egli rispose loro: ‘Un nemico ha fatto questo.’ E i servi gli dissero: ‘Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?’. ‘No’ rispose, ‘perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori:
Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio. (Mt. 13, 24-30)
Fa impressione quello che afferma Gesù, ma è la verità dei fatti: chi semina ‘zizzania  » ossia il male, lo fa in modo subdolo. Quando nelle nostre coscienze a volte ‘è notte » con parole persuasive semina ‘zizzania » che a volte si trasforma in dissidi, in mezze parole, che rischiano di rovinare i buoni rapporti tra noi… tanto che diciamo: ‘Non gettare zizzania!’, perché il volersi bene ha bisogno di un campo, in cui ci sia solo grano, ossia verità, bontà.
Quante volte nel dialogo tra di noi, come a giustificare la ‘zizzania » sentiamo affermare: ‘Che male c’è?’ Nascondendo che dal male ci si difende non con l’oscurare il bene e la verità, ma con più amore al bene e alla verità.
Sono tantissimi anni, come quelli del S. Padre – 60 anni – che cerco di seminare il ‘buon grano’ non solo nella celebrazione della S. Messa, ma anche in ogni circostanza che la Provvidenza mi offre Ogni volta medito a lungo, prima di ‘predicare’ – come faccio con internet – per fare in modo di dare via libera alla Parola di Dio, senza fronzoli.
Ma quante prediche sarebbe meglio non si tenessero per il nulla che contengono. È urgente che, a cominciare dai sacerdoti, vediamo e trasmettiamo quella immensa luce di verità che Dio dona per fare luce ai fedeli.
E così dovrebbe essere nella famiglia. Ma quante volte, nonostante lo sforzo esemplare dei catechisti, già nella preparazione alla Prima Comunione o alla Cresima, ci si accorge che alle spalle c’è un gran vuoto educativo e cristiano, che difficilmente i sacramenti riusciranno a riempire, riducendo così tutto ad una festa esterna, con poco o nulla di spirituale ed interiore.
Scriveva il caro Giovanni XXIII:
« Permettete alcune brevi considerazioni, a direzione ed a luce del ministero della Parola. Esse concernono tutto il complesso del vostro parlare: verbo et exemplo. Viviamo in tempi arruffati ed angolosi di complicazioni spesso febbrili, di smanie divenute insaziabili e prepotenti, nel rigurgito dei rapporti, anche tra cristiani, nella vita civile.
L’esercizio della sacra predicazione, messa a servizio dell’azione sacerdotale, vuole essere particolarmente segnato di un triplice decoro: di saggezza, di semplicità, di carità….
La carità va di pari passo con la verità…. Dio ci ha chiamati ad illuminare le coscienze, non a confonderle e a forzarle; ci ha chiamati a parlare con la stessa semplicità con cui si enunciano gli articoli del Credo apostolico, non a complicare il ragionamento, né ad accarezzare gli uditori; ci ha chiamati a risanare i fratelli, non a terrorizzarli…  »
Come già vi ho detto, perché la Parola non sia un parlare, estraneo all’ascolto dell’altro, ma lo faccia partecipe, come in un dialogo – come era lo stile di Gesù – quando parlo istintivamente cerco gli occhi di chi mi sta ascoltando. Parlo fissandone gli occhi, senza che forse se ne accorgano, e così la Parola è un bene che va diritto al cuore.
È dunque necessario che tutti noi, chi parla e chi ascolta, scorga nella Parola lo Spirito di Gesù, che cerca di trovare spazio nei nostri cuori.
E’ urgente per non svuotare la nostra anima della conoscenza della Parola di Dio, farci riempire con la nostra attenzione consapevole e amante, rendendo la programma di vita.
Diversamente il parlare e l’ascoltare diventa solo un noioso rumore… e il nostro ‘campo’ pronto solo ad accogliere ‘zizzania’,
Che non avvenga mai né in chi predica, né in chi ascolta.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 16 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

17 LUGLIO 2011 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

17 LUGLIO 2011 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A16page.htm

Seconda Lettura   Rm 8, 26-27
Lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla seconda lettera ai Corinzi di san Paolo, apostolo 1, 1-14

Rendimento di grazie in mezzo alle tribolazioni
Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Timoteo, alla chiesa di Dio che è in Corinto e a tutti i santi dell’intera Acaia: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.
Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione.
Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, per la speranza che abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora, grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi, affinché per il favore divino ottenutoci da molte persone, siano rese grazie per noi da parte di molti.
Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio. Non vi scriviamo in maniera diversa da quello che potete leggere o comprendere; spero che comprenderete sino alla fine, come ci avete già compresi in parte, che noi siamo il vostro vanto, come voi sarete il nostro, nel giorno del Signore nostro Gesù.

Responsorio    Sal 93, 18-19; 2 Cor 1, 5
R. La tua grazia, Signore, mi ha sostenuto; * oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato.
V. Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la consolazione:
R. oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato.

Seconda Lettura
Dalla «Lettera ai cristiani di Magnesia» di sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
(Intr.; Capp. 1, 1 5, 2; Funk 1, 191-195)

Non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero
Ignazio, detto anche Teoforo, alla chiesa benedetta dalla grazia di Dio Padre, in Cristo Gesù nostro Salvatore: in lui saluto questa chiesa che è a Magnesia sul Meandro e le auguro di godere ogni bene in Dio Padre e in Gesù Cristo.
Ho appreso che la vostra carità è perfettamente ordinata secondo Dio. Ne ho provato grande gioia e ho deciso di rivolgere a voi la parola nella fede di Gesù Cristo. Insignito di un’altissima onorificenza, cioè delle catene che porto ovunque con me, canto le lodi delle chiese e auguro loro l’unione con la carne e lo spirito di Gesù Cristo, nostra vita eterna, nella fede e nella carità, più desiderabile e preziosa d’ogni bene. Auspico per loro soprattutto l’unione con Gesù e il Padre. In lui resisteremo a ogni assalto del principe di questo mondo, sfuggiremo dalle sue mani e giungeremo a Dio.
Ho avuto la grazia di vedervi nella persona del vostro vescovo Damas, uomo veramente degno di Dio, dei santi presbiteri Basso e Apollonio e del diacono Sozione, mio compagno nel servizio del Signore. Possa io trarre profitto dalla presenza di Sozione, perché è sottomesso al vescovo come alla grazia di Dio e al collegio dei presbiteri come alla legge di Gesù Cristo.
Non dovete approfittare della giovane età del vescovo, ma avere per lui ogni rispetto, considerando l’autorità che gli è stata conferita da Dio Padre. So che fanno così anche i venerandi presbiteri, che non abusano della sua evidente età giovanile, ma, da uomini prudenti in Dio, gli stanno soggetti vedendo in lui non la sua persona, ma il Padre di Gesù Cristo, vescovo di tutti. Ad onore di colui che ci ama conviene ubbidire senza ombra di finzione perché altrimenti non si inganna questo vescovo visibile, ma si cerca di ingannare quello invisibile. Qui non si tratta di cose che riguardano la carne, ma Dio, che conosce i segreti dei cuori.
Non basta essere chiamati cristiani, ma bisogna esserlo davvero. Ci sono alcuni che hanno sì il nome del vescovo sulle labbra, ma poi fanno tutto senza di lui. Mi pare che costoro non agiscano con retta coscienza, perché le loro riunioni non sono legittime, secondo il comando del Signore.
Tutte le cose hanno fine, e due termini ci stanno davanti la vita e la morte. Ciascuno andrà al posto che gli spetta. Vi sono, per così dire, due monete, quella di Dio e quella del mondo, e ciascuna porta impresso il proprio contrassegno. I non credenti hanno l’impronta di questo mondo, ma i fedeli che sono nella carità portano impressa l’immagine di Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se noi, con la grazia sua, non siamo pronti a morire per partecipare alla sua passione, la sua vita non è in noi.

Responsorio    1 Tm 4, 12. 16. 15
R. Sii esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza; * così facendo, salverai te stesso e coloro che ti ascoltano.
V. Abbi premura di queste cose, dedicati ad esse interamente
, e tutti vedano il tuo progresso.
R. Così facendo, salverai te stesso e coloro che ti ascoltano.

The first jewish passover

The first jewish passover dans immagini sacre

http://www.artbible.net/1T/Exo1201_Passover_source/pages/15%20HISTORY%20BIBLE%20UTRECHT%20C.%201430%20THE%20FIRST%20PA.htm

Publié dans:immagini sacre |on 15 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

La spiritualità paolina nella Regola di San Benedetto

dal sito:

http://www.dimensionesperanza.it/aree/spiritualita/spiritualita-della-vita-religiosa/item/6209-la-spiritualit%C3%A0-paolina-nella-regola-di-san-benedetto-sr-maria-cecilia-la-mela-osbap.html?tmpl=component&print=1

La spiritualità paolina nella Regola di San Benedetto

di Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap

Vivere quest’anno all’insegna del messaggio paolina è, per noi monaci e monache, occasione preziosa per riaccostarci al testo della nostra Regola, interrogando san Benedetto circa la sua sintonia con il grande san Paolo che è, per lui, l’Apostolo per antonomasia. Se è vero che tutta la Regola è impregnata di Sacra Scrittura, non può non balzare subito agli occhi la massiccia presenza di citazioni, implicite ed esplicite, tratte dalle lettere di Paolo di Tarso. San Benedetto chiama spesso in causa l’Apostolo delle genti lasciando spazio alla sua autorevolezza per avvalorare quei concetti che vorrebbe imprimere con forza nei suoi monaci; non è un caso che i riferimenti paolini sono più abbondanti proprio nel Prologo e in quei capitoli che più sembrano stare a cuore al nostro Legislatore. Molte delle citazioni tratte dalle lettere di san Paolo rimandano, a loro volta, ad altre citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, specie dei salmi e del Vangelo, ma circoscriviamo la nostra lectio divina limitandoci ai rapporti strettamente paolino-benedettini.
Diverse tematiche ricorrenti negli scritti paolini fanno da sottofondo a tutta la Regola, quasi attraversandola e strutturandola in un tutto organico e ben definito. Uno dei temi più sviluppati è quello della corsa e sul quale sono stati fatti autorevoli studi. Un altro è quello del combattimento, della milizia, dell’esercizio ginnico, della gara per cui il monaco, come il cristiano, si configura come lottatore, come soldato, come atleta, come agonista. Entrambi questi aspetti interpretativi dell’impegno del cristiano nel mondo e nella Chiesa sono pervasi da quella tensione escatologica che è tipica di san Paolo e di san Benedetto e che pone il cristiano, il monaco, il consacrato, quale segno vivente del destino ultimo per cui siamo stati creati. C’è poi tutta la cura pastorale che san Benedetto mutua dalle due lettere a Timoteo e da quella a Tito, attribuendo all’abate le prerogative e le responsabilità che san Paolo richiede al vescovo. E l’elenco potrebbe continuare ancora.
Tra i tanti sviluppi che si potrebbero approfondire in questo anno paolino, ad esempio quello dell’umiltà come « annientamento » (Fil 2,8), dell’obbedienza pronta e generosa « perché Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7), del lavoro come processo di umanizzazione (1 Cor 4,12) e tanti altri; mi soffermo sul tema della carità lasciandomi orientare dall’invito di san Paolo rivolto a tutti noi: « Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole » (Rm 13,8). Per questo parto da quel meraviglioso capitoletto che è la sintesi e il cuore della Regola benedettina, il 72°, dello zelo buono che devono avere i monaci. Leggiamolo insieme: «Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da Dio e conduce all’inferno, così vi è uno zelo buono, che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna». E, di seguito, san Benedetto, con chiari riferimenti all’insegnamento del Vangelo e alla teologia di San Paolo, esplicita i sentimenti e le azioni che devono animare il monaco in questa ascesa della carità. È necessario prima di tutto esercitarsi con « ardentissimo amore ». Attenzione ai superlativi: san Benedetto non è cristiano di mezze misure! Un amore, dunque, non fiacco, non tiepido, non part time, ma un amore ardente, che brucia, che non dà tregua, che ci sollecita, ci vuole tutti coinvolti in questa difficile, ma meravigliosa avventura della nostra vita cristiana e della nostra vocazione benedettina. E chi più « focoso » del belligerante Paolo di Tarso? Dalla sua magnifica penna è uscito quell’inno alla carità che ha sottolineato con forza la grandezza del cristianesimo! Tra l’altro, va detto che le lettere paoline più gettonate sono le due ai Corinzi e nella prima (1 Cor 13,1-13) vi è propriamente l’inno alla carità. Ed un inno alla carità può essere considerato, appunto, il capitoletto dello zelo buono.
Alcuni verbi vorrei trarre da questo crescendo « benedettino » dell’amore e consegnarli a me stessa, e a chi legge, come particolare impegno per questo anno di comunione e condivisione che il Signore ci dona di vivere all’insegna del fare memoria dell’Apostolo Paolo e della sua eredità spirituale: prevenire, sopportare, prestare, cercare, volere bene, temere, non anteporre.
« Si prevengano cioè l’un l’altro nel rendersi onore », ovvero la stima sia alla base dei nostri rapporti fraterni che si concretizzano anche in quelle basilari norme di buona educazione che sottolineano la preziosità dell’altro, il rispetto per la dignità umana: un onore, un rispetto, un’attenzione che sia reciproca, condivisa, che unisca sempre più i cuori e le menti. Così scrive san Paolo ai Romani (12,10): «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». La carità è ardentissima, non ammette cioè tiepidezze… spinge a correre, a gareggiare pur di arrivare primi, ma mai da soli … i primi, non il primo, cioè non io ma noi…
Con l’invito «sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali», che fa eco a quello paolino «sopportandovi a vicenda con amore» (Ef 4,2), il nostro Santo Padre Benedetto ci esorta a non scandalizzarci della fragilità degli altri, a non giudicarla, a non condannarla, ma a farci carico della debolezza altrui, ricordando che è una eredità comune, che nessuno è esente dal poter sbagliare, … coprire amorevolmente, scusare la fragilità degli altri, valorizzare le loro qualità, le potenzialità umane, così come vorremmo sia fatto a noi. Anzi, secondo l’esortazione del capitolo 7° Dell’umiltà, bisogna salire il settimo gradino che «è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell’intimo del cuore»; infatti così ci esorta Paolo: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). E ancora san Benedetto nel cap. 63 Dell’ordine della comunità: «Dovunque i fratelli s’incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; quando passa un anziano, il più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca sedersi con lui se l’anziano non glielo permetta perchè si avveri ciò che è scritto: « Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore » (Rm 12,10». Non cerchiamo di imporre sempre il nostro parere ma ascoltiamo tutti, sempre pronti a far felici i fratelli accontentandoli se, quello che ci chiedono, è un bene per loro e per noi. Sempre, comunque, non lasciamo mai nessuno nell’amarezza per causa nostra. E quest’urgenza inderogabile di non rattristare nessuno non è proprio una delicatezza meravigliosa di carità? (Cfr RB capp. 27 e 31). Infatti, l’indicazione di san Paolo, fatta propria da san Benedetto, pone come orientamento pedagogico (la sollecitudine dell’abate verso gli scomunicati) e relazionale (il lavoro del cellerario e, in un certo senso, la cura dei propri uffici da parte di tutti i monaci) quello di «far prevalere la carità» (2 Cor 2,8).
Ma torniamo al nostro zelo buono: «Si prestino a gara obbedienza reciproca»: dialoghiamo con serenità confrontandoci per crescere, gareggiamo per fare del monastero veramente la casa di Dio e «nessuno cerchi l’utilità propria, ma piuttosto l’altrui»; ecco le citazioni paoline implicite nel testo della Regola: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10,24) «Senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).
«Si voglia bene a tutti i fratelli con casta dilezione», ossia il nostro voler bene agli altri sia limpido, rifletta la carità evangelica, sia capace di cedere pur di costruire sempre il dialogo, la condivisione, la pace. E cerchiamo di volere bene a tutti, senza distinzioni. Così San Paolo ai Tessalonicesi (4,9): «Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri». E di rimando San Benedetto: «Temano Dio nell’amore}», un timore che non è paura, ma riverente confidenza, un timore che ci aiuta a vivere costantemente alla presenza di Dio mediata dall’abate: «Amino il loro abate con sincera ed umile carità». E, infine, «nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna». Tutti insieme: è il « pallino » di San Benedetto, il suo chiodo fisso … è l’ansia, l’urgenza di Cristo che, come nella sua ultima cena terrena, continua a raccomandare l’amore vicendevole, l’inderogabile e suprema priorità dell’amore. Non per nulla la vita e l’opera di San Paolo, così come di San Benedetto, sono eminentemente cristologici.
Velocemente mi soffermo su alcuni inviti alla carità con i quali San Benedetto costella diversi capitoli della Regola in sinossi con le relative citazioni paoline. Per prima cosa l’elenco degli strumenti delle buone opere (cap. 4°) che esordisce proprio con i due precetti evangelici della carità: «Anzitutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; quindi il prossimo come se stesso». I 74 strumenti delle buone opere sono quasi tutti avvalorati da citazioni bibliche, tuttavia, quelli inerenti all’amore verso il prossimo sono per lo più presi da San Paolo che così scrive ai Romani (13,9): «Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso». E con voce unanime, Paolo e Benedetto, ci invitano a consolare gli afflitti così come siamo consolati noi stessi da Dio (2 Cor 1,3-4), a non lasciarci trascinare dall’ira e ritornare in pace prima del tramonto (Ef 4,26), a non rendere male per male ma cercare sempre il bene con tutti (l Tess 5,15), a subire l’ingiustizia piuttosto che infliggerla agli altri (l Cor 6,7-8) … perché, come è detto nel 4° gradino dell’umiltà, «per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualche contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: « Per te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello »(Rm 8,36) e sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: « Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati »» (8,37) « [ ... ] e con l’Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli (2 Cor 11,26) e benedicono chi li maledice (1 Cor 4,12».
Questo amore lo troviamo « incarnato » nell’Eucaristia: alimentati dal « pane dei forti », avremo energie e coraggio per esercitarci in questo zelo buono, ossia la carità; questo amore lo dobbiamo incarnare nei fratelli «poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6, 10), cioè «a tutti si renda il conveniente onore» (RB 53) certi che tutto passa, tutto delude, solo Dio e il bene che ci vogliamo rimangono in eterno. E dopo due mila anni dalla sua opera di evangelizzazione ce lo continua a dire « ardentissimamente » San Paolo e, perché non lo dimentichiamo, c’è San Benedetto a ricordarcelo continuamente nella nostra Regola.

(da Il Sacro Speco di San Benedetto, n. 2, 2009)
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Le condizioni che san Benedetto esige perché un monaco possa essere suo discepolo, il fine al quale il monaco deve aspirare, le linee maestre del metodo pedagogico che caratterizza la scuola benedettina, sono fatti non soggetti ai mutamenti dei tempi e, per ciò stesso, validi attuali anche a distanza di quattordici secoli. Per riuscire nel suo proposito, san Benedetto organizzò il monastero nella maniera che credette più adatta per gli uomini del suo tempo. Se ancora oggi i monasteri sparsi nei cinque continenti devono essere scuola di formazione, perché i monaci possano raggiungere quel fine, è del tutto comprensibile che si vedano obbligati ad adattare il metodo pedagogico della Regola e l’organizzazione del monastero alle esigenze di tempi, luoghi e culture tanto diverse da quelli nei quali visse san Benedetto; a condizione, naturalmente, che le nuove forme non distruggano, ma anzi favoriscano la coerenza interna della Regola (Gabiele M. Brasò, Lettere ai monaci, Praglia 1980

Publié dans:SAN PAOLO E GLI ALTRI SANTI |on 15 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

San Bonaventura

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Publié dans:immagini sacre |on 14 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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