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gli uccelli cantano la lode di Dio

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Publié dans:immagini sacre |on 18 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

(SALMO 102 – COMMENTO EBRAICO)

 dal sito:

 http://www.nostreradici.it/titoli_festa.htm

(SALMO 102 – COMMENTO EBRAICO)

« Benedici il Signore, anima mia,
Signore, mio Dio, quanto sei grande!
Rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto…
Fai scaturire le sorgenti nelle valli
scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche
e gli onagri estinguono la loro sete.
Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo,
cantano tra le fronde.
Dalle tue alte dimore irrighi i monti,
con il frutto delle tue opere sazi la terra.
Fai crescere il fieno per gli armenti
e l’erba al servizio dell’uomo,
perché tragga alimento dalla terra: 
il vino che allieta il cuore dell’uomo;
l’olio che fa brillare il suo volto
e il pane che sostiene il suo vigore.
Si saziano gli alberi del Signore,
i cedri del Libano da lui piantati.
Là gli uccelli fanno il loro nido
e la cicogna sui cipressi ha la sua casa.
Per i camosci sono le alte montagne,
le rocce sono rifugio per gli iraci
Voglio cantare al Signore finché ho vita,
cantare al mio Dio finché esisto.
A lui sia gradito il mio canto;
la mia gioia è nel Signore ».
Sal 104. 1-2a. 10-18.33-34.
 

Data e nome della Festa
Tu bi-shevat, come Tish’a be-av, è una festa designata per la sua data: Tu. 
Secondo il valore numerico della prima lettera (Tet=9) e della seconda (Waw=6) Tu è il quindicesimo giorno (9+6=15) del mese di Shevat. È I’undicesimo mese se si conta da Nissan (il mese della Pasqua) e quinto se si conta da Tishrì (il mese delle feste).
  Shevat è il mese durante il quale, nell’ultimo anno di peregrinazione per il deserto, Mosè avrebbe ripetuto al popolo tutte le parole di Dio: « Nel quarantesimo anno, I’undecimo mese, il primo giorno del mese, Mosè parlò agli Israeliti, secondo quanto il Signore gli aveva ordinato di dir loro » (Dt 1,3). In questo discorso, Mosè annunzia I’ esilio come castigo dell’infedeltà, ma nello stesso tempo apre alla speranza della conversione e del ritorno.   

Senso della festa 
  Secondo la Mishnah, Tu bi-Shevat è uno dei quattro giorni di Capodanno allora conosciuti: « Vi sono quattro inizi dell’anno.

  Il primo di Nissan inizia l’anno di regno dei re e il ciclo delle feste di pellegrinaggio.
  Il primo di Ellul è l’ inizio dell’anno per la prelevazione della decima degli animali.
  Il primo Tishrì è per l’ inizio del computo degli anni, anni di maggese e giubilari, Rosh ha-Shanah.
  Il primo di Shevat inizia il nuovo anno per gli alberi. Questa è l’ opinione di Shammai.
  L’opinione della scuola di HilleI è che l’anno degli alberi inizia il quindici di Shevat. » (1)
  La divergenza di parere tra i due era senz’altro dovuta alloro luogo di residenza. Hillel e i suoi discepoli vivevano a Gerusalemme e sulle colline della Giudea dove gli alberi, a una certa altitudine, fiorivano più tardi rispetto alla pianura in cui avevano le loro terre i seguaci di Shammai. La data che si impose fu Quella fissata da Hillel.
  Come Rosh ha-Shanah è un giorno di giudizio per gli uomini, il quindici di Shevat, Capodanno degli alberi, è un giorno di giudizio per gli alberi: in esso Dio decide l’abbondanza dei frutti dell’ annata. Gli uomini, allora, pregano Dio, Creatore e Giudice, per la prosperità di queste creature che sono gli alberi.
   Gravida d’acqua dopo la stagione delle piogge che di solito terminano in questo periodo, la terra permetterà agli alberi che saranno piantati di radicarsi e di portare frutto. Ed è sui frutti maturi, dopo questa data, che bisognerà prelevare la decima (Lv 19,23-25). Questo giorno è feriale, non è perciò che una festa a metà. Non se ne parla nella Bibbia, anche se vi abbondano le prescrizioni concernenti gli alberi.
    È comunque molto antica dato che se ne fa menzione nella Mishnah. La data oscilla per noi tra la fine di gennaio e la metà di febbraio: ci troviamo a una svolta importante nella natura poiché sotto la morte apparente dell’albero si nasconde un nuovo dinamismo. La linfa sale e si prepara un’ esplosione di vita.
    Il carattere festivo di questo giorno si sviluppò durante l’ esilio « galut », nel XVI secolo. Probabilmente per nostalgia della terra promessa, così lontana nello spazio, ma così vicina alla memoria del cuore.
  I mequbbalim (2) di Safed, cittadina della Galilea, hanno introdotto un ulteriore significato della festa. Ytzchak ben Salmon Luria (1534-1572) e i suoi discepoli si sentivano molto vicini alla natura e andavano spesso nei campi ad osservare il cambio delle stagioni. Secondo la Torah, dicevano, l’ albero da frutto, l’ albero del campo è l’uomo stesso. Mangiare dei frutti significa espiare il peccato originale.
  Gli alberi devono ricordarci l’ Albero della Vita che apporta al mondo la benedizione divina, Tu bi-Shevat è il momento per prepararci a ritrovare l’armonia dell’Eden, che permetterà la restaurazione spirituale del mondo « tikkun olam ».(3)  Simboli e riti 
  Si tratta di una festa minore come tutte le altre feste di istituzione rabbinica. Nell’ufficio non viene recitata nessuna preghiera penitenziale, non ha alcuna referenza speciale nella liturgia e il digiuno è vietato.
  Nelle comunità « ashkenazite » (4) originarie dell’est del Reno, vi è l’usanza di mangiare quindici frutti diversi, con una preferenza per quelli che vengono dalla terra d’Israele, recitando la benedizione: « Benedetto sei tu Signore nostro Dio, Re dell’Universo, che crei il frutto dell’albero ».
  Alcune comunità « sefardite » hanno arricchito i riti e i costumi di Tu bi-Shevat, introducendo un vero servizio liturgico sul modello del « seder » di Pasqua. Si celebra una funzione attorno alla mensa familiare e si pronuncia la benedizione sul grano, l’orzo, l’uva, i fichi, i melograni, le olive e il miele, le sette specie con le quali è stata benedetta la terra d’Israele (Dt 8,8). Si consuma, quindi, il pasto rituale che comprende anch’esso quattro coppe di vino ed è accompagnato dalla lettura di passi della Scrittura, del Talmud, di poemi e di canti. Dopo aver mangiato i frutti, si recita questa preghiera di ringraziamento:
« Noi ti rendiamo grazie, perché tu sei, Signore nostro Dio e Dio dei nostri padri, Dio di ogni carne, nostro Creatore, Creatore dell’inizio; benedizioni e lodi al tuo Nome grande e santo, per la vita che ci hai donato e conservato. Continua ancora a donarci vita e a mantenerci in questa vita e riunisci noi dispersi nei tuoi santi atri per osservare i tuoi comandamenti, compiere la tua volontà e servirti con un cuore puro ».
  Si recita poi il salmo 104 che è una lode al manifestarsi della grandezza di Dio nella creazione e i quindici salmi delle ascensioni (salI 120-134).
  I sefarditi, inoltre, recitano in questo giorno, che chiamano « festa dei frutti », delle poesie speciali « complas ». I bambini hanno diritto a una festa a parte e ricevono in regalo un sacchetto di frutta « bolsa de frutas ».

   La vigilia di Tu bi-Shevat, i sefarditi di Gerusalemme si riuniscono nelle sinagoghe o nelle « yeshivot », le scuole talmudiche. Leggono per tutta la notte passi della Torah, della Mishnah, del Talmud e dello Zohar, raccolti in un volumetto « Peri Es Hadar », il bel frutto, che contiene anche vari riferimenti alla vita agricola della terra santa.(5)

  Un frutto tipico della festa è il carrubo detto anche « pane di san Giovanni » forse perché il Battista se ne nutriva nel deserto: la stessa parola greca ha il doppio significato di cavalletta e di carrubo.

  Il ritorno del popolo ebraico in Israele ha dato un significato ulteriore a questa festa. I pionieri iniziarono a dissodare il deserto, a bonificare le paludi e a piantare alberi senza numero.

  La festa fu l’ occasione per rinsaldare il legame del popolo con la terra, facendolo partecipare al rimboschimento. Ancora oggi, in questo giorno, i bambini delle scuole, i nuovi immigrati e gli ospiti stranieri « piantano alberi ».

  La redenzione della terra in seguito al dissodamento del deserto e al rimboschimento di un suolo pietroso e spoglio, porta l’israelita ad elevare, con forza e con gioia, un canto di azione di grazie al Creatore: « Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato » (Dt 8, 10).

  È consuetudine fare passeggiate nel paese. Una bella preghiera è recitata da alcune comunità:

« Sia questa la tua volontà, Dio nostro ed eterno e Dio dei nostri padri, che per la virtù di questi frutti che stiamo per consumare e su cui pronunciamo la benedizione, gli alberi si carichino di una profusione di frutti, crescano e fruttifichino dall’inizio dell’anno fino alla fine, per la felicità, la vita e la pace. » (6)

Agganci con la liturgia cristiana 
  Si tratta di una festa che non ha l’equivalente nel mondo cristiano. Tuttavia la Scrittura è piena di riferimenti agli alberi, dalle prime pagine fino alle ultime.

   « E il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’ albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male » (Gen 2, 8-9).

  L’albero della vita, precluso all’uomo dopo il peccato, lo ritroviamo in Ap 22, 2: « In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’ altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’ albero servono a guarire le nazioni.

  « Questo albero di vita, questo albero unico, che si eleva tra la terra e il cielo e che ha squarciato il cielo per noi, è il legno spoglio della Croce. La liturgia della Passione ci invita a cantare:

O Croce fedele, albero venerato,
albero unico per la sua nobiltà.
Mai le foreste hanno prodotto fiori
e frutti simili.
Legno amatissimo, chiodi benedetti,
come è dolce il fardello che portate! »

 (1) Hillel e Shammai, due saggi dell’epoca del secondo Tempio, vissuti nei primi anni dell’era cristiana, capi di due scuole che rivaleggiavano tra loro.  
(2) Mequbbalim, seguaci della Qabbalah, tradizione, termine che indica l’insieme della dottrina esoterica e mistica ebraica.
(3) Colette Estin, Feste e Racconti Ebraici, Edizioni Dehoniane Roma, 1991, p.98.
(4) Ashkenazita è il rito « tedesco » degli ebrei provenienti dall’Europa centro-orientale, che si distingue da quello sefardita « spagnolo » seguito dalle comunità nord-africane e medio-orientali.
(5) Cahiers Evangile, Les fetes juives, Service Biblique Evangile et Vies, Edition du Cerf, Paris, 1993, p.113. 
(6) Rina Geftman, L’offerta della sera, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.79. 

La creazione e l’escatologia in S. Paolo (seconda parte)

La creazione e l’escatologia in S. Paolo (seconda parte)

Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre.
L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile.
Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.
un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante (ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.
alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile.
E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo.
I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.
l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività.
La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso.
Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.
il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte).
Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta.
Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».
il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico-spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa.
Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.
la creazione in prospettiva cristologica

Publié dans:CREAZIONE (La) IN SAN PAOLO |on 18 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

La creazione e l’escatologia in S. Paolo: Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo (prima parte)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=57

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 32° – 2010/2011

La creazione e l’escatologia in S. Paolo (prima parte)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 13-14 gennaio 1990

Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà.
C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia.
Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso.
Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità.
Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.
1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato.
« Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, m a prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui,
e c’è un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ».
Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio.
Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.
Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari.
« Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco.
« Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato.
« Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ».
Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo
2Corinzi 5,17 e Galati 6,15
I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva.
Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui.
Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica.
Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.
sdivinizzazione dell’uomo e del mondo

buona notte e buona domenica

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Himalayan Honeysuckle

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Publié dans:immagini...buona notte...e |on 17 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia, sempre da sito, la chiesa it – le omelie per domani sono tutte belle

Omelia (17-07-2011)
padre Gian Franco Scarpitta
L’amore di Dio e l’invidia del diavolo

Le letture di questa domenica ci rassicurano sulla bontà fondamentale di tutte le cose, sulla bellezza del creato e sull’essere dell’uomo « ad immagine e somiglianza di Dio », cioè fondamentalmente buono, anche se avvinto da un’innata inclinazione (concupiscienza) che lo spinge al male. La prima Lettura del libro della Sapienza è molto rassicurante, perché spiega che non c’è Dio all’infuori del nostro che abbia cura di tutte le cose e per Lui essere padrone di tutto il creato e Signore della storia e del mondo non equivale ad esercitare un predominio sproporzionato e totalitario, ma comporta amore e attenzione verso tutte le cose. Dio è mite e mansueto, indulgente con tutti anche nell’esercizio del suo potere, che in definitiva consiste nell’esternare il suo amore a tutte le creature. Altrove il libro della Sapienza esalta la creazione come riflesso della bontà di Dio, e individua Dio nelle creature medesime. Anche Gesù parla della fondamentale bontà di Dio e del suo amore incondizionato e provvidente per l’umanità, prima ancora che attraverso le parole con la sua stessa vita da Figlio dell’Uomo acquisita nell’Incarnazione: le opere stesse attestano alla misericordia del Padre e i suoi insegnamenti ne avallano la verità. Tuttavia Gesù oggi sta richiamando la nostra attenzione sulla realtà dei fatti e sulla concretezza. Solitamente, le parabole e gli insegnamenti di Gesù descrivono il Regno dei cieli in termini affascinanti e positivi: la dramma perduta e recuperata, il tesoro nascosto in un campo, insomma qualcosa di prezioso. Il dramma della zizzania seminata accanto al grano è invece forse l’unico discorso gesuano sul Regno in cui si intrecciano la bontà di Dio con l’amara realtà della vita umana e si scontrano in un duello scabroso due realtà difficili ad essere conciliate: la bontà di un Dio amore e misericordia e la cattiveria, il dolore, la nequizia che imperversa nel mondo. Come concepire la realtà di un Dio buono e provvidente di fronte all’evidenza dell’orrore dell’odio, della violenza, delle ingiustizie e delle malvagità che affliggono anche gli stessi uomini che le commettono? Prima di dare una risposta alla presente domanda assillante, Gesù constata egli stesso la realtà contro cui siamo costretti a lottare a mani nude: il grano che convive con la zizzania. Cioè il bene rappresentato dai giusti, dai pii e dai saggi di ogni tempo che procede nella storia disturbato dal male, questo reso evidente dalle ingiustizie e dalle perversità: è una realtà concreta e ineluttabile questa convivenza fra bene e male e rientra perfino nei parametri con cui si definisce il Regno di Dio.
La risposta giunge a bruciapelo, proprio come è stata posta la domanda che ci siamo posti: « Un nemico ha fatto questo ». Si tratta ovviamente del famoso « serpente antico », che l’Apocalisse identifica nel diavolo, detto anche Satana (Ap 12, 12 – 17). La sua presenza, così avvertita da tutti quanto alle sue azioni straordinarie (possessioni diaboliche, ossessioni), è molto poco considerata riguardo alla sua perfida e astuta attività ordinaria, con la quale egli miete sempre più vittime e indisturbato agisce a danno della nostra convivenza. Il termine « diavolo » già dice tutto: etimologicamente significa « dividere » (dia – ballein) e appunto la divisione e le fazioni sono l’elemento portante della sua perfida azione nella nostra vita associata anche nelle comunissime circostanze del vissuto. Le divisioni e le divergenze si verificano all’interno delle famiglie, dei gruppi, delle associazioni quando in essi anche un solo elemento semina discordia attraverso insinuazioni, pettegolezzi, sabotaggi, in modo da suscitare tensione, sfiducia e acredine gli uni verso gli altri. E’ già un grosso dramma quando un solo soggetto semina disunione e discordia mettendoci gli uni contro gli altri per mezzo di falsità e di menzogne; ancora più terribile quando ciò avvenga allo scopo di perseguire interessi materiali o di grande ambizione. La divisione in fondo può essere considerata l’origine di tutti i mali, anche di quelli legati alla fame e alla violenza. Proprio sotto questo aspetto avviene che « il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare »(1Pt 5,8), mostrandosi anche come Satana, cioè (etimologicamente ) « avversario » di chi ci invita invece alla concordia, all’accettazione e alla solidarietà reciproca.
Il « nemico » appena descritto andrebbe maggiormente considerato nella sua reale pericolosità che è quella di guastare i nostri rapporti. Intanto però Dio ha lasciato che egli continuasse a seminare la sua zizzania di odio, di violenza e di cattiveria nel mondo, perché noi si possa esercitare la virtù della perseveranza e della costanza nella prova e perché possiamo guadagnare il premio proporzionato alla fedeltà che avremo mostrato verso Colui che all’origine aveva inteso solamente introdurre nel mondo il solo grano puro e incontaminato. Avere ragione dell’ »avversario » e marciare contro le sue allettanti seduzioni è di sprone alla fiducia in Dio e ci motiva nel restare saldi nella nostra fede e a procacciare per noi stessi le ragioni dell’unità e della conciliazione.
Come dice San Tommaso, Dio è innocente del male del mondo, perché non può essere mai volontà sua che esso distrugga e deprima sempre più persone. Piuttosto, la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sapienza) perché noi possiamo resistervi e averne ragione in forza della nostra appartenenza a Cristo e al nostro perseverare uniti a Lui. Oltretutto, come potremmo noi sperimentare la misericordia di Dio se non fossimo sfidati tutti i giorno da quanto ad essa si oppone? Come potremmo avere la certezza che Dio ci ama se non fossimo esposti all’odio per conoscerlo? Come potremmo esercitare a nostra volta la virtù della carità se la presenza della miseria non ci spronasse alla sensibilità e alla mitezza?
Se non avessimo la facoltà di avvertire dolore tutte le volte che la fiamma ci scotta o una lama ci fende, potremmo anche non accorgerci di esserci ustionati o feriti e potremmo perire arsi o dissanguati. Parimenti, qualsiasi sofferenza è sempre finalizzata in un certo qual modo ad elevarci e a temprarci sia nel fisico che nello spirito e a fortificarci evitando qualsiasi appannamento o appiattimento della vita.
Seppure Dio invita l’uomo a desistere dalla sua condotta malvagia e a tornare alla comunione con Lui, egli non impedisce tuttavia che egli eserciti la propria libertà di scelta anche nel peccato e nella malizia e appunto la libertà è un ulteriore aspetto dell’amore di Dio nei nostri confronti, anche se di fatto essa va orientata nella direzione più adeguata.
Insomma, se il grano è costretto a crescere accanto alla zizzania in realtà non smentisce la realtà di un Dio misericordioso, ma rientra nella stessa dinamica del Regno di Dio, la cui bellezza e convenienza si sperimenta proprio nel conoscere e nell’affrontare tutto quanto ad Esso si oppone.
La speranza ci sospinge tuttavia a protenderci in avanti guardando con fiducia al domani definitivo, nel quale il maligno verrà definitivamente sconfitto e i giusti otterranno la loro ricompensa.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 16 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Napoli, scoperto affresco del VI secolo di S. Paolo

Napoli, scoperto affresco del VI secolo di S. Paolo dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA)

San Paolo nelle catacombe di Napoli

http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2011/6/108991.html

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Napoli, scoperto affresco del VI secolo di S. Paolo

http://multimedia.lastampa.it/multimedia/in-italia/lstp/58342/

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