Archive pour juillet, 2011

Omelia (24-07-2011): Perché viviamo e per chi?

dal sito

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/23097.html

Omelia (24-07-2011)

mons. Antonio Riboldi

Perché viviamo e per chi?

Se c’è una cosa insopportabile nella vita, almeno per chi senta la necessità e l’amore per la verità, è il non riuscire a capire perché si vive o, se vogliamo, per chi si vive.
Guardando tante persone, che vivono accanto a noi o che incontriamo, scorgiamo come dipinto sul loro volto – se si ha un buon senso di osservazione – un certo smarrimento, che viene appunto dal non capire il senso della loro vita e quindi la pista da seguire.
Fanno pietà quanti cercano di soffocare questo disagio, questa domanda del perché e del per chi si vive, abbandonandosi alle creature, che sono quelle che valgono.
Se sul momento può affascinarci la bellezza del corpo, sappiamo che inesorabilmente viene la decadenza. Se ci affidiamo a creature-oggetto, come il denaro, o ancora peggio la ricerca del protagonismo, la celebrità, sappiamo, o dovremmo sapere, che tutto questo svanisce, non solo, ma tante volte, quando siamo soli con noi stessi, sorge una smorfia, di fronte all’evidente finzione della vita, che tutto ciò è, svanendo come la luce delle lucciole.
L’uomo – se siamo onesti, e dovremmo esserlo, per il dono della saggezza che Dio ci ha donato trova la sua definizione nell’osservare e riconoscere la sua origine.
Torna alla mente il giorno in cui il Padre ci trasse dal nulla e – come esprime la Bibbia simbolicamente, ma in modo tanto efficace – ‘con un poco di fango’ ci donò non solo la dignità di uomini, quali siamo, ma è andato oltre, facendoci ‘simili a Sé’, destinandoci alla vita felice con Lui, per l’eternità.
A volte ci pare impossibile che Dio, nella Sua infinita grandezza, ci abbia amato così tanto, da giungere poi a sacrificare Suo Figlio per riaverci in cielo, come aveva pensato fin dalla creazione. Davvero a volte viene da chiedersi: ma chi sono io, che a volte mi apprezzo fuori luogo ed altre mi disprezzo, eppure sono tanto amato da Dio? Ma chi siamo? Possibile che Dio si abbassi tanto per comunicarci amore? E come non commuoverci sapendo che, anche se per ignoranza o cattiveria a volte preferiamo altro, Lui non smette di amarci, fino al punto che se, dopo aver sbagliato, ci pentiamo, è pronto a gettarci le braccia al collo?
Viene in soccorso a tante nostre domande quanto si chiede il Salmista:
« O Signore, quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra!
Se guardo il cielo,. opera delle tue dita, la luna e le stelle che vi hai posto,
chi è mai l’uomo, o Dio, perché ti ricordi di lui? Chi è mai perché tu ne abbia cura? L’hai fatto di poco inferiore a un Dio, coronato di forza ed onore,
signore dell’opera delle tue mani. Tutto hai messo sotto il suo dominio.
O Signore, nostro Dio, grande è il tuo Nome su tutta la terra ». (Salmo 8)
Dio certamente non fissa il suo sguardo sulle apparenze momentanee, di cui ci fregiamo, ma va oltre, guarda il cuore, per cui il Padre sa riempire di amore tutti, anche e soprattutto quelli che hanno poco, ma Gli fanno spazio: coloro che sanno rendersi conto che senza di Lui la vita è vuota.
Una domanda che si fa soprattutto ai piccoli e agli adolescenti è: ‘Cosa credi che sia il bello della vita? In che modo ti impegneresti per averlo e che cosa vale la pena di ‘sacrificare’ per averlo?’. Sappiamo tutti che tante volte l’educazione dei piccoli e degli adolescenti mira a tutto ciò che è futile nel mondo e nella vita: dal successo, alla notorietà, alla ricchezza. Basta vedere l’assurdo interesse per attrici o attori, che si mostrano in video, con scene di incredibile adulazione, voglia di essere come loro, anche se dovremmo sapere quanto vuoto, spesso vi è dietro a tanto luccichio, e quanto possa durare poco: basta nulla e tutto svanisce…
Dovremmo tutti tornare a scoprire il grande valore della vita, di chi siamo, pensando appunto che, essendo ‘fatti ad immagine di Dio’, siamo chiamati a vivere con Lui e per Lui, e che ciò che vale in questa breve parentesi della vita quaggiù è spenderla per essere degni di poterlo incontrare.
C’è una bella lettura oggi, nel libro dei Re, molto istruttiva al riguardo:
« Il Signore apparve a Salomone in sogno, durante la notte e gli disse: ‘Chiedimi ciò che io devo concederti. E Salomone disse: ‘Signore Dio, che hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide mio padre. Ebbene io sono un ragazzo, non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che ti sei scelto, popolo così numeroso che non si può calcolare o contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso? »
Al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare.
Dio gli disse: ‘Perché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te né una lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, io faccio come tu hai detto. Ecco ti concedo un cuore saggio e intelligente. Come te non ci fu alcuno prima di te, né sorgerà dopo di te » (1 Re 3,5-7-12)
Una testimonianza, quella di Salomone, che resta una grande lezione di vita per tutti.
Se esaminiamo quello che noi, a volte, chiediamo a Dio, forse possiamo trovare grandi differenze dalla richiesta di Salomone!
Gesù, nel Vangelo, come a ricalcare le parole di Salomone, torna sulla necessità di dare il primo posto alla ricerca quotidiana del Regno, che è poi il solo grande Bene, immenso Bene, che dà il vero senso alla vita, davanti a cui, tante volte, ciò che cerchiamo si rivela per quello che è: dannose sciocchezze.
Gesù torna ad invitarci a guardare al vero tesoro della vita: la santità.
« Gesù disse alla folla: ‘Il Regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo. Un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il Regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Il Regno dei cieli è simile anche ad una rete gettata in mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete capito tutte queste cose?’. Gli risposero: ‘Sì’. (Mt. 13,44-52)
E verrebbe la voglia di chiederci: e noi lo abbiamo capito? Sono queste le linee guida della nostra vita?
Non dovremmo mai dimenticare quello che siamo: uomini e donne usciti dal Cuore del Padre, che ci ama e desidera una cosa sola: che viviamo a Sua immagine!
Difficile, forse, oggi, in un mondo che rincorre altri idoli, ma necessario, se davvero vogliamo dare alla nostra vita la giusta direzione.
Cerchiamo di seguire le sagge parole di quel grande Papa del sorriso, Giovanni XXIII, che a proposito di santità diceva:
« Basta un semplice pensiero di amor proprio a mandare in rovina per sempre un’infinità di spiriti nobilissimi. Una debolezza di Eva, nel lasciarsi incantare dal serpente, fu l’occasione di tutti i mali dell’umanità. Quale lezione!
Se è vero che, se ad ogni piccolo atto virtuoso corrisponde un cumulo di grazie, deve essere vero altresì che il trascurare anche per un poco questi atti, può essere il principio della mancanza di tante grazie, senza di cui io non posso fare nulla. Non è questione di maggiore o minore degnazione o benevolenza da parte di Dio, ma è questione di corrispondenza da parte dell’uomo.
Le grazie sono sempre pronte, sono le nostre mancanze che ne impediscono l’applicazione. Ricordiamoci: la santità dei santi non è fondata sopra fatti strepitosi, ma sopra piccole cose che forse all’occhio del mondo sembrano inezie ».
Quanta saggezza e semplicità in queste parole. Le stesse virtù che abbiamo potuto tutti ammirare nel Suo pontificato.
Non resta che chiedere a Maria SS.ma quello che chiedeva S. Francesco di Sales:
« Per l’amore e per la gloria del Tuo Figlio divino, accettami come tuo figlio, senza considerare i miei peccati e le mie miserie.
Libera l’anima mia e il mio corpo da ogni male, donami tutte le virtù.
Infine arricchiscimi di tutti i beni e di tutte le grazie, che fanno lieta la SS.ma Trinità ».

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 22 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

SAINT MARY MAGDALEN

SAINT MARY MAGDALEN dans immagini sacre maria_magdalene

http://marymission.blogspot.com/2010/11/mama-mondays-chaplet-of-st-brighid.html

Publié dans:immagini sacre |on 21 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Maria di Magdala, troppi equivoci – memoria 22 luglio (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi8.htm

Maria di Magdala, troppi equivoci  

22 luglio, memoria

Gianfranco Ravasi
(« Avvenire », 3/1/’07)

La stessa tradizione cristiana confuse la Maddalena prima con una prostituta, poi con la sorella di Marta e Lazzaro: ma la deformazione vera nacque con lo gnosticismo.

Una storia di equivoci è quella che ha segnato fin dalle origini la figura di Maria proveniente da Magdala, un villaggio posto sulla costa occidentale del lago di Tiberiade, allora centro commerciale ittico, tant’è vero che in greco si chiamava Tarichea, cioè «pesce salato». Da questa località, Maria emerge all’improvviso nel Vangelo di Luca (8, 1-3), in un elenco di discepole di Cristo. Il ritratto è abbozzato con una sola pennellata: «Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni». Il «demonio» nel linguaggio evangelico non è solo radice di un male morale ma anche fisico che può pervadere una persona. Il «sette», poi, è il numero simbolico della pienezza. Non possiamo, dunque, sapere molto sul male grave, morale o psichico o fisico che colpiva Maria e che Gesù le aveva eliminato. La tradizione popolare, però, nei secoli successivi non ha avuto esitazioni e ha fatto diventare Maria Maddalena una prostituta. Ma perché? La risposta è semplice: nella pagina evangelica precedente, il capitolo 7 di Luca, si narra la storia di un’anonima «peccatrice nota in quella (innominata) città». L’applicazione era facile ma infondata: questa «peccatrice» pubblica dovrebbe essere Maria di Magdala, presentata poche righe dopo! A lei venne, allora, attribuita tutta la vicenda raccontata dall’evangelista. Saputo della presenza di Gesù a un banchetto in casa di un notabile fariseo, essa aveva compiuto un gesto di venerazione e di amore particolarmente apprezzato dal Cristo: aveva cosparso di olio profumato i piedi del rabbì di Nazaret, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli.
A questo primo equivoco ne subentrava un altro, in una specie di giuoco delle sovrimpressioni. È noto, infatti, che nel capitolo 12 di Giovanni, Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, amici di Gesù, compie lo stesso gesto – che, tra l’altro, era segno di ospitalità e di esaltazione dell’ospite – dell’anonima peccatrice di Luca. Infatti, durante il pranzo, «cosparge i piedi di Gesù con una libbra di olio profumato di vero nardo assai prezioso e li asciuga coi suoi capelli». È così che nella tradizione cristiana Maria di Magdala viene trasformata in Maria di Betania, sobborgo di Gerusalemme! Frattanto, però, Maria Maddalena era effettivamente giunta a Gerusalemme alla sequela di Gesù per vivere con lui e coi discepoli le sue ultime ore tragiche. Tutti gli evangelisti sono, infatti, concordi nel segnalare la sua presenza al momento della crocifissione e della sepoltura di Cristo. Ed è proprio accanto a quella tomba nella luce ancora pallida dell’alba di Pasqua che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) ambienta il celebre incontro tra Cristo e Maria di Magdala.
Come è noto, Maria scambia il Cristo col custode dell’area cemeteriale. Ora, la «cecità» è tipica di alcune apparizioni del Risorto: si pensi solo ai discepoli di Emmaus che gli camminano insieme per ore senza riconoscerlo (« Luca » 24, 13-35). Il significato è naturalmente teologico: pur essendo ancora Gesù di Nazareth, il Cristo glorioso travalica le coordinate umane, storiche e fisiche. Per poterlo «riconoscere» è necessario mettersi su un canale di conoscenza trascendente, quello della fede. È per questo che, solo quando si sente chiamata per nome in un dialogo personale, Maria lo «riconosce» chiamandolo in aramaico « Rabbuní », «mio maestro». Ma in agguato per la Maddalena ci sono altri equivoci.
Usciamo dai Vangeli canonici ed entriamo nel mondo, magmatico e insicuro, degli apocrifi gnostici, sorti nella cristianità d’Egitto attorno al III secolo. Ora, in alcuni di questi scritti Maria di Magdala viene identificata con Maria , la madre di Gesù! Identificazione, certo, nobilissima, ma che ancora una volta impediva a questa donna di conservare la sua identità personale. Anzi, la trasfigurazione raggiungerà in quegli scritti una tale altezza da sciogliere la figura di Maria Maddalena fino a renderla quasi un’idea, un simbolo, a Sapienza per eccellenza. E questo risultato viene paradossalmente ottenuto attraverso un’immagine sulla quale la lettura posteriore con malizia ricamerà allusioni voluttuose ed erotiche. Si legge, infatti, nel vangelo apocrifo di Filippo, scoperto nel 1945 a Nag Hammadi in Egitto: «Il Signore amava Maria Maddalena più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli, vedendolo con Maria, gli domandarono: Perché l’ami più di tutti noi?»
Ce n’è abbastanza per chi, ignaro di simbolica biblica (la Sapienza esce dalla bocca dell’Altissimo secondo l’Antico Testamento), voglia seminare sospetto su Maria e su Gesù, fantasticando una relazione sessuale tra i due. In realtà, in tutti gli scritti gnostici cristiani la Maddalena è solo l’esempio della conoscenza piena dei misteri divini. In un altro testo gnostico, il trattato « Pistis Sophia », ove appare per ben 77 volte, la Maddalena diventa l’emblema dell’umanità redenta di tipo androgino (un’altra deformazione!) perché, secondo Paolo, «non ci sarà più né uomo né donna ma tutti saranno uno in Cristo Gesù» (« Galati » 3, 28). Ma la sua funzione di segno della Sapienza divina sarà esplicita in questa beatitudine messa in bocca a Gesù dall’autore gnostico: «Te beata, Maria, ti renderò perfetta in tutti i misteri dell’alto. Parla apertamente tu, il cui cuore è rivolto al Regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli!» (17, 2). Una santa vittima di equivoci, quindi, sospesa tra due estremi: carnalmente abbassata a prostituta o ad amante, spiritualmente elevata a Sapienza trasfigurata. Per fortuna l’unico che la chiamò per nome, Maria, e la riconobbe confermandola come sua discepola fu proprio Gesù di Nazareth, in quell’alba di Pasqua. 

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA (Don Claudio Doglio)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio18.htm#Capitolo_I._L’ATTESA_DI_ISRAELE

don Claudio Doglio

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA
« Va’ e annunzia ciò che il signore ti ha fatto »

Capitolo I. L’ATTESA DI ISRAELE

Il concetto di missione appare marginale nella teologia dell’Antico Testamento. La missione, infatti, comporta il manifestarsi di due fattori all’interno di una religione: il primo è l’attività con cui i credenti si impegnano a partecipare ad altri il contenuto dottrinale e la pratica della loro fede; il secondo è la coscienza che tale attività costituisca l’obbedienza ad un comando divino.
Ora, se consideriamo la storia religiosa dell’antico Israele, dobbiamo constatare che, nella sua fase iniziale e nel suo sviluppo fino ai tempi dell’esilio (VI secolo a.C.), la religione ebraica non comporta alcuna particolare spinta a diffondersi al di fuori di Israele (cf P.Bovati, « La missione nella religione dell’antico Israele », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 25-44). Solo dopo l’esilio babilonese inizia a farsi strada una visione universalistica, che prende in considerazione anche gli altri popoli come destinatari dell’unico progetto salvifico del Dio d’Israele. In ogni caso di « missione » nel nostro senso non si parla quasi mai.
D’altra parte il problema religioso della missione non si risolve mettendo in semplice contraddizione i concetti di « particolare » ed « universale ». È opportuno invece considerare nel suo insieme l’universo biblico veterotestamentario, per cogliere le radici « storiche » della Rivelazione e le sue principali testimonianze missionarie, senza pretendere di rinchiudere tutti i dati in un sistema compiuto (cf G.Ravasi,  » Missione e universalismo nell’Antico Testamento », in: Rassegna di Teologia 28 (1987) 32-59).
Infatti, se consideriamo tutti gli aspetti biblici, ci troviamo di fronte ad atteggiamenti e posizioni molto differenti: sarebbe possibile raccogliere questi dati in due blocchi contrapposti che un esegeta ha chiamato il « dossier dell’odio » e il « dossier dell’universalismo ». Nell’AT si trovano infatti atteggiamenti di estrema chiusura verso gli stranieri fino al desiderio della loro distruzione; ma compaiono altresì considerazioni positive sugli altri popoli con il desiderio della loro unione ad Israele. Quale di queste due correnti dobbiamo prendere in considerazione? Qualunque fosse la nostra scelta, non sarebbe corretto tacere dell’altra! Entrambe costituiscono il patrimonio biblico veterotestamentario. Non possiamo neanche pensare ad un processo di evoluzione, per cui si è passati da un antico atteggiamento esclusivista ad un recente clima di apertura ecumenica che sfocia nella fase neotestamentaria. I dati biblici non permettono questa affermazione. Esclusivismo ed apertura coesistono per tutta la storia dell’antico Israele.

A. LA PAROLA DI DIO NELLA STORIA DEGLI UOMINI
La nostra ricerca deve dunque orientarsi in un’altra direzione: è opportuno, cioè, andare alla ricerca di quei fattori più profondi che hanno caratterizzato la Rivelazione biblica. Ed il primo dato fondamentale è che la Bibbia non è caduta dal cielo, ma è cresciuta con gli uomini: la Parola di Dio non è fuori dal tempo e dalle vicende umane, ma è fin dall’inizio « incarnata » nella storia degli uomini. Questa affermazione di base permetterà notevoli sviluppi per il discorso missionario.

1) Le vicende storiche
Gli eventi che la Bibbia racconta visti da storici ed archeologi non sono altro che « fatti umani », spiegabili con categorie storiche, sociologiche, politiche, economiche: si tratta infatti di migrazioni, oppressioni, fughe, conquiste, organizzazioni di potere e colpi di stato. Eppure il Concilio ci ha insegnato chiaramente che la rivelazione « avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro » (Dei Verbum 2): vuol dire che la Parola di Dio ha dato un senso alla « storia laica » e l’ha resa storia della salvezza; vuol anche dire che le vicende degli uomini non sono indipendenti da Dio, ma, seppure con criteri propri, convergono sempre nella realizzazione del piano divino. L’affermazione per cui nessun evento storico è fuori dell’azione divina significa che la Parola di Dio è strutturalmente « missionaria ».

2) Dalle feste naturali alle feste storiche
Anche la natura con le sue fasi stagionali è assunta dalla Rivelazione come momento significativo. Le grandi feste d’Israele sono infatti celebrazioni preesistenti, legate alla vita naturale dei pastori e dei contadini: la Parola di Dio ha assunto questi elementi e li ha trasformati in celebrazione del Dio salvatore. La Pasqua era la tipica festa di primavera per i pastori che iniziavano la transumanza e per gli agricoltori che celebravano il rinnovarsi della vegetazione: in Israele invece Pasqua diventa la festa storica della liberazione. Pentecoste coincideva con il raccolto delle messi, ma per il popolo di Israele celebra il dono per eccellenza, l’alleanza con Dio al Sinai. La festa delle Capanne era la popolare ricorrenza autunnale in occasione della vendemmia, ma in Israele assume il valore di ricordo del tempo passato nel deserto e della terra donata da Dio. Così il rito naturale, comune a tanti popoli, diventa la celebrazione del Dio che si è rivelato ai figli di Israele.

3) Il rapporto con le altre culture
Anche le culture degli altri popoli, con le loro letterature e mitologie, con i loro codici e regolamenti giuridici, non sono estranee al processo della Rivelazione. Gli autori biblici, infatti, pur essendo ispirati da Dio, non hanno rifiutato la cultura dei loro vicini: anzi hanno saputo attingere a piene mani dai patrimoni letterari e giuridici dei popoli che li circondavano. Ma non hanno preso tutto in blocco acriticamente; hanno invece sempre scelto e vagliato alla luce della loro fede, spesso smitizzando racconti e teorie. La letteratura biblica dell’AT è dunque un ottimo esempio di inculturazione e di missionarietà, perché Israele ha saputo formulare la propria teologia con le categorie culturali degli altri popoli e poi, a sua volta, ha offerto alle altre nazioni il contributo del suo pensiero e della sua visione del mondo.

4) La costrizione in una lingua
Aspetto ancor più mirabile di questo processo della Rivelazione è l’incarnazione della Parola di Dio in « una » lingua umana: suscita ammirazione e stupore pensare alla « condiscendenza » di Dio che ha voluto esprimere il suo Pensiero in una lingua semplice e povera come l’ebraico e si è costretto in una particolare cultura, adattando forzatamente l’eterno allo storico. A questo fatto sono riconducibili tante espressioni lontane dal nostro modo di sentire e sempre questo fatto, alla luce del NT, ci rivela il valore strumentale che hanno le formule e i simboli della fede, premunendoci contro il rischio di assolutizzare le lingue e le forme religiose. Solo un simile pensiero permette un corretto approccio missionario, che sa rispettare lingue e culture, incarnando in esse il messaggio di fede.

5) La creazione: base dell’universalismo
Ultimo decisivo aspetto è la constatazione della realtà creata: la fede di Israele riconosce che tutto viene da Dio, tutte le creature gli appartengono e nulla sfugge al suo dominio. La creazione diviene così il primo articolo di fede, il primo evento della storia di salvezza nella convinzione che solo il Dio che ha creato l’universo è colui che può salvare. Soprattutto i Salmi celebrano il regno universale del Signore (cf Sal 22,29; 47,3.9-10; 66,5.7; 67,5; 96; 97; 98; 99; 138,5-6; 145,13); nel Salmo 33, ad esempio, si descrive in modo pittoresco il dominio cosmico di Dio:

« Il Signore guarda dal cielo,
egli vede tutti gli uomini.
Dal luogo della sua dimora
scruta tutti gli abitanti della terra,
lui che, solo, ha plasmato il loro cuore
e comprende tutte le loro opere » (vv.13-15).
All’aspetto discendente del dominio (Dio-creato) corrisponde anche un aspetto ascendente di lode e di rispetto (creato-Dio) per cui tutte le nazioni e tutte le creature sono coinvolte nell’unica lode al Creatore (cf Sal.22,28; 47,2; 67,3-8; 68,30-33; 96,1.7-9; 98,4.7; 99,3; 145,10-13). Il Salmo 145 avvicina questi due aspetti in una dolce sintesi:

« Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli » (vv.9-10).

Mons. Pietro Rossano nella prolusione alla XXX Settimana Biblica Nazionale, il 12 settembre 1988, spiegò che il dinamismo missionario è proprio e caratteristico delle religioni che credono in un Dio personale e creatore, espresse oggi nel grande tronco dell’ebraismo, dell’islam e del cristianesimo; mentre è assente nelle grandi religioni asiatiche che fondono in un’unica visione Dio, il mondo e l’uomo, disprezzando la storia e la realtà sensibile. Dalle osservazioni fatte in precedenza emerge chiaramente che la religione dell’antico Israele è segnata dalla dinamica storica e profetica e vede all’origine dell’universo un atto creatore di Dio che chiama il mondo all’essere, vi colloca l’uomo e gli rivolge la sua parola direttamente e poi per mezzo dei profeti gli indica la sua volontà e il suo disegno nella storia: un disegno di giustizia e di pace, la cui attuazione è affidata agli uomini e sul quale Dio stesso vigila come vindice del bene e del male. La storia umana appare perciò come la realizzazione progressiva di un disegno divino che abbraccia tutte le nazioni della terra e che richiede la collaborazione dei « fedeli », cioè gli uomini della fede, perché possa giungere alla piena realizzazione (P.Rossano, « La missione nella Bibbia e nelle religioni », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 9-11).
I principi fondamentali della Rivelazione nell’AT si sono dunque presentati come la struttura portante che permette un discorso biblico missionario, anche se storicamente nel popolo di Israele non si è mai realizzata un’attività missionaria come la pensiamo noi. Questi principi fondamentali però hanno influenzato in modo diverso i periodi della storia di Israele in una continua alternanza fra la vocazione universale dell’umanità e l’elezione specifica del popolo ebraico.

The Lord is my shepherd

The Lord is my shepherd dans immagini sacre the-lord-is-my-shepherd-zoom

http://erikbrewer.wordpress.com/2011/05/page/2/

Publié dans:immagini sacre |on 19 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

Il testo che illuminò Agostino (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://gesuveraluce.altervista.org/ravasi14.htm

GIANFRANCO RAVASI

(da Famiglia cristiana)   
    
Il testo che illuminò Agostino   
      
Dei molti che hanno letto le Confessioni di sant’Agostino forse pochi ricordano che il famoso Padre della Chiesa cambiò la sua vita proprio aprendo una pagina della lettera ai Romani, il capitolo 13: «“Non nelle crapule e nelle ebrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze!”. Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata la lettura di questa frase, una luce di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» (Confessioni VIII, 12,29).
La pagina che trasformò Agostino è all’interno dell’ultima parte della lettera-capolavoro di Paolo, quella ai Romani, che ci ha accompagnato durante le puntate quaresimali della nostra rubrica. Quest’ultima sezione dello scritto paolino (dal capitolo 12 al 16) è di taglio più concreto, pastorale e morale, tant’è vero che si apre con l’appello a «offrire i vostri corpi come sacrificio vivo, santo, caro a Dio» (12,1).
Detto in altri termini, il vero culto che Dio gradisce è la vita umana con le sue opere d’amore e di giustizia, come già avevano insegnato i profeti e lo stesso Gesù.
Paolo in questi ultimi fogli dei suo scritto non esita anche ad affrontare una questione realistica com’è quella fiscale (13,1-7).
Senza riserve egli invita a essere «sottomessi alle autorità costituite»: non si dimentichi che allora a Roma era imperatore Nerone! Certo, il ragionamento che l’Apostolo sviluppa risente dei condizionamenti del suo tempo e della sua cultura.
Tuttavia egli è convinto che il rispetto dell’autorità civile e l’obbligo di pagare le tasse devono far parte della morale cristiana:
«Dovete pagare le tasse perché coloro che compiono questa funzione sono ministri di Dio» (13,6).
Paolo intende, da un lato, mostrare che i cristiani non sono un movimento politico eversivo; dall’altro egli si propone a certi gruppi cristiani esaltati che, ritenendosi già cittadini dei Regno dei cieli, rifiutavano ogni impegno all’interno della vita sociale e politica di questo mondo, decollando spiritualmente dalla realtà verso cieli mitici e mistici. L’Apostolo — sia pure secondo i termini di una società lontana dalla nostra — marca l’importanza della presenza dei cristiano nel mondo con la sua testimonianza di giustizia, di amore e di carità.
Lasciamo ora Paolo, dopo essere stati in sua compagnia per diverse settimane.
A chi ama la musica vorrei suggerire di rivivere la sua storia attraverso un mirabile oratorio di Felix Mendeissohn-Bartholdy, Paulus (op. 36), ideato a partire dal 1831 ed eseguito la prima volta a Düsseldorf il 22 maggio 1836 con ben 356 coristi e 160 strumentisti. La vicenda è divisa in due parti: nella prima un basso incarna Saulo l’ebreo, nella seconda un altro basso impersona Paolo l’Apostolo di Cristo. «Un’opera», diceva un altro grande musicista, Robert Schumann, «dell’arte più pura, un’opera di pace e di amore».   

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 19 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

La preghiera nelle mani (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa200806/080609ravasi.pdf

La preghiera nelle mani

di Gianfranco Ravasi

in “Il Sole-24 ore” dell’8 giugno 2008

È entrato nella storia del cinema per la sua scena finale, al lorché i solda ti dell a Legione Straniera , assediati in un fortino, appoggiano alle feritoie i cadaveri delle vittime per ingannare sulla loro consistenza numerica i beduini assedianti. Ebbene, uno dei protagonisti recava un soprannome curioso che ha dato il titolo al film, Beau Geste (l’opera, diretta dall’americano William A. Wellman, era del 1939). Ecco, il «bel gesto» può diventare un emblema, così come ogni altro atto espressivo del corpo umano, a partire dal volto il quale è tutt’altro che un insieme di piani, di curve e di forma: è, in realtà, un codice comunicativo, «la più interessante superficie del mondo», come la definiva Lichtenberg, tant’è vero che il silenzioso guardarsi negli occhi di due innamorati è più eloquente di molte parole. E che dire, poi, della mano che Kant nella sua Antropologia pragmatica (1798) considerava «il cervello esterno dell’uomo»? Liberata dalla mera funzione di appoggio statico, a cui è costretto l’animale, essa è diventata nell’uomo un fondamentale strumento di « manipolazione » pratica e simbolica. Per usare, quindi, il titolo di quel film noi siamo un bel e più spesso un brutto gesto rivolto agli altri e al mondo. C’è, allora, non solo una fisiologia dell’atteggiamento somatico, ma anche una sua vera e propria neuropsicologia e, alla fine, una « cinesica », disciplina settoriale della semiotica, destinata a leggere la gestualità come linguaggio parallelo a quello verbale, ove appunto s’intrecciano espressione personale e comunicazione ad extra. E per questo che, nella moderna psicologia, si è configurato un ambito di analisi pomposamente classificato come «aprattognosia», che ha lo scopo di isolare e curare i disturbi dell’azione umana, a partire dal deficit delle capacità gestuali (la cosiddetta «aprassia»). Si pensi quanto sia capitale nel teatro o nell’opera lirica la gestualità, tant’è vero che Artaud è giunto al punto di capovolgere l’asserto comune dichiarando nel suo saggio, Il teatro e il suo doppio (1938), che «le parole sono gesti, nient’altro che gesti». Ebbene, qualcosa del genere è da ripetere qualora si voglia esaminare la comunicazione profetica, cominciando da Achia di Silo che, squarciando a pezzi il suo manto, segnala la tragica lacerazione di Israele in due regni (si legga 1Re 11, 29-39). E da allora, ecco Osea con la storia del suo infelice matrimonio, e poi Isaia con la sua famiglia, e Geremia che intraprende l’uso dell’azione simbolica per visualizzare il suo messaggio fino a quel maestro della comunicazione « cinesica » che è stato Ezechiele, il più « sacramentale » dei profeti, laddove con questo aggettivo si vuole rimandare all’efficacia dei segni propri del sacramento cristiano (parola, pane e vino, ad esempio, diventano corpo e sangue di Cristo, secondo una grammatica che non è solo teologica, ma anche antropologica). Si giunge, così, ai Vangeli alla cui radice è installata una rigorosa teologia del corpo, con buona pace di ogni tentazione gnostica e di ogni deriva spiritualistica. È proprio l’«Incarnazione» che conduce ai miracoli somatici di Cristo, ai suoi atti simbolici come l’espulsione dei mercanti dal tempio o la lavanda dei piedi agli apostoli, fino al ricorso alla convivialità come « sacramento » di comunione nell’ultima cena eucaristica. È da questa radice che profluiscono i due grandi percorsi dell’esperienza gestuale cristiana. Da un lato, la liturgia che ripropone il comportamento profetico con la stessa pregnanza ed efficacia, e qui si apre il complesso capitolo sulla divaricazione tra la concezione cattolica del rito e quella, più reticente ed esitante, della Riforma protestante. D’altro lato, si snoda l’itinerario storico-esistenziale, se è vero che la stessa liturgia ha una sua fenomenologia e una sua sociologia. Emblematico è l’appello assiomatico paolino: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale (loghikè latréia)» (Romani 12,1). Una gestualità che si esprime nella stessa postura orante, ma che si amplia poi nella solidarietà fraterna, nella tradizione folclorica e così via. Ebbene, questi e altri temi che fanno parte di una vera e propria « sistematica » della comunicazione cristiana nella sua pienezza (non ridotta, quindi, alla mera « oralità ») possono essere ritrovati in un vasto e suggestivo trattato del teologo ginevrino Henry Mottu, 69 anni, uno dei più qualificati esegeti di Dietrich Bonhoeffer e attento studioso di filosofia delle religioni. La conoscenza dei meccanismi insiti al «linguaggio silenzioso», come definiva la gestualità comportamentale e comunicativa Edward J. Hall (Garzanti 1972), deve diventare un costante impegno sociale e insieme pastorale. Lo è soprattutto oggi in un tempo di interculturalità ove i codici non solo linguistici ma anche gestuali s’incrociano. Curioso è il duplice esempio che Mottu evoca, quando cita il caso dell’affermazione (nè) e della negazione (ochì) e del relativo atteggiamento mimico-facciale nel greco moderno (del tutto antitetico a quello comune in Occidente), e l’atto del bambino maghrebino che, dopo aver dato la mano all’europeo, se la sfrega sul petto. Ricordatelo: non lo fa per pulirla, ma è per portarla al cuore in segno di rispetto e simpatia!

Henry Mottu, Il gesto e la parola, Qiqaion, Comunità di Bose, Magnano.

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 19 juillet, 2011 |Pas de commentaires »
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