San Charbel Makhlouf

dal sito:
http://www.ayletmarcharbel.org/Italiano/SaintSharbelItalian.htm
SAN ŠARBEL MAKHLUF
MONACO LIBANESE MARONITA
(1828-1898)
Vita di San Šarbel Makhluf (1828- 1898)
È definito « l’Eremita del Libano ». È venerato ancora oggi, dopo cent’anni dalla sua morte. San Šarbel Makhluf nacque a Bka’-kafra nel nord del Libano l’8 maggio 1828 da Brigida Šidiac e Antun Zaärur. Era l’ultimo di cinque fratelli: due maschi, Hanna e Bešara e due sorelle, Kaunet e Wardeh. Il suo nome di battesimo è Yussef (Giuseppe). Suo padre era un semplice contadino, viveva del raccolto dei suoi campi. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata la grotta del santo). Era un ragazzo semplice che accudiva il gregge di famiglia; a ventidue anni decise di entrare in monastero. Yussef, senza salutare nessuno, nemmeno la madre, una mattina dell’anno 1851 si diresse al Monastero di Nostra Signora di Maifuq per farsi religioso. Alla fine del suo noviziato, prese il nome di Šarbel, martire di Antiochia del II secolo. A Maifuq il lavoro dei novizi consisteva nel selezionare i rami di gelso da cui i contadini locali, donne comprese, raccolgono in un secondo tempo i bachi da seta.[1] Durante questa operazione, una giovane, per provocare il monaco, gli getta un baco sul volto. Il gesto, all’apparenza banale, fa capire a Šarbel che Maifuq non è abbastanza isolato dal mondo perché vi possa realizzare il suo ideale monastico. La notte stessa fugge di nascosto per rifugiarsi, alle prime luci dell’alba, presso il Monastero di San Marone di Annaya. Il registro del monastero di Maifuq riporta: “entrò per la prova Yussef di Bka’-kafra. Fu chiamato Sharbel; nell’agosto del 1851 si è sfratato”. Il verbo arabo indica l’abbandono volontario del monastero.
Ad Annaya Šarbel trascorre il secondo anno di noviziato ed emette i voti solenni il primo di Novembre 1853. In seguito fu trasferito al Monastero dei Santi Cipriano e Giustina di Kfifan, nel Batrun, per proseguire gli studi teologici dove San Nimatullah Al-Hardini diventa il suo direttore spirituale e insegnante di teologia morale. Fu ordinato sacerdote a Bkerke, Sede Patriarcale, il 23 luglio 1859.
Dopo sedici anni di rigoroso ascetismo ad Annaya nel Monastero di San Marone e dopo il miracolo della lampada,[2] il 15 febbraio 1875, i suoi superiori gli permisero di ritirarsi nell’Eremo dei Santi Pietro e Paolo posto a 1350 metri di altezza su una collina di fronte al monastero. Lì visse per il resto dei suoi giorni, in preghiera e contemplazione, digiunando frequentemente e svolgendo lavori manuali, quali coltivare le vigne del monastero, e nutrendosi sempre in modo parco.[3] Era sempre assorto in preghiera, se non veniva interpellato non parlava mai, a chi veniva a visitarlo e a chiedergli consiglio gli porgeva la risposta facendogli leggere qualche brano della vita di qualche santo o qualche brano del vangelo o dell’imitazione di Cristo. È considerato sempre come un monaco esemplare dotato di un’obbedienza angelica e di un raccoglimento straordinario. Il suo pensiero era sempre rivolto verso l’Assoluto fino al punto di rifiutare di vedere sua mamma per tutta la vita ed altri suoi parenti. Il suo fu un distacco radicale. Visse i suoi voti religiosi di obbedienza, castità e povertà in modo eroico.
“Šarbel dimostrò di possedere sin dall’inizio doti straordinarie e virtù eroiche, ed una fervida spiritualità. Un giorno, ad esempio, salvò due monaci da un serpente velenoso, chiedendo semplicemente alla creatura di andare via”.[4]
Basta che egli spargesse un po’ di acqua benedetta e le cavallette scappavano via e non mangiavano più il raccolto.
Tutti erano convinti che egli rimanesse attivo anche dopo la sua morte: perché sia i suoi confratelli sia quelli che lo conoscevano apprezzavano la sua spogliazione totale dalla vita terrena per amore di Cristo e di Maria.
Mentre celebrava la Santa Messa, il 16 dicembre 1898, al momento dell’elevazione dell’Ostia Consacrata e del calice e la recita della preghiera eucaristica, lo colse una crisi apoplettica; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di dolorosa agonia finché il 24 dicembre, a mezzanotte, ritornò alla casa del Padre.
“La sua tomba fu immediatamente circondata da una “straordinaria luminosità” che durò per quarantacinque giorni, mentre l’interesse del pubblico continuò a crescere. Alcuni pellegrini tentarono addirittura di rubare parte delle sue spoglie: ne conseguì che le autorità decisero di riaprire la tomba, e così vi trovarono il corpo galleggiante nel fango, ma completamente privo di segni di deterioramento “come se fosse stato seppellito quello stesso giorno”. Si notò che un liquido simile al sangue trasudava dal suo corpo. Si conserva ancora il panno impregnato di questo liquido e, secondo la testimonianza dei monaci, è responsabile di molti casi di guarigione avvenuti negli anni; inoltre, durante il secolo scorso, la sua tomba è stata aperta ben quattro volte (l’ultima volta nel 1955), ed in ogni occasione si è potuto constatare come questo corpo sanguinante possieda ancora la sua flessibilità, come fosse ancora vivo”.[5]
Ecco un’altra testimonianza:
“A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba. Questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido. Rimesso in un’altra cassa, fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva un sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo dissotterrata. Nel febbraio del 1950 monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido. Supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro: la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore asciugò con un amitto il sudore rossastro dal viso del Beato Šarbel ed il volto rimase impresso sul panno.
Sempre ad aprile del 1950, le autorità religiose, con una apposita commissione di tre noti medici, riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi portati lì da parenti e devoti. Molte furono le guarigioni istantanee che ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia pur non essendo cristiano o non cattolico.
Il Papa Paolo VI, il 5 dicembre 1965, lo beatificò davanti a tutti i Padri Conciliari durante il Concilio Ecumenico Vaticano II e lo elevò alla gloria degli altari il 9 ottobre 1977”.[6]
Il mistero del volto [7]
“Un altro mistero lo riguarda: nessuno ha mai visto il volto di San Šarbel dopo il suo ingresso nel monastero, tranne ovviamente i suoi confratelli. Nessuno lo ha mai ritratto, né fotografato in vita. Aveva sempre il cappuccio calato sugli occhi. Eppure oggi abbiamo di lui una immagine che lo rappresenta con gli occhi volti in basso, con un viso dolce illuminato da una bontà ultraterrena e da una mistica pensosità, incorniciato da una austera e saggia barba bianca ed un semplice cappuccio da frate.
Da dove proviene dunque questa immagine? L’8 maggio 1950, cioè mezzo secolo dopo la sua morte, in coincidenza con la sua data di nascita, quattro missionari maroniti scattarono una foto di gruppo insieme al custode presso la sua tomba.
Durante lo sviluppo apparve un sesto personaggio, un monaco dalla barba bianca, a mezzo busto, con il cappuccio e gli occhi abbassati. Non vi era alcun fotomontaggio ed i monaci più anziani riconobbero in quel volto San Šarbel con i tratti degli ultimi suoi giorni di vita mortale. San Šarbel Makhluf rimane dunque una tra le figure più meravigliose ed intense della fede universale, ed un esempio di rettitudine e profusione di un mistico amore che ha pochi eguali nella storia dell’umanità”.
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[1] Cfr. Patrizia Cattaneo, Sono qui per guarirti! Charbel il Santo Amico, Roncade, Edizioni Segno, 2005, p.76-77.
[2] “Una sera un domestico del monastero di Annaya gioca un tiro mancino al padre. Di nascosto riempie d’acqua la lampada di Šarbel e gliela porge. Questi l’accende e la lampada brucia. L’inserviente spaventato si pente, corre dal superiore e gli confessa la bravata, esortandolo a rilevare il prodigio. Il superiore trova Padre Šarbel con la lampada accesa, ignaro di tutto. La sequestra e constata che in essa non c’è traccia d’olio. La lampada arde con l’acqua! Un segno divino che il superiore registra nella memoria”. In Patrizia Cattaneo, Op. cit. p. 86.
[3] “La cella di Padre Šarbel è di sei metri quadrati. L’anacoreta indossa sempre la stessa tonaca in estate e nel rigido inverno delle montagne libanesi e, sotto le vesti, porta il cilicio. Dorme su un tappeto di pelo di capra con un asse di legno per guanciale. Una lampada ad olio, una brocca d’acqua, una scodella di legno, uno sgabello per tavolo ed un sedile di pietra costituiscono tutto il suo mobilio. Dorme tre ore per notte, prega e lavora incessantemente. Recita il salterio sette volte al giorno, celebra la messa nella chiesetta dell’eremo e prega quotidianamente per le anime del purgatorio. Egli venera teneramente la gran Madre di Dio, soprattutto con la recita del rosario […] si nutre una sola volta al giorno, verso le tre pomeridiane, di una misera zuppa di legumi, senza mai toccare carne, né frutta. Coltiva la vigna, ma non assaggerà mai un solo acino d’uva. Fugge il denaro come la peste, rifiuta le offerte e, se costretto ad accettare, le consegna immediatamente ai superiori. Pratica quattro volte l’anno il digiuno totale, a imitazione dei Padri del Deserto. Esce raramente, solo per vistare qualche ammalato, per ordine del superiore. Cammina col cappuccio calato sul volto, senza mai rivolgere lo sguardo ad alcuno”. Cfr. Ibidem, p. 80-82.
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Cfr. Antonio Borrelli, San Jerbello (Sarbel, Charbel) Giuseppe Makhluf Sacerdote, reperibile in www.santiebeati.it/dettaglio/3585
FESTIVITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
http://www.vatican.va/holy_father/john_xxiii/homilies/1959/documents/hf_j-xxiii_hom_19590125_it.html
OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII*
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Domenica, 25 gennaio 1959
Venerabili Fratelli e diletti figli!
Il convenire odierno del Sacro Collegio Cardinalizio, della Prelatura e del Popolo Romano in questa Basilica di S. Paolo fuori le Mura Ci richiama la visita che vent’anni or sono, durante la Nostra Missione di Oriente, ebbimo la ventura di compiere a Tarso, dove l’Apostolo delle Genti nacque, e ricevette la sua prima educazione.
Immaginate la emozione del Nostro spirito nel richiamare oggi quella visita, non dove egli nacque, ma qui, dove da venti secoli le reliquie di Paolo riposano. Nell’inno liturgico del 29 giugno, la Chiesa associa il nome di Paolo a quello del Principe degli Apostoli. « O Roma fortunata, a cui il sangue dei due Apostoli è mantello di gloria, ed espressione di spirituale bellezza! ». Gli imperatori sono passati: la gloria militare non è più: resta no appena le pietre spezzate dei monumenti che ricordano i fasti antichi. Ma più glorioso rimane e si esalta nel cuore dei fedeli il duplice culto dei due Apostoli. O Roma felix! Duorum Princìpum es consecrata glorioso sanguine!
Nei ricordi della Nostra visita a Tarso — giusto vent’anni or sono — Ci ritorna la viva impressione dello sforzo compiuto da quanti si separarono dalla Chiesa Cattolica di esaltare S. Paolo, dando quasi la impressione di contrapporlo a S. Pietro. Questo tentativo non riuscì. Le molteplici scuole di studi Paolini di varia provenienza furono costruzioni deboli, e perdettero via via il vigore non solo scientifico e la consistenza giuridica, ma persino gli edifici materiali che le ospitarono — li abbiamo ben veduti coi Nostri occhi — divennero rovine.
Di Tarso, oltre il nome ed alcune case sparse qua e là, nessun segno ormai più dell’antico splendore. La cittaduzza appare quasi sommersa dalle sabbie e dagli acquitrini del Cydno limaccioso.
Il solo ricordo di S. Paolo è una modesta cappella cattolica, in una casa privata, con una piccola campana, a cui Ci permettemmo di richiedere alcuni rintocchi, evanescenti nel deserto desolato.
S. Paolo palpita invece nei suoi resti gloriosi e nei suoi ricordi qui a Roma, associati a quelli di S. Pietro, punto di richiamo e di venerazione gli uni e gli altri da parte del mondo intero.
In vero il canto della Liturgia mantiene in esaltazione i cuor dei Cattolici di tutta la terra. Fortunata Roma che, consacrata dal glorioso sangue dei due Apostoli, risplendi sempre di una bellezza incomparabile!
I. Questa solenne unione di due Apostoli, questo culto dei loro ricordi è risposta in eco alla loro voce annunziante il Vangelo: è il segno della unità di un magistero sempre rifulgente; conclamato invito alla perfetta adesione, mente, corde et opere, dei Vescovi Successori degli Apostoli e dei fedeli con il Successore di Pietro, ed è chiarissima indicazione di concorde fervore nella professione ardente della fede del popolo cristiano. Figli di Roma, e quanti oggi qui conveniste in spirito da tutti i punti della terra, voi rinnovate l’omaggio mondiale dei secoli alle note caratteristiche della Chiesa di Gesù: una, santa, cattolica, apostolica.
Grande consolazione è questa di vivere nella appartenenza al corpo e allo spirito della Santa Chiesa, con la sicurezza della eterna trasformazione della nostra vita nella gloria immortale di Dio, Creatore e Redentore, e dei Santi suoi.
Questa unità della Chiesa che San Paolo dal giorno della sua prodigiosa Conversione mise in perfetta armonia con l’insegnamento di Pietro, quell’insegnamento di cui Marco lasciò le linee nel Vangelo suo, porta a considerare con vivo dolore quanto gli attentati e gli sforzi, disgraziatamente in parte riusciti lungo i secoli, di spezzare questa compattezza cattolica, siano pregiudizievoli alla felicità ed al benessere del mondo concepiti dall’annuncio di Gesù Cristo come un solo ovile sotto la guida di un solo pastore.
Pensate come la perfetta unità della fede e della pratica attuazione della dottrina evangelica sarebbe tranquillità e letizia del mondo intero, nella misura almeno che è possibile sulla terra. E non solo a servizio dei grandi principii di ordine spirituale e soprannaturale che toccano il singolo uomo in vista dei beni eterni, di cui il Cristianesimo fu apportatore al mondo, ma anche dei più sicuri elementi di prosperità civile, sociale e politica delle singole nazioni.
Il primo frutto di questa unità è di fatto non solo l’apprezzamento, ma il retto uso ed il godimento della libertà, dono preziosissimo del Creatore e del Redentore degli uomini. Tanto è vero che ogni smarrimento nella storia dei singoli popoli su questo punto della libertà riesce di fatto in contraddizione talora più o meno velata, sovente prepotentemente audace, coi principii del Vangelo.
Sono quegli stessi principii evangelici che S. Pietro nelle lettere sue e S. Paolo in proporzioni più vaste e molteplici annunziarono ed illustrarono, su ispirazione divina, in faccia al mondo.
È giusto di quest’anno l’avviata celebrazione diciannove volte centenaria della Lettera di S. Paolo ai Romani. Oh! che commozione al rileggere e meditare quel documento ancora risonante dal fondo del primo secolo dell’era cristiana sino a noi. Esso è un poema grandioso ed esaltante, elevato al trionfo della fede, al trionfo della libertà delle anime e delle genti, al trionfo della pace.
II. Venerabili Fratelli, e diletti figli! LasciateCi tornare sopra l’accenno alla grande tristezza del cuore Nostro, del cuore di tutta la Chiesa Cattolica, nella dolorosa constatazione di quanto — non nella diletta Italia a Noi più vicina, ed in molte altre nazioni, grazie al Signore, ma in vaste e lontane regioni ben note d’Europa e di Asia — agita e minaccia di far naufragare le anime e le collettività, già avviate al pregustamento ed ai benefici di questa libertà e di questa pace.
Voi vi rendete conto del Nostro dolore, che si accrebbe dal momento in cui, non ostante la Nostra indegnità, venimmo posti su questa altura, da cui è permesso, pur con qualche difficoltà, scorgere più vasto orizzonte tinto di sangue per il sacrificio imposto a molti della libertà, sia essa di pensiero, di attività civica e sociale, e, con speciale accanimento, di professione della propria fede religiosa.
Per debito di grande riserbo e di sincero e meditato rispetto, e nella confidente speranza che la tempesta via via si dilegui, Ci asteniamo da precisazioni di ideologie, di località, e di persone. Ma non siamo insensibili alla aggiornata documentazione che passa continuamente sotto i Nostri occhi ed è rivelazione di paure, di violenze, di annullamento della persona umana.
Vi diremo in tutta confidenza che la abituale serenità dello spirito che traspare dal Nostro volto, e di cui si allietano i figli Nostri, nasconde l’interno strazio e l’affanno dell’animo, che a quegli altri — e sono milioni e milioni — di cui ignoriamo la sorte, ed a cui non sappiamo se poté giungere almeno l’eco delle parole con cui volemmo salutare agli esordi del Nostro Pontificato tutte le genti, e della assicurazione che le loro lacrime si riversano sul Nostro cuore.
III. La consapevolezza che voi, diletti Fratelli e figli Nostri, partecipate alla preoccupazione della Chiesa per questo decadimento del solido concetto dottrinale della libertà, che S. Paolo illustrò nelle sue lettere, Ci muove a volgerCi al Signore, invitando voi a fare altrettanto, con più insistente preghiera: a volgerCi al Creatore ed al Redentore Divino, da cui viene la robustezza della fede e la perseveranza nelle buone opere.
Unità, libertà e pace: grande trinomio, che, considerato nei fulgori della fede apostolica, resta per le nostre anime motivo di elevazione e di fervorosa fraternità umana e cristiana.
Mentre usciamo da una settimana di preghiere intesa ad ottenere questo triplice dono, il rito odierno sulla tomba dell’Apostolo — che sta per essere consumato nel mistero del Corpo e del Sangue di Cristo — torna ad essere richiamo della nostra fraterna, unanime, preveniente carità, che ci accomuna con i figli dì tante nazioni già fiorenti nella luce del Vangelo, ed ora attristate da prove inenarrabili.
Ad indicazione di buon progresso spirituale di quanti siete qui convenuti o siete in ascolto, così da determinarvi a voler partecipare alle sofferenze della Chiesa universale, amiamo con-chiudere con le commoventi e forti parole, con cui l’Apostolo delle Genti sottoscrive la sua Lettera ai Romani, che sono i Romani di tutti i tempi: onorati da un privilegio che, per il fatto di distinguerli dagli altri popoli, li impegna maggiormente in faccia al mondo intero ad una collaborazione di preghiera, e di aperta professione di fede.
« Vi prego, o fratelli, di tenerli ben d’occhio, per schivarli, quei tali che seminano dissensioni e mettono inciampi contro la dottrina che avete imparata. Questi non sono servi del Cristo Signor Nostro, ma bensì servi delle loro perverse passioni, con parole lusinghiere e con adulazioni seducono i cuori de semplici. Dato che della vostra obbedienza si parla dovunque mi rallegro con voi. Bramo però che voi siate sapienti nel fan il bene, e semplici nell’evitare il male. Ed auguro che il Dio datore di pace annienti Satana sotto i vostri piedi. E la grani del Signor Nostro Gesù Cristo sia con voi » (Rom. 16, 16-24)
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* AAS vol. LI, 1959, pp.70-74.
DOMENICA 24 LUGLIO 2011 – XVII DEL TEMPO ORDINARIO
MESSA DEL GIORNO LINK:
http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinA/A17page.htm
MESSA DEL GIORNO
Seconda Lettura Rm 8, 28-30
Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno.
Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
UFFICIO DELLE LETTURE
Prima Lettura
Dalla seconda lettera ai Corinzi di san Paolo, apostolo 7, 2-16
Gioia dell’apostolo per il pentimento dei cristiani di Corinto
Fratelli, fateci, posto nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato. Non dico questo per condannare qualcuno; infatti vi ho già detto sopra che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione. Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro.
Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta.
Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto — vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati — ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. Così se anche vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. Ecco quello che ci ha consolati.
A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi. Cosicché se in qualche cosa mi ero vantato di voi con lui, non ho dovuto vergognarmene, ma come abbiamo detto a voi ogni cosa secondo verità, così anche il nostro vanto con Tito si è dimostrato vero. E il suo affetto per voi è cresciuto, ricordando come tutti gli avete obbedito e come lo avete accolto con timore e trepidazione. Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi.
Responsorio Cfr. 2 Cor 7, 10. 9
R: La tristezza secondo Dio produce un pentimento che porta alla salvezza; * la tristezza del mondo produce la morte.
V. Ci siamo rattristati secondo Dio, e così non abbiamo sofferto alcun danno:
R. la tristezza del mondo produce la morte.
Seconda Lettura
Dalle «Omelie sulla seconda lettera ai Corinzi» di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 14, 1-2; PG 61, 497-499)
Sovrabbondo di gioia in ogni tribolazione
Paolo riprende il discorso sulla carità, moderando l’asprezza del rimprovero. Dopo avere infatti biasimato e rimproverato i Corinzi per il fatto che, pur amati, non avevano corrisposto all’amore, anzi erano stati ingrati e avevano dato ascolto a gente malvagia, mitiga il rimprovero dicendo: «Fateci posto nei vostri cuori» (2 Cor 7, 2), cioè amateci. Chiede un favore assai poco gravoso, anzi più utile a loro che a lui. Non dice «amate», ma con squisita delicatezza: «Fateci posto nei vostri cuori». Chi ci ha scacciati, sembra chiedere, dai vostri cuori? Chi ci ha espulsi? Per quale motivo siamo stati banditi dal vostro spirito? Dato che prima aveva affermato: «E’ nei vostri cuori invece che siete allo stretto» (2 Cor 6, 12), qui esprime lo stesso sentimento dicendo: «Fateci posto nei vostri cuori». Così li attira di nuovo a sé. Niente spinge tanto all’amore chi è amato quanto il sapere che l’amante desidera ardentemente di essere corrisposto.
«Vi ho già detto poco fa, continua, che siete nel nostro cuore per morire insieme e insieme vivere» (2 Cor 7, 3). Espressione massima dell’amore di Paolo: benché disprezzato, desidera vivere e morire con loro. Siete nel nostro cuore non superficialmente, in modo qualsiasi, ma come vi ho detto. Può capitare che uno ami, ma fugga al momento del pericolo: non è così per me.
«Sono pieno di consolazione» (2 Cor 7, 4). Di quale consolazione? Di quella che mi viene da voi: ritornati sulla buona strada mi avete consolato con le vostre opere. E’ proprio di chi ama prima lamentarsi del fatto che non è amato, poi temere di recare afflizione per eccessiva insistenza nella lamentela. Per questo motivo aggiunge: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia».
In altre parole: sono stato colpito da grande dispiacere a causa vostra, ma mi avete abbondantemente compensato e recato gran sollievo; non avete solo rimosso la causa del dispiacere, ma mi avete colmato di più abbondante gioia.
Paolo manifesta la sua grandezza d’animo non fermandosi a dire semplicemente «sovrabbondo di gioia», ma aggiungendo anche «in ogni mia tribolazione». E’ così grande il piacere che mi avete arrecato che neppure la più grande tribolazione può oscurarlo, anzi è tale da farmi dimenticare con l’esuberanza della sua ricchezza, tutti gli affanni che mi erano piombati addosso e ha impedito che io ne rimanessi schiacciato.
Responsorio 2 Cor 12, 12. 15
R. In mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, * in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli.
V. Io mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime
R. in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli.
dal sito:
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 ottobre 2010
Santa Brigida di Svezia
Cari fratelli e sorelle,
nella fervida vigilia del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II proclamò santa Brigida di Svezia compatrona di tutta l’Europa. Questa mattina vorrei presentarne la figura, il messaggio, e le ragioni per cui questa santa donna ha molto da insegnare – ancor oggi – alla Chiesa e al mondo.
Conosciamo bene gli avvenimenti della vita di santa Brigida, perché i suoi padri spirituali ne redassero la biografia per promuoverne il processo di canonizzazione subito dopo la morte, avvenuta nel 1373. Brigida era nata settant’anni prima, nel 1303, a Finster, in Svezia, una nazione del Nord-Europa che da tre secoli aveva accolto la fede cristiana con il medesimo entusiasmo con cui la Santa l’aveva ricevuta dai suoi genitori, persone molto pie, appartenenti a nobili famiglie vicine alla Casa regnante.
Possiamo distinguere due periodi nella vita di questa Santa.
Il primo è caratterizzato dalla sua condizione di donna felicemente sposata. Il marito si chiamava Ulf ed era governatore di un importante distretto del regno di Svezia. Il matrimonio durò ventott’anni, fino alla morte di Ulf. Nacquero otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina), è venerata come santa. Ciò è un segno eloquente dell’impegno educativo di Brigida nei confronti dei propri figli. Del resto, la sua saggezza pedagogica fu apprezzata a tal punto che il re di Svezia, Magnus, la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese.
Brigida, spiritualmente guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un influsso molto positivo sulla propria famiglia che, grazie alla sua presenza, divenne una vera “chiesa domestica”. Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena.
Questo primo periodo della vita di Brigida ci aiuta ad apprezzare quella che oggi potremmo definire un’autentica “spiritualità coniugale”: insieme, gli sposi cristiani possono percorrere un cammino di santità, sostenuti dalla grazia del Sacramento del Matrimonio. Non poche volte, proprio come è avvenuto nella vita di santa Brigida e di Ulf, è la donna che con la sua sensibilità religiosa, con la delicatezza e la dolcezza riesce a far percorrere al marito un cammino di fede. Penso con riconoscenza a tante donne che, giorno dopo giorno, ancor oggi illuminano le proprie famiglie con la loro testimonianza di vita cristiana. Possa lo Spirito del Signore suscitare anche oggi la santità degli sposi cristiani, per mostrare al mondo la bellezza del matrimonio vissuto secondo i valori del Vangelo: l’amore, la tenerezza, l’aiuto reciproco, la fecondità nella generazione e nell’educazione dei figli, l’apertura e la solidarietà verso il mondo, la partecipazione alla vita della Chiesa.
Quando Brigida rimase vedova, iniziò il secondo periodo della sua vita. Rinunciò ad altre nozze per approfondire l’unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Anche le vedove cristiane, dunque, possono trovare in questa Santa un modello da seguire. In effetti, Brigida, alla morte del marito, dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza mai accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l’accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un’edizione di otto libri, intitolati Revelationes (Rivelazioni). A questi libri si aggiunge un supplemento, che ha per titolo appunto Revelationes extravagantes (Rivelazioni supplementari).
Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari. A volte la rivelazione si presenta sotto forma di dialoghi fra le Persone divine, la Vergine, i santi e anche i demoni; dialoghi nei quali anche Brigida interviene. Altre volte, invece, si tratta del racconto di una visione particolare; e in altre ancora viene narrato ciò che la Vergine Maria le rivela circa la vita e i misteri del Figlio. Il valore delle Rivelazioni di santa Brigida, talvolta oggetto di qualche dubbio, venne precisato dal Venerabile Giovanni Paolo II nella Lettera Spes Aedificandi: “Riconoscendo la santità di Brigida la Chiesa, pur senza pronunciarsi sulle singole rivelazioni, ha accolto l’autenticità complessiva della sua esperienza interiore” (n. 5).
Di fatto, leggendo queste Rivelazioni siamo interpellati su molti temi importanti. Ad esempio, ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l’amore infinito di Dio per gli uomini. Sulla bocca del Signore che le parla, ella pone con audacia queste commoventi parole: “O miei amici, Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte” (Revelationes, Libro I, c. 59). Anche la dolorosa maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre spesso nelle Rivelazioni.
Ricevendo questi carismi, Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di grande predilezione da parte del Signore: “Figlia mia – leggiamo nel primo libro delle Rivelazioni –, Io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore … più di tutto ciò che esiste al mondo” (c. 1). Del resto, Brigida sapeva bene, e ne era fermamente convinta, che ogni carisma è destinato ad edificare la Chiesa. Proprio per questo motivo, non poche delle sue rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai credenti del suo tempo, comprese le Autorità religiose e politiche, perché vivessero coerentemente la loro vita cristiana; ma faceva questo sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell’Apostolo Pietro.
Nel 1349 Brigida lasciò per sempre la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Non solo intendeva prendere parte al Giubileo del 1350, ma desiderava anche ottenere dal Papa l’approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l’autorità dell’abbadessa. Questo è un elemento che non deve stupirci: nel Medioevo esistevano fondazioni monastiche con un ramo maschile e un ramo femminile, ma con la pratica della stessa regola monastica, che prevedeva la direzione dell’Abbadessa. Di fatto, nella grande tradizione cristiana, alla donna è riconosciuta una dignità propria, e – sempre sull’esempio di Maria, Regina degli Apostoli – un proprio posto nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della Comunità. Inoltre, la collaborazione di consacrati e consacrate, sempre nel rispetto della loro specifica vocazione, riveste una grande importanza nel mondo d’oggi.
A Roma, in compagnia della figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di intenso apostolato e di orazione. E da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi, patria di san Francesco, verso il quale Brigida nutrì sempre grande devozione. Finalmente, nel 1371, coronò il suo più grande desiderio: il viaggio in Terra Santa, dove si recò in compagnia dei suoi figli spirituali, un gruppo che Brigida chiamava “gli amici di Dio”.
Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma: Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno alla sede di Pietro, nella Città Eterna.
Morì nel 1373, prima che il Papa Gregorio XI tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell’Ordine religioso fondato da santa Brigida, che conobbe subito una notevole espansione. Nel 1391 il Papa Bonifacio IX la canonizzò solennemente.
La santità di Brigida, caratterizzata dalla molteplicità dei doni e delle esperienze che ho voluto ricordare in questo breve profilo biografico-spirituale, la rende una figura eminente nella storia dell’Europa. Proveniente dalla Scandinavia, santa Brigida testimonia come il cristianesimo abbia profondamente permeato la vita di tutti i popoli di questo Continente. Dichiarandola compatrona d’Europa, il Papa Giovanni Paolo II ha auspicato che santa Brigida – vissuta nel XIV secolo, quando la cristianità occidentale non era ancora ferita dalla divisione – possa intercedere efficacemente presso Dio, per ottenere la grazia tanto attesa della piena unità di tutti i cristiani. Per questa medesima intenzione, che ci sta tanto a cuore, e perché l’Europa sappia sempre alimentarsi dalle proprie radici cristiane, vogliamo pregare, cari fratelli e sorelle, invocando la potente intercessione di santa Brigida di Svezia, fedele discepola di Dio e compatrona d’Europa. Grazie per l’attenzione.
dal sito:
http://www.donromeo.it/html/vieni/vieni19.htm
20) ROMANI 8,28-30
San Paolo si sentiva molto stupito e fortunato di essere stato fatto annunciatore del “mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria” (Ef 1,26-27). Si tratta di un progetto sull’uomo, su ogni uomo, che Dio ha pensato da lontano e che attua – attraverso Cristo – in diverse fasi lungo l’arco completo della nostra vita. Completo nel senso che va oltre il nostro breve segmento sperimentabile di vita terrena, per cogliere quanto precede la nostra nascita e quanto ci attende oltre la morte.
In una pagina, tra le più sintetiche, della Lettera ai Romani, San Paolo stesso fissa questo disegno in cinque momenti, marcati da cinque verbi speciali. Ecco il testo: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che da sempre ha conosciuto li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,28-30). Analizziamo il testo. Anzitutto l’introduzione: Dio ha un disegno di bene, di vita, di riuscita e felicità piena per ogni uomo: tutto concorre al loro bene, cioè Dio fa di tutto “perché tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). Naturalmente il risultato dipende dalla libertà d’ognuno, chiamato a corrispondervi: cioè ad amarlo. Dio può far di tutto, ma se uno dice di no, anche la sua onnipotenza e il suo amore rimangono inefficaci.
Su questo sfondo di una iniziativa di Dio così positiva e promettente, si svolge in cinque punti l’esistenza dell’uomo, che nasce nella profondità del cuore di Dio e termina nella eternità della comunione piena con Lui.
Conosciuti
Il tratto di vita che precede la nostra apparizione nel mondo sta nel cuore e nella mente di Dio: è propriamente la fase di progettazione. Due verbi la qualificano: conosciuti e predestinati.
Conosciuti significa che ogni uomo è voluto, amato, sognato come risultato di una premura e di un progetto personalizzato. L’immagine primordiale biblica è quella del vasaio, che non fa mai vasi in serie, ma ognuno è un capolavoro nuovo e originale. Oggi diciamo che Dio ha chiamato ciascuno per nome. “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (Ger 1,5); “fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49,1). Significa che abbiamo a disposizione – indipendentemente da ogni nostro merito, per pura gratuità – una risorsa potente ed esplosiva, capace dell’impossibile, quale è il cuore stesso di Dio.
E’ la prima certezza della nostra fede: “ci ha amati fin da prima della creazione del mondo e ci ha scelti” (Ef 1,4). C’è quindi un motivo e un perché del nostro apparire sulla terra, non siamo venuti al mondo per caso, nel caos delle violenze umane, perché le precede e le domina un disegno preciso.
Dice la razionalità della nostra vicenda di uomini, che ci appare a volte tanto irrazionale e deludente. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo” (Ef 1,3-10).
Predestinati
Questa è la verità primordiale e più profonda: che Dio nell’istante in cui pensa all’uomo, lo pensa subito come suo figlio. “Vedete come ci ha voluto bene il Padre? Egli ci ha chiamati ad essere suoi figli. E noi lo siamo davvero” (1Gv 3,1).
Ma figli non in qualche modo; siamo chiamati ad essere “figli nel Figlio”, cioè figli propri. Un giorno Dio decise di allargare famiglia, e di avere un UOMO come suo figlio proprio. Il suo Figlio unigenito assunse la natura umana, divenne anche uomo. Fu il primo uomo progettato da Dio, un Dio che è anche uomo, un uomo-Dio! E’ Gesù Cristo. “Egli è prima di tutte le cose” (Col 1,17).
Su quello ‘stampo’, come prolungamento di Lui, sono stati creati tutti gli uomini: da Unigenito il Figlio proprio di Dio divenne “primogenito di molti fratelli”. “Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). L’uomo è così creato, ‘stampato’, strutturato, “predestinato” figlio proprio di Dio come il Primogenito. Cioè uomo-Dio come lui. Quello che Gesù è per natura, noi lo diventiamo per grazia, cioè per dono gratuito. “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
Dio ci ha così fatti “a sua immagine e somiglianza”, cioè ci ha impresso qualcosa di Sé, ha impastato l’uomo con qualcosa di divino. Qualcosa di divino che non possiamo più rinnegare, perché è strutturato in noi.
Chiamati
Quando uno viene al mondo, Dio gli propone il suo Dono, gli fa conoscere la sua proposta, lo chiama a realizzare quel progetto. E poiché si tratta di un rapporto libero e d’amore, nasce qui una lunga storia d’amore tra Dio e ogni sua creatura, che la pungola in forme infinite ad aprirglisi in piena libertà; storia d’amore rappresentata come in sintesi paradigmatica nella singolare avventura d’amore intercorsa tra Dio e il suo popolo nella Bibbia.
La prima chiamata è per Abramo, padre e modello della nostra fede, nel quale sono benedette tutte le famiglie della terra. Prosegue questa scelta con Israele, “il primogenito”, chiamato a stringere con Dio una alleanza sacra al Sinai. E’ una vicenda difficile, d’amore e tradimenti, come, con icona commovente, viene descritta dai Profeti a partire dal dramma personale di Osea.
Sarà a partire dalla esperienza dell’esilio che Israele capirà che la chiamata è per ogni popolo, che l’eredità di Abramo dovrà passare a tutte le nazioni per la sola fede in Cristo, come spiegherà bene San Paolo. Per questo Gesù invierà i suoi apostoli “ad ammaestrare tutte le nazioni….. fino agli estremi confini della terra” (Mt 28,20). E’ missione propria della Chiesa ora giungere a tutti gli uomini.
Ma è chiamata che stranamente riceve un rifiuto. Gesù ne parlò con amarezza, svelando la meschinità delle nostre scuse, delle nostre pretese, anzi delle nostre prepotenze, a partire dalla parabola del figlio prodigo, a quella degli invitati al banchetto di nozze del figlio del re (cfr. Mt 22,1-14), a quella dei vignaiuoli omicidi (cfr. Mt 21,33-44). L’uomo dice di no a Dio e tenta di realizzare di sé un progetto alternativo.
Questo è il peccato di Adamo e nostro. Quell’essere stati fatti a immagine somigliante a Dio, anzi a Cristo, finisce per diventare immagine sfocata, non più somigliante, e l’uomo perde i tratti più specifici della sua identità, divenendo uomo destinato alla morte e nemico di Dio.
Giustificati
Ecco allora l’ulteriore scelta di Dio: essendo l’uomo impossibilitato da sé solo a dire di sì a Dio, a corrispondere al suo amore, e alla fine a chiedergli perdono, Dio stesso decide Lui di divenire uomo, per essere il primo uomo capace di dire di sì a Dio e aiutare tutti gli uomini a dire il loro sì, riconciliando così tutta l’umanità al suo Creatore e Padre.
La vicenda umana di Gesù la si può riassumere in una duplice azione: mostrare con tutto se stesso la bontà e la misericordia del Padre perché gli uomini ne abbiano più fiducia e amore; e poi vivere tutta una vita come un sì pieno e totale al Padre, fino all’atto supremo del sì della croce, per essere d’esempio e in un certo modo per rappresentarci nell’atto di riconciliazione con Dio.
Dio ha come voluto caricare su di lui il peccato di tutti noi; per le sue piaghe noi siamo stati guariti; il castigo che meritavamo noi è caduto su di lui: è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità (cfr. Is 53). Ha così espiato a nome nostro e per noi, riconciliandoci con Dio, rendendoci giusti davanti a Lui. Ci ha giustificati col sangue della sua croce, riaprendoci ad un nuovo e più intimo rapporto con Dio.
Toccherà ora a noi “lasciarci riconciliare con Dio” attraverso Gesù; imparare da lui e dal vangelo una fiducia più grande in Dio e lasciarci toccare dai suoi gesti di riconciliazione e perdono che sono i sacramenti. La vita cristiana, dal battesimo in poi, è crescere in una progressiva connessione e identificazione con Gesù – operata più dallo Spirito santo che da noi – per divenire sempre più come lui figli sinceri e fedeli di Dio Padre.
Glorificati
“E se figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Questo è il nostro grande destino, a tanto siamo chiamati, cioè a divenire niente di meno che come Dio, “simili a Lui perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Per questo Gesù ripeteva: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3).
E vi saremo con la pienezza della nostra realtà di uomini, in anima e corpo, sul modello di quello che è già avvenuto per Gesù, risuscitato col suo corpo, e per Maria, assunta in cielo col suo corpo, a dire la pienezza di vita eterna che ci attende oltre la morte. “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (Gv 11,25). Il sogno dell’uomo era l’immortalità; il dono di Dio è la risurrezione della carne per una vita perenne “da dio”.