Archive pour juillet, 2011

LA PREGHIERA E LA VITA SPIRITUALE (riferimenti a San paolo)

dal sito:

http://www.clerus.org/clerus/dati/2002-12/21-999999/10SCITA.html

LA PREGHIERA E LA VITA SPIRITUALE

 di Prof. Michael F. Hull (New York)

« La preghiera è l’ascesa della mente verso Dio, ovvero il perseguimento del bene che viene da lui » (S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 3, 24; cfr. anche S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II, q. 83). La preghiera è la nostra risposta all’amore di Dio; è un atto della virtù della religione con cui noi riconosciamo l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio in conformità con il Primo Comandamento (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II, q. 81). La preghiera è il fondamento della vita spirituale, poiché è nella preghiera che innalziamo le nostre menti verso il Padre nella lodevole aspirazione di condurre una vita su questa terra nell’imitazione del Figlio, sotto la guida dello Spirito Santo, al fine di poter godere l’eternità in compagnia della stessa Santissima Trinità e dei santi. La preghiera può essere vocale (comunitaria o individuale) o mentale (affettiva o contemplativa) sotto forma di adorazione, richiesta, intercessione, rendimento di grazie, lode. Il modello di preghiera è la preghiera del Signore (Mt 6, 9-13; Lc 11, 2-4), che rappresenta il perfetto equilibrio tra il riconoscimento di Dio e la dipendenza da Dio da parte dell’uomo. Il modello della vita spirituale è la vita del Signore, che rappresenta l’esempio perfetto della virtù e della santità.
San Paolo ci ricorda: « State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1 Ts 5, 17). Nella misura in cui la preghiera rappresenta l’elevazione della mente e del cuore in risposta a Dio, la vita spirituale rappresenta la vita di preghiera costante e regolare che ha come fine l’unione con Dio. Tale unione è cominciata in questa vita e prosegue nella vita dell’aldilà. La Chiesa insegna che « tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità » (LG 40). La roccia fresca e il fondamento insostituibile della « pienezza della vita cristiana e della perfezione dell’amore » è la preghiera. In questo modo, è interesse di ognuno di noi radicarsi in una vita di preghiera al fine di condurre una vita spirituale. Quello che intendo dire è che non esiste una vita spirituale che non cominci e non finisca nella preghiera, « nell’ascesa della mente verso Dio, nel perseguimento del bene che viene da lui ». Ecco nuovamente quel che ci ripete San Paolo: « Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno » (Fil 1, 21). La vita spirituale è una partecipazione all’Amore che procede dal Padre e dal Figlio, ovvero, lo Spirito Santo (cfr. Gv 14, 16, 23). L’arte della preghiera, introdotta per la prima volta dal Signore con la preghiera che porta il suo nome, insieme ad un’attenzione zelante alle cose di Dio, inaugura la vita spirituale. Imitando la virtù e la santità del Signore e implorando che lo Spirito venga a dimorare presso di noi, diventiamo idonei ad offrire una lode appropriata e atti di carità nella vita spirituale. Questa vita spirituale ha la sua spinta e i suoi frutti nelle opere di misericordia spirituale. È precisamente in virtù dell’immanenza dello Spirito che siamo resi in grado di usufruire della grazia santificante, che l’anima viene innalzata al di sopra della natura, verso il soprannaturale e che veniamo portati più vicini all’unione con Dio, il cui « amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5, 5). Finché rimaniamo nello Spirito in questa vita, la morte fisica (e qualunque sofferenza concomitante) può essere solo un guadagno, dal momento che ci porta alla visione beatifica in cui null’altro resta se non l’amore.
La preghiera è il marchio della nostra vita spirituale, poiché era il marchio della vita terrena di Gesù. « Nei giorni della sua vita terrena Gesù offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà » (Eb 5, 7). La preghiera rappresenta la nostra risposta alla grazia del Padre nell’imitazione del Figlio per mezzo dello Spirito. Nella vita spirituale, cerchiamo di conoscere Cristo, di sperimentare il potere della sua risurrezione, di condividere la sua sofferenza, di diventare come lui nella sua morte, così da poter guadagnare « la risurrezione dai morti » (Fil 3, 10-11).

I santi Nazaro e Celso ritratti nell’abside della chiesa parrocchiale da Arturo Galli (1935 circa).

I santi Nazaro e Celso ritratti nell’abside della chiesa parrocchiale da Arturo Galli (1935 circa). dans immagini sacre affreschi_abside__2_

http://www.santinazaroecelsobresso.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id=131

Publié dans:immagini sacre |on 28 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

28 LUGLIO: SS. NAZARIO e CELSO, Martiri a Milano (mf)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=saintfeast&localdate=20110728&id=428&fd=0

 28 LUGLIO:  SS. NAZARIO e CELSO, Martiri a Milano
 
Nazario (o Nazaro) e Celso appartengono a quella schiera di santi martiri, dei primi secoli della cristianità, dove la “Passio” prende il posto delle scarse e incerte notizie storiche.
Fonte storica : Paolino, il biografo di S. Ambrogio, racconta del ritrovamento dei corpi di Nazaro e Celso da parte del vescovo di Milano poco dopo la morte dell’imperatore Teodosio (395); fu aperto dapprima il sepolcro di Nazaro e il corpo del martire apparve impregnato di sangue come se fosse stato effuso in quello stesso giorno. Anche il capo, rescisso, era integro, con i capelli e la barba. Subito dopo, racconta Paolino, S. Ambrogio, quasi per ispirazione divina, si recò al sepolcro di Celso.
Il corpo di Nazaro fu traslato nella basilica degli Apostoli, eretta da S. Ambrogio nel 386, che prese anche il nome di Nazaro, mentre il corpo di Celso rimase nello stesso luogo del ritrovamento, ove nel sec. X fu costruito un monastero.
Lo stesso Paolino attesta di non sapere chi fossero i due santi e quando siano stati martirizzati.
Col diffondersi del culto, verso la metà del V sec. fu composta una “passio”, che ebbe varie redazioni, ma che non ha alcun valore storico.
Secondo questo racconto, Nazario (cittadino romano) era figlio di un pagano di nome Africano e di una cristiana di nome Perpetua. Il padre voleva farne un sacerdote degli dei, ma la madre riuscì ad ottenergli il battesimo (secondo un altro racconto fu discepolo di Pietro e ricevette il battesimo dal futuro papa Lino).
Messosi subito a predicare la fede cristiana, venne accusato davanti all’imperatore ma riuscì ad allontanarsi da Roma e a rifugiarsi a Milano, dove incontrò i SS. Gervasio e Protasio. Avvertito da Dio in sogno, si recò a Cimiez, presso Nizza, dove una donna gli affidò il proprio figlio Celso, con il quale si recò a Treviri, in Germania.
Qui avrebbero subìto numerose persecuzioni e sarebbero stati arrestati ma, tuttavia, Nazario, quale cittadino romano, non fu torturato ma venne inviato a Roma per un regolare processo. Qui, al suo rifiuto di rinnegare la sua fede e sacrificare agli dei romani, venne condannato a morte. Secondo altre fonti la condanna a morte venne decisa dal governatore di Ventimiglia; ad ogni modo, insieme a Celso, venne imbarcato su una nave che doveva portarli al largo e gettarli in mare.
La leggenda vuole che, gettati in mare, si misero a camminare sulle acque; si scatenò allora una tempesta che terrorizzò i marinai, i quali chiesero aiuto a Nazario. Le acque si calmarono immediatamente e la nave sarebbe, infine, approdata a Genova; qui Nazario e Celso proseguirono la loro opera evangelizzatrice in tutta la Liguria negli anni 66 e 67.
Si spinsero poi fino a Milano, dove infine vennero arrestati e nuovamente condannati a morte dal prefetto Antolino: la sentenza fu eseguita per decapitazione nell’anno 76.
Il loro ricordo si perse fino al ritrovamento dei corpi da parte di S. Ambrogio, che ne diffuse il culto.
Chiese dedicate alla loro memoria si trovano a San Nazario (Salerno), Verona, Varazze, Asti, Cantarana, Varese, Arenzano, Poggio Imperiale, Vignola (MO), Gaggio Montano, Trivento (CB) e ad Avella (in abbandono).
La rappresentazione dei due martiri è abbastanza frequente, specialmente nel territorio della diocesi di Milano. Nazario, più anziano, è raffigurato in genere con la barba, mentre Celso in età giovanile. Talvolta indossano abiti militari e recano in mano la spada con la quale furono decapitati e la palma del martirio. Fra le diverse opere, c’è da rilevare a Brescia, nella chiesa dei Santi Nazario e Celso, i dipinti del Foppa e del Tiziano; a Milano, sul Duomo, la statua di S. Nazario scolpita da Antonio da Briosco (1414); a Carcassonne (Francia) la statua trecentesca, pure di S. Nazario, nel coro della chiesa a lui dedicata.
 
Significato dei nomi :
Nazario : « consacrato a Dio » (ebraico)
Celso : « alto, elevato, eccelso » (latino)

Fonti principali : parrocchie.it; wikipendia.org (« RIV.»).

La lettura della Bibbia nella tradizione ebraica: il midrash (di Amos Luzzatto)

dal sito:

http://www.bicudi.net/materiali/midrash.htm   

La lettura della Bibbia nella tradizione ebraica: il midrash

di Amos Luzzatto

conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti-La Porta – novembre 1998

1. Parto proponendo subito due midrashim, riservando a dopo il commento. Il primo è questo.
 
«Per ventisei generazioni la alef [prima lettera dell’alfabeto ebraico, n.d.r.] protestò al cospetto del trono divino e disse alla presenza di Dio: « Signore del mondo, io sono la prima delle lettere, eppure tu non hai creato il tuo mondo cominciando da me » [infatti, il primo verso della Genesi comincia con la lettera beth, che è la seconda dall’alfabeto, n.d.r.]. Rispose Dio: « Il mondo intero e tutto ciò che esso contiene è stato creato solo per merito della Torah, come è scritto [Proverbi 3,19: “Con la sapienza il Signore ha fondato la terra”], ma verrà il giorno in cui io verrò sul monte Sinai a elargire la Torah e allora la farò cominciare con te. Perché è scritto: Io [In ebraico “io” si dice 'anoki, che inizia appunto con la lettera alef, n.d.r.] sono il Signore Dio tuo! »».
Cerchiamo ora di capire cos’è essenziale in questo midrash.
Anzitutto, si presuppone un testo biblico scritto: se non ci fosse un testo biblico da commentare o cercare di comprendere, non ci sarebbe midrash. Ciò che non ha a che fare con il testo biblico scritto può benissimo essere leggenda, parabola o altro, ma non certo midrash.
In secondo luogo, per capire cosa significa entrare nel significato del midrash, vorrei che provassimo ad immedesimarci nella alef del nostro testo. Se fossimo stati nei panni della alef, noi ci saremmo accontentati della spiegazione ottenuta? Io sicuramente no, anzi avrei chiesto: Ma allora perché la Bibbia non inizia addirittura dai dieci comandamenti, come una casa inizia dalle fondamenta? Tenendo presente che il midrash impone una logica basata su domande e controdomande, possiamo domandarci tre cose: perché l’alef non ha fatto questa obiezione? E, se l’avesse fatta, quale risposta avrebbe ottenuto? E, infine, che senso ha, in una logica moderna, una simile disputa sull’ordine delle lettere, visto che l’ordine delle lettere si basa su di una convenzione umana tranquillamente sovvertibile (come comincia con la beth potrebbe benissimo cominciare con la alef)? O non è forse possibile che chi usava questo midrash considerasse l’ordine dell’alfabeto come una legge intoccabile della natura? Già questo vanifica una delle nostre domande. La terremo in serbo per dopo (non che io voglia sottrarmi: non mi sottrarrò, ma non vi dirò certo che la mia è l’unica risposta, bensì che a questa risposta arrivo io seguendo il ragionamento del midrash; se qualcuno arriva ad un’altra risposta, va benissimo).
2. Vediamo ora il secondo midrash, nel quale si commenta la storia del ritrovamento di Mosè infante, come narrata in Esodo 2,5-10. Il testo biblico dice: “E inviò la sua ancella che la prese”.
Già qui sorge un primo ostacolo, dovuto al fatto che l’ebraico si scrive con le sole consonanti, mentre le vocali vanno ricostruite sulla base del contesto. Ora, siccome, il termine “ancella” si scrive con le stesse lettere con cui si scrive “il suo avambraccio”, si potrebbe interpretare il testo sia con: “l’ancella della principessa prese il cesto di vimini” in cui è deposto Mosè, sia con: “la principessa protese il suo avambraccio” allo stesso scopo. Ci potremmo chiedere: è proprio così importante? Certo che è importante, perché un bambino che sarebbe diventato un personaggio così rilevante come Mosè, del quale la Bibbia dice che si presentava a Dio faccia a faccia, deve essere estratto dalle acque da una banalissima ancella oppure dalla principessa in persona? Che non sia affare di poco conto lo dimostra il fatto che questo dibattito è molto acceso nelle pagine del Talmud, dove addirittura si formano due scuole di pensiero, quella dell’avambraccio e quella dell’ancella. Faccio notare che questo dibattito si svolge attorno al IV secolo. Ora, il caso vuole che a questo secolo appartenga una famosa sinagoga sull’Eufrate, quella di Dura Europos, la quale ha scandalizzato tutti perché, contrariamente alla proibizione biblica, è ricchissima di affreschi con immagini bibliche, tanto che qualcuno ha pensato di giustificare questa anomalia sostenendo un intento didattico. Questa potrebbe essere una spiegazione, se non fosse che, quando si arriva all’illustrazione di questo episodio, l’immagine che si vede è quella della principessa in acqua, nuda, la quale allunga il braccio e prende il cesto di vimini. Ciò significa che le immagini della sinagoga di Dura Europos non sono didattiche, bensì esegetiche, nel senso che prendono chiaramente posizione per la scuola « ancillare » rispetto di quella « avambracciale ».
Proseguiamo ora con il testo per vedere se si può capire qualcosa di più. “E l’aprì e lo vide il bambino”. Di fronte all’evidente imprecisione grammaticale del testo i commentatori del midrash fanno notare che la principessa aveva visto la presenza divina vicino al bambino. Come si spiega questa interpretazione? La parola ebraica qui tradotta con “lo” (‘et) può introdurre sia l’accusativo (“vide il bambino”) sia un complemento di compagnia (“lo vide con il bambino”). Dunque la principessa vide la presenza divina con il bambino. Ecco allora che, alla luce di questa difficoltà grammaticale, possiamo capire, con un procedimento a ritroso, anche il brano precedente: la principessa non mandò una semplice ancella, ma andò di persona presso colui che recava con sé la presenza divina.
3. Da questi due esempi si capisce come il testo biblico sia fondamentale. Sennonché, come si è visto, il testo biblico (in ebraico: miqrà, che significa anche “lettura”) presenta parecchie difficoltà, le quali possono, in parte, essere risolte con la lettura a voce alta praticata dagli antichi. Se infatti, di fronte a parole che, scritte, possono indicare cose diverse (per esempio, il gruppo s-f-r può significare sia “libro” sia “barbiere”), il testo viene letto a voce alta, quindi completandolo con vocali, è possibile interpretarlo e consegnarlo a chi ascolta. La lettura ad alta voce è quindi già un’interpretazione.
Un esempio celeberrimo è il passo di Isaia 40,3 (“voce che chiama nel deserto”) che ha generato differenze interpretative fra ebrei e cristiani, differenze dovute, stavolta, a una diversa punteggiatura. Come si deve leggere questo passo? Una possibilità potrebbe essere: “Una voce chiama: nel deserto preparate la via del Signore”; un’altra possibilità: “Una voce chiama nel deserto: preparate la via del Signore”. E’ ovvio che mettere dei segni di interpunzione in un luogo o in un altro è già un’interpretazione. Credo che una delle tecniche per una lettura il più possibile precisa sia costituita dai cosiddetti parallelismi della poesia biblica, che permettono di capire come dividere il verso.
Ma ci sono altre tecniche interpretative. Una è la traduzione. Si tratta di una pratica difficilissima perché l’ebraico biblico contiene omonimie e polisemie diverse da quelle delle lingue occidentali; di conseguenza, il traduttore deve fare una scelta che, per forza di cose, già interpreta il testo: è inevitabile. Moltissime sono le traduzioni della Bibbia: quella dei Settanta, quella siriaca e quelle aramaiche; nella tradizione ebraica si fa più spesso riferimento a quelle aramaiche, alcune delle quali (per esempio quella di Onkelos) sono molto corrette, mentre altre rielaborano il testo con arricchimenti.
A questo punto ci dobbiamo chiedere: a cosa serve interpretare ed elaborare il testo? Nella tradizione ebraica due sono le operazioni legate alla lettura. La prima è capire un messaggio dal quale trarre affermazioni di principio oppure  norme di comportamento.
Un esempio ci viene dal Talmud e riguarda le norme sabbatiche. Il Talmud dice che le norme sabbatiche sembrano una montagna appesa a un capello, laddove la montagna è l’insieme delle norme, mentre il capello è l’insieme della Torah. L’affermazione significa che c’è pochissima miqrà, cioè pochissima lettura, e moltissime norme: quelli che hanno emesso queste norme ritengono di aver trovato delle precise allusioni nel testo biblico. Questo è uno degli scopi di questa elaborazione.
Ma la questione è più complicata, perché a volte il problema è quello di trovare nel testo biblico una conferma a certe opinioni o posizioni formate a priori e indipendentemente dal testo stesso.
Un esempio ci è fornito dal lungo dibattito intercorso tra la scuola di Hillel e quella di Shammai (siamo nel periodo a cavallo tra il I sec. a.e.v. e il I sec. e.v.), più aperta e riformatrice la prima, decisamente rigorista la seconda. Le due scuole discussero per due anni su un argomento fondamentale: meritava l’uomo di essere creato? Abbastanza prevedibilmente, la risposta della scuola di Hillel era affermativa, mentre era negativa quella di Shammai. Il compromesso a cui giunsero, sulla base naturalmente dell’esame delle scritture, fu che, effettivamente, forse l’umanità non meritava di essere creata, ma ormai, visto che la creazione era avvenuta, almeno ci si facesse un esame di coscienza. Le due posizioni chiaramente non sono tratte dal testo biblico, sono tesi filosofiche formulate a priori, ma dal testo biblico cercano conferma.
A questo punto però è inevitabile porsi una domanda: se il midrash contribuisce in questo modo ad una o più visioni del mondo, queste esistono davvero oppure sono solo frammenti di visioni che noi cerchiamo, un po’ artificiosamente, di cucire insieme? Se infatti si trattasse di testi occidentali, noi troveremmo delle monografie, dei trattati, un dialogo platonico, un trattato aristotelico. Nei testi biblici invece esistono solo allusioni e spunti dai quali bisogna trarre qualche cosa. E qui torniamo al nostro primo midrash.
La Bibbia comincia con la parola bereshit (lettera beth), che si traduce “nel principio”. La traduzione è sicuramente corretta, se non fosse che la lettera beth in ebraico non esprime soltanto un’indicazione di luogo (“nel principio”), ma anche un significato strumentale (per esempio: “io scrivo con [be-] la penna”. E allora mi viene il dubbio che reshit, oltre che “principio”, voglia dire qualche altra cosa e che il primo versetto della Bibbia possa essere letto così: “con l’ausilio del reshit Dio creò il cielo e la terra”. Come possiamo capirlo?
Qui ci viene in soccorso la tecnica tipica del midrash: per capire in che modo intendere ciò che può avere più significati (per esempio il nostro reshit), bisogna andare in cerca, nel testo biblico, di altre circostanze in cui compaia la medesima espressione con allusione a qualcos’altro. E state sicuri che si trova. C’è infatti un passo in cui si dice, con riferimento alla sapienza: “Il Signore mi ha acquisito come reshit”. Da qui si sviluppa un ulteriore midrash, che dice: “La Torah, che è la sapienza, e che è chiamata reshit (« primizia »), preesisteva al mondo”. Ne consegue allora che quel primo verso andrebbe letto: “Per mezzo della Torah (reshit) Dio creò il mondo”. E guarda caso c’è un midrash che dice: “Dio, come un famoso architetto, guardava la Torah e creava il mondo”. Si tratta insomma di un progetto che preesiste al mondo. Ciò è confermato dal fatto che il verbo ‘amar (“Dio disse”) può significare anche “progettare”. L’esempio lo troviamo nella Bibbia stessa: quando infatti nella cosiddetta Cantica del mare (Esodo 15) si parla del nemico egiziano che voleva inseguire gli ebrei, in genere si traduce: “Il nemico ha detto: Inseguirò, raggiungerò, dividerò il bottino” (Esodo 15,9). Ma che significa: Il nemico ha detto? A chi l’ha detto? A se stesso? Sarebbe meglio tradurre: “Il nemico ha progettato…”.
Cosa ne possiamo concludere? Che se sposiamo una tesi esposta con metodologia midrashica, dovremo poi svilupparla coerentemente, mentre se ne sposiamo un’altra, allora la svilupperemo in altro modo. Non si può sposare una tesi e poi svilupparla seguendo un’altra metodologia. Non esiste la verità, esiste la mia interpretazione e le vostre. Io sceglierò quella che mi permetterà un’unica lettura per la maggior parte dei versi e non quella che richieda interpretazioni diverse, perché ciò potrebbe significare che la mia comprensione non è corretta.
Tuttavia, nel momento in cui si stabilisce che possono esistere delle tesi e dei punti di vista generali che cercano una loro conferma nel testo biblico, si corre il rischio di  entrare in un pericoloso circolo vizioso. Farò un esempio: la canonizzazione della Bibbia è stata compiuta dai maestri sulla base di determinati criteri a priori, tra i quali quelli che prevedevano la canonizzazione del Cantico dei Cantici; sennonché, dopo la canonizzazione del testo, il Cantico dei Cantici viene usato per trarre conclusioni che sono implicite nei criteri che sono serviti per canonizzarlo. Evidentemente, se è stato canonizzato, è proprio perché a priori esisteva un punto di vista generale nel quale questa operazione rientrava perfettamente. Quindi non si può poi percorrere a ritroso la strada e dal Cantico dei Cantici trarre delle conseguenze su una visione del mondo, dato che questa era già definita, anzi, proprio grazie a questa si è scelto di canonizzarlo. Come si vede, questo circolo vizioso è spesso inevitabile. Il problema indubbiamente esiste. L’unica risposta che possiamo dare è che la lettura e l’interpretazione abbiano una robusta coerenza, dopodiché, entro questa coerenza, sta a noi sposare l’una o l’altra interpretazione, accettare o rifiutare l’interpretazione dei maestri talmudici e proporne altre.
4. Soffermiamoci ora brevemente sulla tecnica del mashal, termine che potremmo rendere con “metafora”, “parabola”, “allegoria”. Il mashal è una delle forme più importanti del midrash per la lettura del testo biblico. Si tratta di un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni e protagonisti di immediata comprensione per il lettore. Un ottimo esempio è rappresentato dal pastore e dalla pastorella del Cantico dei Cantici, intesi come allegoria del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro devono però essere analoghi a quelli a cui si vuole alludere, secondo una logica, per così dire, di allegorizzante (il mashal) e allegorizzato (nimshal: si tratta della forma passiva del mashal).
5. Un’ultima considerazione. A partire da un certo periodo nella storia della letteratura post-biblica ebraica compaiono delle coppie in discussione fra loro (si è già menzionata la coppia Hillel e Shammai, ma ce ne sono almeno altre cinque o sei) su posizioni polarizzate agli antipodi. Si tratta di un caso o di un espediente letterario per aiutarci a capire le posizione contrapposte? Personalmente ritengo che la verità stia nel mezzo, cioè che si utilizzi una base storica, con personaggi realmente esistiti, per riferire però le loro posizioni portate all’esasperazione. Ciò perché il dibattito fra maestri è ritenuto indispensabile per la comprensione del testo ed è ciò che dà origine alla dottrina orale (la cosiddetta Torah she be ‘al peh). Ma perché la dottrina orale (midrah, Mishna) è oggi reperibile soltanto per iscritto, addirittura in edizioni critiche? Per il fatto che la distinzione tra oralità e scrittura non dipende tanto dal supporto fisico della seconda rispetto alla prima, al punto che posso definire dottrina orale, ad esempio, lo stesso Talmud. La vera distinzione è che l’oralità serve per capire la scritturalità e non viceversa; l’oralità è un dibattito, la scritturalità non lo è. Abbiamo, da una parte, ciò che è in divenire, dall’altra ciò che è valido, stabile, definito, e, quando tutto ciò viene messo in discussione, si fa oralità. La scrittura, proprio per il suo carattere di immutabilità e stabilità, se presa da sola potrebbe essere idolatrata. La storia ebraica è ricca di esempi in materia. Ne cito tre particolarmente emblematici. Il primo è lo scontro tra sacerdoti e profeti a proposito del vero culto da presentare a Dio. Il secondo, più tardi, è lo scontro tra Sadducei e Farisei circa l’interpretazione e l’applicazione della cosiddetta “legge del taglione”: gli uni la ritenevano applicabile alla lettera in termini di ritorsione, gli altri la leggevano in termini di risarcimento. La stessa diatriba tra lettura letterale e lettura interpretata si svilupperà verso il 700 dell’era volgare tra i Karaiti e i Rabbaniti. Da una parte una lettura letterale, dall’altra una lettura interpretata; insomma una lettura rigida, che non lascia spazio alla necessità umana, di fronte ad una lettura che invece salvaguarda il principio e lo lascia sviluppare. Solo in questo secondo caso la lettura  può acquistare un significato più puntuale e diventare parte della vita spirituale e intellettuale di ognuno.
Credo, insomma, che la sola lettura portata a dogma assoluto apra le porte al fondamentalismo e che l’oralità, invece, con la sua partecipazione attiva, ne sia l’antidoto più efficace. La lettura del midrash, quindi, non è semplicemente leggere un testo, non è impararlo a memoria, ma è un invito a procedere con uno scopo e con una metodologia ben precisi nella lettura dei testi: questa è la sintesi, difficilissima, ma affascinante.
Lo illustra molto bene una tipica discussione talmudica. Due persone stanno camminando nel deserto, ma hanno acqua solo per uno. Cosa devono fare? Risponde un maestro: “bevano entrambi e nessuno veda la morte del fratello”. Risponde un altro: “beva uno e si risparmi almeno una vita, perché, se bevono entrambi, perdiamo due vite”. Come si vede, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Come si risolve il problema? Io ribalterei la domanda: tu come risolveresti il problema? Con questo voglio dire che il Talmud non dà risposte, non è una guida turistica, ma pone problemi con cui misurarsi responsabilmente. La letteratura midrashica, quindi, ci chiama al compito di scegliere, anche nell’interpretazione, tra più possibilità.
Un compito faticoso, certo ma anche molto affascinante.
 
 Luciano Zappella

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 28 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

God gives the law and covenants to his people – Chagall

God gives the law and covenants to his people - Chagall dans immagini sacre 20%20CHAGALL%201960%2066%20MOISE%20RECEVANT%20LES%20TABLES

http://www.artbible.net/1T/Exo1901_Law_covenants/index_10.htm

Publié dans:immagini sacre |on 27 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

SOLO DIO È BUONO (Gdc 9,6-15; l’apologo di Iotam)

dal sito:

http://alftroll.wordpress.com/2009/08/19/solo-dio-e-buono/

SOLO DIO È BUONO

(19 agosto 2009, letture: Gdc 9,6;15; Sal 20; Mt 20, 1-16

Gdc 9,6-15
Avete detto: Un re regni sopra di noi. Invece il Signore, vostro Dio, è vostro re.

Dal libro dei Giudici

In quei giorni, tutti i signori di Sichem e tutta Bet Millo si radunarono e andarono a proclamare re Abimèlec, presso la Quercia della Stele, che si trova a Sichem.
Ma Iotam, informato della cosa, andò a porsi sulla sommità del monte Garizìm e, alzando la voce, gridò: «Ascoltatemi, signori di Sichem, e Dio ascolterà voi!
Si misero in cammino gli alberi
per ungere un re su di essi.
Dissero all’ulivo:
“Regna su di noi”.
Rispose loro l’ulivo:
“Rinuncerò al mio olio,
grazie al quale
si onorano dèi e uomini,
e andrò a librarmi sugli alberi?”.
Dissero gli alberi al fico:
“Vieni tu, regna su di noi”.
Rispose loro il fico:
“Rinuncerò alla mia dolcezza
e al mio frutto squisito,
e andrò a librarmi sugli alberi?”.
Dissero gli alberi alla vite:
“Vieni tu, regna su di noi”.
Rispose loro la vite:
“Rinuncerò al mio mosto,
che allieta dèi e uomini,
e andrò a librarmi sugli alberi?”.
Dissero tutti gli alberi al rovo:
“Vieni tu, regna su di noi”.
Rispose il rovo agli alberi:
“Se davvero mi ungete re su di voi,
venite, rifugiatevi alla mia ombra;
se no, esca un fuoco dal rovo
e divori i cedri del Libano”».

OMELIA

Commento da lachiesa.it

La Bibbia non manca di realismo. Ci aiuta a non sopravvalutare le istituzioni umane, spesso le ridimensiona, offrendoci in proposito vedute contrastanti, che ci preservano da entusiasmi troppo facili.
Nella prima lettura di oggi l’apologo di Iotam presenta l’istituzione della monarchia in modo dispregiativo, anzi sarcastico. Gli alberi racconta Iotam vogliono crearsi un re. Evidentemente hanno della monarchia un concetto alto: per farlo re cercano un albero di grandi qualità, di grandi capacità, perché occorre che il re sia il migliore di tutti. Si rivolgono quindi all’ulivo, che produce l’olio, derrata tanto preziosa, l’olio che nutre, l’olio che serve per preparare rimedi, per preparare profumi, l’olio che può anche dare una fiamma che illumina. Ma l’ulivo rifiuta di diventare re. Si rivolgono al fico, il cui frutto è così squisito; il fico rifiuta. Si rivolgono alla vite: “Vieni, regna su di noi!”, ma anche la vite rifiuta. Perché? Perché tutti questi alben hanno un concetto bassissimo del compito di un re: dicono che il re “si agita al di sopra degli alberi”.
L’ulivo risponde: “Rinunzierò forse al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. Così viene descritta la funzione del re, la posizione del re: agitarsi al di sopra degli altri. E il fico: “Rinunzierò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito e andrò ad agitarmi sugli alberi?”.
E una grande lezione di umiltà per gli ambiziosi che aspirano al potere per essere al di sopra degli altri. Devono prendere coscienza della relativa sterilità della loro posizione. Comandare di per sé non è un’attività produttiva; se non ci fossero altre persone che lavorano, che producono, chi comanda non servirebbe a niente.
D’altra parte però è indispensabile che vi siano amministratori, dirigenti, capi politici, per far sì che gli sforzi produttivi degli altri contribuiscano a un’opera comune e non si perdano in diverse direzioni, non siano contrastanti tra di loro. L’autorità però deve essere un servizio, un servizio effettivo, non un vano agitarsi al di sopra degli altri, non uno sfruttamento egoistico delle capacità altrui, non un dominio ispirato alla superbia. L’autorità deve essere un servizio. “Chi è il più grande tra voi ha detto Gesù diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve” (Lc 22, 26). La vera grandezza consiste nel servire umilmente, per amore. È la grandezza di Cristo, che non ritenne come un privilegio da conservare la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò se stesso, fattosi obbediente fino alla morte di croce (cfr. Fil 2, 8ss.). Umiliò se stesso, per mettersi al servizio di tutti, per dare la vita in riscatto di tutti, per diventare il Servo di Jahvè, diventare il nostro Signore e fratello grazie a questo servizio.

La regalità in Israele (Rinaldo Fabris)

dal sito:

http://www.dimensionesperanza.it/bibbia/item/3268-13-la-regalita-in-israele-rinaldo-fabris.html

La regalità in Israele (Rinaldo Fabris)

Il testo attuale presenta l’origine della monarchia in Israele come direttamente derivata dall’iniziativa di Dio che ha visto l’afflizione di Israele e ha udito il loro grido.
L’espressione malak JHWH, “il Signore regna”, ricorre soprattutto nei Salmi regali, in cui si riconosce l’azione sovrana di Dio (Sal 93-99). La regalità di Dio si manifesta nella creazione (Sal 146,10), nella storia di liberazione (Es 15,18), e nel giudizio finale in cui Dio rende giustizia agli oppressi (Sal 96,13). Sullo sfondo della regalità di Dio viene interpretata anche l’esperienza storica della regalità in Israele.
Ambivalenza della regalità: Saul
Dopo le figure carismatiche dei Giudici, che Dio suscita per liberare il suo popolo dai predoni del deserto o dalla minaccia dei Filistei della costa mediterranea, il primo tentativo di creare un re si ha con il figlio di Gedeone, Abimelech, che si fa eleggere “re” dagli abitanti di Sichem. Con l’apologo di Iotam, ultimo figlio di Gedeone – parabola degli alberi che si mettono in viaggio per eleggere un re – si esprime critica al regime monarchico considerato “inutile e dannoso” come il rovo che non offre ombra per ripararsi, ma alimenta il fuoco distruttore (Gdc 9,7-20)
Nel primo Libro di Samuele, dove si racconta la storia di Saul si nota una tendenza filomonarchica – racconto profetico – e una tendenza antimonarchica, rilettura deuteronomistica (1Sam 8,1-22). Il testo attuale presenta l’origine della monarchia in Israele come direttamente derivata dall’iniziativa di Dio che ha visto l’afflizione di Israele e ha udito il loro grido. Saul riceve l’unzione regale per mezzo di Samuele per liberare il popolo di Dio dai suoi nemici (1Sam 9,1-20). Ma alla fine Saul viene respinto perché non ha obbedito alla parola del Signore e ha usurpato il potere religioso. Infatti non ha atteso la venuta di Samuele a Galgala per fare il sacrificio e non ha applicato il h?erem, “sterminio”, contro il re degli Ameleciti (1Sam 13,7-15; 15,1-35).
L’ascesa di Davide (1Sam 16,1-31,13)
Con il rigetto di Saul, al centro del racconto si trova Davide. L’unzione segreta per mano di Samuele introduce Davide come colui che è destinato alla regalità (1Sam 16,1-13). Il testo riflette la crescente tensione tra Saul e Davide. Il successo di Davide è dovuto al fatto che lo spirito del Signore è con lui. Davide avanza nel vuoto di potere lasciato da Saul e opera per liberare Israele. Il racconto mostra che la volontà di Dio porta Davide al trono. Nel testo attuale sono combinati due racconti: uno, di tipo popolare – il giovane pastore diventa l’eroe della battaglia, si guadagna il favore del re e la mano della sua figlia – l’altro più teologico funge da preludio all’ascesa di Davide al trono di Israele. Dopo la sua vittoria su Golia e la dimostrazione del suo carisma, Davide è accolto nella corte di Saul e si lega in amicizia con Gionata.
Saul prevede e teme che Davide prenda il regno. Spinto dalla gelosia tiene sotto osservazione l’uomo che percepisce come il proprio rivale. Il tormentato re cerca di uccidere il suonatore di lira che è in grado di calmarlo; l’uomo che può salvare il popolo è minacciato dalla perfidia di un re che non può più salvare. Saul offre la mano della figlia maggiore – Mikal – a Davide, ma a una condizione che deve essere un trappola per Davide: Saul spera che sia ucciso combattendo contro i Filistei. Non essendo riuscito a far uccidere Davide per mano dei Filistei, Saul ordina di farlo ai suoi soldati e a suo figlio. Ma Gionata riesce ad ottenere la riconciliazione. Il racconto presenta l’atteggiamento omicida di Saul nei confronti di Davide e sottolinea che Davide non si è macchiato del minimo atto di slealtà. Dopo la riconciliazione, i successi di Davide motivano la rinnovata gelosia di Saul. Gionata si convince dell’ostilità di Saul nei confronti di Davide. Perciò gli atti di guerriglia compiuti da Davide gli sono imposti dal comportamento di Saul.
Davide diventa capo guerriglia a causa della persistente ostilità omicida di Saul che gli dà la caccia. Alla fine egli esce dal proprio paese e fa alleanza con uno dei capi dei Filistei. Ma nonostante l’occasione propizia Davide risparmia la vita di Saul (1Sam 24.26). Costretto alla clandestinità, ma coronato da successo come capoguerriglia, Davide rispetta il re che lo insegue implacabilmente. Saul è stato respinto da Samuele e Davide è stato consacrato da lui. Ma Davide non ha preso nessuna iniziativa per diventare re. La sua ascesa al trono è tutta opera del Signore. La storia procede su due registri paralleli e antitetici: Davide che si è rifugiato presso i Filistei, viene cacciato; Saul presso la profetessa di Endor, consulta lo spirito di Samuele, che gli conferma la sua rovina; Davide è vincitore nella guerra contro gli Amaleciti, mentre Saul è sconfitto dai Filistei. Il racconto culmina con la morte di Saul e di suo figlio Gionata, sui monti Gelboe.
Davide, re sopra Giuda e Israele (2Sam 1,1-5,25)
Il riconoscimento e l’unzione regale di Davide a Ebron da parte delle tribù di Giuda e di Israele corona la definitiva ascesa al trono del figlio di Iesse. Il racconto inizia con l’annuncio della morte di Saul e di Gionata sui monti Gelboe. Un Amalecita reca a Davide questa notizia a Davide assieme alla corona di Saul, al quale egli ha dato il “colpo di grazia”. Ma Davide ordina di ucciderlo, perché ha ucciso “il consacrato del Signore” (2Sam 14). Davide esprime il suo dolore con una elegia – qinâh – tratta da un’antica raccolta di canti – il “Libro del giusto” (cf. Gs 10,13) – dove si celebra la “caduta degli eroi” (ritornello ripetuto tre volte).
Davide sceglie Ebron per la sua posizione strategica e per i ricordi dei patriarchi (tomba di Abramo). Da questa regione provengono due mogli di Davide. Continua la lotta tra la casa di Davide e quella di Saul che ha nel comandante Abner il sostenitore più forte e astuto. Dopo il regno effimero di Ish-Baal (un figlio di Saul) – regna solo due anni – Abner entra in trattative con Davide, fino a quando Joab, il comandante delle guardie di Davide, lo uccide proditoriamente (2Sam 3,2234). Anche Ish-Baal viene ucciso a tradimento da suoi capi di bande armate. Questi portano la testa del re ucciso a Davide, che però li fa mettere a morte e dà degna sepoltura a resti di Ish-Baal in Ebron (2Sam 4,1-12).
La guerra civile tra la casa di Saul e quella di Davide si conclude con il suo riconoscimento e unzione regale da parte delle tribù di Israele a Ebron (2Sam 5,1-5). Un evento di grande importanza è la conquista della cittadella controllata dai Gebusei e che diventerà la “città di Davide”. Si tratta della collina orientale di Gerusalemme, posta al centro della regione montuosa. Il generale Joab se ne impossessa passando attraverso il tunnel – ebr. sinnôr – che collega la roccaforte con l’unica fonte di Gerusalemme, il Gichon (2Sam 5,6-8). Davide vi fa costruire il palazzo di cedro e stabilisce la sua dimora (2Sam 5,9-16).
La promessa di un discendente nella casa di Davide (2Sam 6,1-7,29)
Nella prospettiva dell’autore deuteronomistico il racconto del trasferimento dell’arca nella città di Davide legittima la scelta di Gerusalemme come nuova capitale del regno unificato. Il profeta Natan annuncia la costruzione del tempio ad opera di Salomone e promette la perpetuità alla stirpe davidica. Trono e altare sono indissolubilmente uniti nella storia di tragedie e speranze di Israele. Il trasporto dell’arca avviene in due tempi: prima da Kiriat-Iearim alla casa di Obed-Edom, poi tre mesi dopo a Gerusalemme in un solenne processione popolare guidata dallo stesso re Davide, cantore, danzatore e sacerdote officiante (2Sam 6,1-23). L’accenno finale alla rottura di Davide con Mikal, la figlia di Saul, prepara l’intervento del profeta Natan, seguito da una preghiera di benedizione da parte di Davide (2Sam 7,1-17.18-29). Il testo attuale si basa su un antico oracolo dinastico che è stato riletto successivamente alla luce degli eventi storici. Davide non ha costruito il tempio perché troppo impegnato nelle guerre (cf. 1Re 8,18; 1Cr 22,8; 28,3).
D’altra parte i profeti criticano il tempio che sarà travolto assieme alla casa regnante nella storia di infedeltà religiosa al Dio dell’esodo e dell’alleanza. La parola profetica di Natan fa leva sul termine ebraico bayt, che significato “casa/tempio” e “casato/stirpe. Il rapporto tra Dio la stirpe davidica è formulato in termini di alleanza: «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» (2Sam 7,14). Il favore – h?esed – di Dio assicura la perpetuità alla discendenza – zera‘ – davidica. Su questi temi si innesta la speranza messianica biblica ripresa nel NT (Lc 1,32.35).

12345...14

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01